FONTE : http://www.counterpunch.org/2011/05/27/breakup-of-the-eurozone/
Lo scorso mese l’Islanda ha votato contro l’accettazione delle richieste britanniche e olandesi che avrebbero rimborsato le agenzie di assicurazione bancarie nazionali per aver “salvato” i propri correntisti di Icesave. È stata la seconda votazione contro quest’accordo (con un coefficiente di 3 a 2) e la convinzione degli islandesi di rimanere membri dell’eurozona è scesa al 30 per cento. Il comune sentire è che i politici europei sono intervenuti in soccorso dei banchieri e non degli interessi della società, cosa che gli islandesi pensavano fosse la strada da seguire, come già stabilito nel 1957 con la formazione della Comunità Economica Europea.
L'Europa ha messo in dubbio l’adesione dell’Islanda a causa dell’imposizione dell’austerità finanziaria e della povertà alla popolazione, tutto questo per farle pagare soldi che legalmente non doveva a nessuno. Il problema è quello di trovare un tribunale imparziale che voglia applicare le leggi esistenti per attribuire le responsabilità a chi effettivamente le ha.
La ragione per cui l’UE ha combattuto così duramente per far prendere al governo islandese la responsabilità dei debiti di Icesave è quello che i creditori chiamano “contagio”. L’Irlanda e la Grecia devono affrontare un ammontare del debito sempre più elevato. La “troika” dei creditori europei – la Banca Centrale Europea (BCE), la Commissione Europea e il FMI – ritiene che la cancellazione del debito e la tassazione progressiva per proteggere le economie interne sia una malattia contagiosa.
Come la Grecia, l’Irlanda ha chiesto un allentamento del debito per far sì che il governo non fosse obbligato a tagliare la spesa nel corso di una recessione sempre più acuta. “La stampa irlandese ha riportato che i funzionari dell’UE “hanno perso la testa” quando i negoziatori irlandesi hanno chiesto di allargare la condivisione del peso del debito. La Banca Centrale Europea teme che una mossa del genere possa provocare un contagio nei mercati del debito dell’Europa meridionale”, così ha scritto un giornalista, avvertendo che le conseguenze dello sconsiderato incameramento del debito pubblico nel bilancio dello Stato possa minacciare di far fallire l’economia.
L’Europa – in verità, le banche tedesche e olandesi– si è rifiutata di lasciare che i governi diminuissero progressivamente i debiti che si erano accollati (eccetto che per minori e meno politicamente influenti correntisti): “I commenti sono usciti subito dopo che le autorità dell’UE hanno imposto i tagli alle richieste degli investitori in Irlanda, rendendo questa una condizione obbligata per la concessione del pacchetto di prestiti pari a 85 miliardi di euro. Dublino ha imposto l’80 per cento di tagli ai creditori subordinati di Anglo Irish Bank ma non intende fare questo con i creditori privilegiati, che sono considerati intoccabili.” (Ambrose Evans-Pritchard, Daily Telegraph)
Per portare vantaggi all’Europa – almeno ai suoi banchieri – c’è un principio da seguire: i governi devono guidare le proprie economie a beneficio delle banche e dei possessori delle obbligazioni. Dovrebbe “salvare” almeno i creditori privilegiati delle banche che falliscono (si tratta dei più grossi investitori istituzionali e degli speculatori) e pagare questi debiti, pubblici e privati, vendendo le aziende e aumentando le imposte che colpiscono il lavoro. Per mettere in pareggio i propri bilanci devono tagliere i programmi di spesa, diminuire il numero dei dipendenti pubblici, gli stipendi e aumentare le tariffe dei servizi pubblici, dalla sanità all’educazione.
Il programma di austerità (il “salvataggio finanziario”) è arrivato a un punto critico proprio un anno fa quando nel maggio del 2010 fu proposto alla Grecia un pacchetto di salvataggio per 110 miliardi di euro. Insoddisfatta della lentezza con cui si era mossa per sfregiare la propria economia, la BCE ha suggerito alla Grecia di iniziare a privatizzare un valore di 50 miliardi di euro entro il 2015. Le prime svendite dovevano essere quelle delle più importanti infrastrutture turistiche e quelle delle presenze del governo nel monopolio delle scommesse (OPAP), del settore postale, dei porti di Atene e di Salonicco, della Compagnia di Fornitura dei servizi di Fognatura e Acqua Potabile di Salonicco e del monopolio dei telefoni. Jean-Claude Juncker, Primo Ministro del Lussemburgo e direttore del gruppo dei ministri delle Finanze dell’Eurozona, ha avvertito che, solo nel caso in cui la Grecia acconsenta alla vendita dei suoi beni (“per consolidare il suo bilancio”), l’UE acconsentirà ad allungare le scadenze dei prestiti concessi per “salvarla” dal default.
Il problema è che la privatizzazione e la tassazione regressiva alza il costo della vita e quello per fare gli affari. Tutto ciò rende l’economia meno competitiva e di conseguenza meno solvibile nel pagare i debiti che stanno accumulando gli interessi, portando così nella direzione di un default ancora più marcato.
La risposta da manuale della finanza, quella di chiedere continuamente dazio, è una condotta predatoria. I paesi del Terzo Mondo hanno già pagato sulla loro pelle, con una progressione partita dagli anni ’70, le conseguenze distruttive dei programmi di austerity del FMI. L’Europa sta adesso ripetendo lo stesso schema.
Il potere finanziario vuole fare quello che le conquiste militari hanno ottenuto nel passato.
Nel pretendere di rendere le economie più “competitive”, il vero obbiettivo è sotto gli occhi di tutti: racimolare abbastanza denaro per far sì che i possessori delle obbligazioni (e quindi, gli elettori) non siano obbligati ad affrontare il fatto che molti debiti non siano rimborsabili a meno che non si renda l’economia totalmente dipendente dal debito, da una regressione dell’imposizione fiscale e dal peso delle privatizzazione dei beni pubblici per essere competitivi. I tagli alla spesa e la regressione dell’imposizione fiscale assottigliano nel lungo termine il capitale per gli investimenti e la produttività. Queste economie sono guidate come le aziende che sono rilevate dagli speculatori dei leverage del debito, che tagliano e esternalizzano la forza lavoro per ottenere fondi sufficienti per pagare i propri creditori, che arraffano il possibile e poi scappano. La componente tattica di questo attacco finanziario non è più lo schieramento aperto delle forze come avveniva in passato, ma qualcosa di meno impegnativo perché le sue vittime si sottomettono volontariamente.
Ma ora le vittime designate della finanza predatoria stanno vendendo cara la pelle. Ma gli attaccanti non stanno perdendo uomini e eserciti, ma sono i bilanci ad essere messi in pericolo, e di conseguenza le loro reti di solvibilità. Quando i sindacati greci – specialmente nelle imprese pubbliche che sono state privatizzate -, il Partito Socialista al governo e altri partiti minori hanno rigettato questi sacrifici, i funzionari dell’Eurozona hanno richiesto che il progetto finanziario venisse posto in essere da tutti i partiti politici per fissare “un accordo di tutto lo schieramento per una qualsiasi ipotesi di salvataggio.” In altre parole, la Grecia deve rispondere all’ondata di scioperi e di proteste di piazza con la sospensione dell’attività dei partiti e della democrazia economica. “Il governo e l’opposizione devono dichiarare congiuntamente che si impegnano nel rispetto degli accordi di riforma con l’UE”, ha spiegato il signor Juncker a Der Spiegel.
Criticando il ritardo del Primo Ministro, George Papandreou, nella vendita dei beni dello Stato, i leader finanziari europei hanno proposto l’istituzione di un’agenzia nazionale per le privatizzazioni che agisca da intermediario per trasferire gli incassi derivati da queste vendite ai creditori stranieri e per diminuire il debito pubblico, e di impegnare i propri beni per essere come collaterali nel caso di un default dei pagamenti verso i possessori dei titoli di Stato. Nel suggerire che il governo “stili un’agenda per privatizzare i beni pubblici sulla riga della Treuhandanstalt tedesca che ha venduto le imprese della Germania Est negli anni ‘90”, il signor Juncker ha pensato che “la Grecia potrebbe ottenere dalle privatizzazioni più dei 50 miliardi di euro stimati” (Evans-Pritchard).
I banchieri europei stanno puntando lo sguardo sulle vendite di circa 400 miliardi di dollari di asset della Grecia, sufficienti per azzerare i debiti del governo. Se i pagamenti non verranno effettuati, la BCE ha minacciato di non accettare le obbligazioni del governo greco come garanzie. Questo impedirebbe alle banche greche di continuare nella propria attività, distruggendo il sistema finanziario e paralizzando l’economia. Questa minaccia è stata fatta per approvare “democraticamente” le privatizzazioni, seguite poi dalla disgregazione dell’unità sindacale e dall’abbassamento dei salari (“svalutazione interna”). “Jan Kees de Jager, il ministro delle Finanze olandese, ha proposto che tutti gli ulteriori prestiti alla Grecia debbono essere concessi con accordi sui collaterali, per mezzo dei quali le nazioni europee prestatrici possono rilevare gli asset della Grecia nel caso di un default.” (Peter Spiegel, Financial Times).
Il problema è che il default è in fondo inevitabile per il fatto che il governo è stato messo in un angolo a causa delle deregolamentazioni del settore bancario e per i tagli alle tasse di proprietà e alla progressività del sistema fiscale. Il default diventerà sempre più pressante anche nel caso in cui la BCE stacchi la spina.
La BCE impedisce ai governi di finanziare la propria spesa
L’introduzione dell’euro nel 1999 ha esplicitamente vietato alla BCE e alle banche centrali di finanziare i deficit interni. Questo significa che nessuna nazione ha una banca centrale che sia in grado di fare quello per cui sono state create le analoghe banche di Gran Bretagna e degli Stati Uniti: monetizzare il credito alle banche. Il settore pubblico è ormai dipendente dalle banche commerciali e dai possessori delle obbligazioni. Per questi ultimi si tratta di una manna, perché si sono annullati tre secoli di tentativi per creare un’economia finanziariamente ed economicamente mista con la privatizzazione del monopolio della creazione della moneta. Gli investimenti di capitale nei monopoli di Stato sono ora venduti agli speculatori: nel credito, il vincitore è quello che promette di pagare la maggior parte degli interessi ai banchieri per assorbire la “tassa all’ingresso” (“rendita finanziaria”) nel sistema.
La politica è diventata finanziarizzata mentre le economie sono state privatizzate. La strategia finale era quella di togliere la progettualità dell’economia dalle mani dei rappresentanti eletti delle democrazie per centralizzarle in quelle dei manager della finanza. Ciò che Benito Mussolini definiva “corporativismo” negli anni ’20 (per dargli una definizione educata) è stato ora raggiunto dalle più grande banche e istituzioni finanziarie europee, con l’eufemismo dell’“economia del libero mercato”.
Il linguaggio si adatta per riflettere la trasformazione politica ed economica (la resa?) in atto. L’”indipendenza” delle banche centrali è stata dipinta come un “segno della democrazia”, non come una vittoria delle oligarchie finanziarie. Il compito della retorica è quello di sviare l’attenzione dal fatto che l’obbiettivo del settore finanziario non è quello di rendere “liberi” i mercati ma quello di affidarne il controllo nelle mani dei dirigenti della finanza, la cui logica è quella di soggiogare l’economia all’austerità e persino alla recessione, di svendere le aziende e i terreni pubblici, di far tollerare l’emigrazione e di ridurre il tenore di vita mentre si realizza una sempre maggiore concentrazione della ricchezza nella vetta della piramide economica. L’idea è quella di tagliare il numero dei dipendenti pubblici e gli stipendi dei settore pubblico, per poi abbassare anche le richieste del settore privato, mentre si tagliano i servizi sociali.
La contraddizione interna (come direbbero i marxisti) è che la massa del peso degli interessi deve sempre crescere, interessi che vengono poi reinvestiti per ottenerne altri. Questa è la “magia” o il “miracolo” degli interessi composti. Il problema è che il pagamento degli interessi sposta il denaro al di fuori del flusso circolare tra la produzione e il consumo. La legge di Say dice che le somme versate dai produttori (ai dipendenti o ai fornitori di beni materiali) devono essere spesi, in aggregato, per comprare quello che il lavoro o il capitale tangibile produce. Altrimenti c’è una saturazione del mercato e gli affari si riducono, con la rete del debito del settore finanziario che fa la parte del leone.
Il sistema finanziario si intromette in questo flusso circolare. Le quote spese per pagare i creditori non vengono impiegate nei beni e nei servizi; sono reinvestite in nuovi prestiti, o in azioni e obbligazioni (che sono beni finanziari o diritti di proprietà a carico dell’economia) o per aumentare la “scommessa” (il “toto-capitalismo” dei derivati), il carry trade internazionale (ossia l’arbitraggio tra i tassi di cambio e i tassi d’interesse) e altre pratiche finanziarie che sono indipendenti dall’economia della produzione e del consumo. Così, mentre gli asset finanziari accumulano interessi – sostenuti dalla nuova creazione di credito dalle tastiere dei computer delle banche commerciali e delle banche centrali– il rastrellamento finanziario dall’economia “reale” aumenta.
L’idea di rimborsare i debiti senza tener conto dei costi sociali si affida su modelli matematici complessi come quelli usati dai fisici per progettare i reattori nucleari. Ma hanno comunque dei vizi di forma abbastanza semplici da essere compresi anche da uno studente di matematica delle superiori: si dà per scontato che le economie possano sostenere i debiti che crescono esponenzialmente a un tasso più alto di quanto aumentino la produzione o le esportazioni. Solo ignorando la capacità di pagare – creando un surplus economico che va oltre il punto di equilibrio – si può credere il leverage del debito possa produrre abbastanza profitti “di bilancio” finanziari per pagare le banche, i fondi pensioni e altre istituzioni finanziarie che riciclano i propri interessi in nuovi prestiti. Ci si attende che l’ingegneria finanziaria faccia da guida alla società post-industriale per fare i soldi dai soldi (o piuttosto dal credito) alzando continuamente i prezzi dei beni immobiliari, delle azioni e delle obbligazioni.
Sembra molto più semplice rispetto all’ottenere profitti da investimenti tangibili per produrre e commerciare beni e servizi, perché le banche possono innescare un’inflazione delle quotazioni degli asset con la semplice creazione elettronica del credito dalle tastiere dei propri computer. Fino al 2008 molte famiglie in tutto il mondo hanno visto crescere il prezzo delle proprie case molto più di quanto avrebbero mai guadagnato in una vita di lavoro. Tutto ciò taglia fuori il complesso ciclo M-C-M (usare il capitale per produrre beni da vendere con un profitto) in un ciclo M-M (comprare immobili o beni già realizzati, o azioni e obbligazioni già emesse, e aspettare che le banche centrali spingano in alto i prezzi abbassando i tassi d’interesse e detassando i capitali per permettere agli investitori facoltosi di aumentare la loro richiesta di garanzie finanziarie o di assicurazioni sulle proprietà).
Il problema è che il credito corrisponde a un debito, e i debiti vanno pagati con gli interessi. E quando un’economia paga gli interessi, meno denaro rimane per essere speso in beni e servizi. E così il mercato si stringe e le vendite calano, i profitti precipitano e ci sono meno soldi per pagare interessi e dividendi. La disoccupazione si diffonde, gli affitti diminuiscono, i mutuatari non sono in grado di pagare le rate e il settore immobiliare deve affrontare la discesa dei prezzi.
Quando i prezzi dei beni vanno in picchiata, i debiti rimangono ancora al loro posto. Quando le bolle dell’economia diventano un incubo, i politici portano le (spesso fraudolente) perdite delle banche private nelle pagine del bilancio dello Stato. Tutto ciò sta dividendo i politici e minaccia la frantumazione dell’Eurozona.
Lo scioglimento dell’Eurozona?
Ai paesi del Terzo Mondo, dagli anni ’60 fino agli anni ’90, fu suggerito di svalutare la propria moneta per ridurre il potere d’acquisto dei lavoratori, per poi provocare importazioni di cibo, della benzina e di altri beni di consumo. Ma i membri dell’Eurozona sono imprigionati dall’euro, avendo solo l’opzione della “svalutazione interna”, l’abbassamento degli stipendi per indirizzare i pagamenti verso i creditori che sono in cima alla piramide economica europea.
La Lettonia è spesso citata come un modello di successo. Il suo governo ha tagliato la disoccupazione e gli stipendi nel settore pubblico sono scesi del 30 per cento tra il 2009 e il 2010. I salari del settore privato hanno seguito questo declino. Tutto ciò è stato plaudito come una “storia di successo” e come un’ “accettazione della realtà”. E ora il governo ha approvato un “emendamento alla legge di bilancio” per attuare una tassazione fissa sul lavoro (circa il 59 per cento – ndt: da varie fonti risulta essere il 25 -, con solo l’1 per cento di tassazione sugli immobili). L’ex candidato neoliberista alla presidenza degli USA, Steve Forbes, lo considera sicuramente un paradiso economico.
“Salvare l’euro” è un eufemismo per il salvataggio da parte del governo del ceto finanziario, e con esso viene salvata una dinamica del debito che è vicina alla sua fine, indipendentemente da cosa verrà fatto dopo. Lo scopo è quello di preservare il valore dei debiti di Germania, dei Paesi Bassi, della Francia e delle istituzioni finanziarie (ora consorziate nei fondi predatori). Non ci saranno tagli per loro. Il prezzo dovrà essere pagato dal lavoro e dall’industria.
Le autorità di governo sono quelle che hanno più da perdere. Mentre il demanio pubblico è suddiviso e venduto per pagare i creditori, le politiche economiche sono state tolte dalle mani delle persone democraticamente elette e messe nella mani della BCE, della Commissione Europea e del FMI.
Il tasso di disoccupazione in Spagna è del 20 per cento, appena più di quello dei paesi baltici, ma è il doppio tra i neo-laureati. Ma, come sembra che abbia detto William Nassau sr. dopo che gli era stato riferito che un milione di irlandesi erano morti per la carestia delle patate: “Non è abbastanza!”
Ci potrà mai essere qualcosa che sia abbastanza, un qualcosa che funzioni un po’ più a lungo del breve termine? Quello che ora “aiuta la Grecia a rimanere solvibile” consiste nell’evitare di tassare il valore (i ricchi non stanno pagando) e nel far arretrare gli stipendi mentre si aumentano le imposte sul reddito e il governo (i “contribuenti”, ossia i lavoratori) svendono il territorio e le imprese pubbliche per “salvare” le banche straniere e i possessori di obbligazioni mentre si abbatte la spesa sociale, i sussidi alle industrie e gli investimenti in infrastrutture pubbliche.
Un mio coetaneo amico greco mi ha detto che la sua pensione privata (di una compagnia informatica) era stata tagliata dal governo. Quando suo figlio è andato a riscuotere l’assegno di disoccupazione, era stato ridotto alla metà, perché si pensa che i genitori abbiano comunque il denaro per aiutarlo. Il prezzo della casa che hanno acquistato pochi anni fa è precipitato. Mi hanno detto che non hanno intenzione di rimanere nell’euro più di quanto abbiano dimostrato gli elettori danesi nel voto del mese scorso.
Gli scioperi proseguono. La rabbia cresce. Quando il prossimo direttore del FMI, Christine Lagarde, era ancora ministro del Commercio, suggerì che “la Francia doveva aggiornare il suo metodo di lavoro. I sindacati e gli altri ministri erano riluttanti, e così la signora è ritornata sui suoi passi, dicendo che aveva solo espresso un’opinione personale.” Quest’opinione sta per diventare una politica ufficiale, con il FMI che fa la parte del “poliziotto buono” contro la BCE che fa “il poliziotto cattivo”.
Io credo che la gente debba comprendere che le dinamiche in gioco rendono vani tutti questi tentativi. I creditori sanno a che partita si sta giocando. Tutto quello che possono fare è arraffare il più possibile, fino a quando sarà possibile, pagandosi lauti bonus che non possono essere intercettati dai pubblici ministeri, e correre nelle proprie collocazioni bancarie offshore.
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