Nel mio percorso di revisione dei vecchi articoli del blog, ho trovato un post che io ho pubblicato nel 2011 che tratta un argomento ancora attuale: il sequestro dei beni della Chiesa e altri provvedimenti presi nel periodo risorgimentale.
Perché ancora attuale? Perché l’impronta di quegli eventi ha inciso grandemente in mille modi sulla politica, sulla cultura italiana, in definitiva sulla fisionomia del pensiero e della vita degli italiani, fino a portarci alla prima e seconda guerra mondiale, e così avanti, fino a farci approdare nell’attuale deriva politica, culturale ed antropologica.
Non si trattava della semplice riunificazione dell’Italia ma di cambiare le menti degli italiani.
È importante sottolineare che la Chiesa è stata una delle prime istituzioni a essere colpite da questi avvenimenti, poiché non si trattava soltanto di unificare l’Italia, ma anche di trasformare la mentalità degli italiani.
Per coloro che potrebbero rimanere sorpresi da questa affermazione, consiglio di approfondire l’argomento attraverso la vasta letteratura dedicata a questo tema, con particolare riferimento ai numerosi libri scritti dalla storica Angela Pellicciari. La sua ricerca documentata ha più volte evidenziato che il Risorgimento è stato innanzitutto un movimento contro la Chiesa, mirante a promuovere “cambiamenti d’epoca” senza precedenti.
Quindi ho deciso di riproporre l’articolo quasi identico, con solo alcune aggiunte per contestualizzarlo meglio alla nostra epoca.
Articolo originale pubblicato su recensioni e storia.it – 15 febbraio 2002
“Si sperava di finanziare con il ricavato di quegli espropri le nuove guerre contro il Papa e soprattutto contro l’Austria”
di Roberto Cavallo
“Il naufragio dei chiostri. Conventi di Terra d’Otranto tra restaurazione borbonica e soppressione sabauda”: è il titolo del libro (Besa Editore) con cui Oronzo Mazzotta getta un po’ di luce, con dati d’archivio alla mano, su un capitolo scarsamente conosciuto della nostra storia risorgimentale.
Anche in Italia tutto comincia con la Rivoluzione francese e con la conseguente invasione napoleonica della Penisola. Si attua, negli staterelli giacobinizzati, una prosecuzione della legislazione che in Francia aveva colpito la Chiesa cattolica. Soltanto nella Terra d’Otranto, che è poi l’ambito geografico preso in considerazione dal libro, Gioacchino Murat nel 1809 cancellò 165 conventi sia maschili che femminili (quasi l’86% del totale!): “Mandò a casa oltre 900 religiosi, sacerdoti e laici, e ne incamerò tutti i beni, mobili ed immobili”.
Con la restaurazione borbonica venne sottoscritto nel 1818 il concordato di Terracina tra la S.Sede e il Regno delle Due Sicilie. Con tale trattato una parte dei beni sottratti agli ordini religiosi vennero restituiti alla Chiesa, anche se molte case e terreni erano già stati alienati a privati cittadini e dunque erano diventati difficilmente recuperabili. Era comunque un’indubbia inversione di tendenza, e quantunque lo spirito dell’illuminismo e del giurisdizionalismo non lasciasse del tutto immune la corte napoletana, veniva sancita e garantita di fatto la piena libertà religiosa per le comunità cattoliche meridionali.
Il Mazzotta sottolinea nel suo libro come il popolo reclamasse a gran voce il ripristino dei conventi soppressi.
All’indomani della conquista del Sud e della conseguente Unità d’Italia, l’operazione della soppressione dei conventi si ripeté in modo speculare rispetto a quella francese, medesime essendone le motivazioni ideologiche.
Il 17 febbraio 1861 Eugenio di Savoia, luogotenente del Regno, dichiarava decaduto il concordato di Terracina del 1818 ed estendeva alle province napoletane la legislazione ecclesiastica sabauda del 1855. Beni immobili e mobili furono minuziosamente inventariati e passati al bilancio dello Stato.
Si sperava, fra l’altro, di finanziare con il ricavato di quegli espropri le nuove guerre contro il Papa e soprattutto contro l’Austria che i governi sabaudi andavano progettando; ma gli introiti derivati dalle vendite dei beni ecclesiastici furono ben inferiori a quelli preventivati in bilancio. Chi si avvantaggiò di tutta quell’operazione, che conobbe non pochi momenti drammatici, fu una ristretta cerchia di proprietari e latifondisti, spesso investiti dal Governo di tutte le pubbliche cariche, che con poche lire fecero man bassa dei beni ecclesiastici.
Fu solo la Chiesa con i suoi religiosi a perdere? Sicuramente no.
I terreni della Chiesa erano generalmente concessi in affitto o in enfiteusi, con rare eccezioni di conduzione diretta. A fronte di entrate sicure, i monasteri si accontentavano di canoni modesti e, specie nel caso dell’enfiteusi, più che altro simbolici. La figura giuridica dell’enfiteusi prevedeva inoltre il progressivo miglioramento del fondo.
La soppressione del latifondo ecclesiastico seguita dal nuovo governo unitario, invece che favorire il frazionamento agrario, allargò il latifondo borghese. Scrive il Mazzotta in proposito: “I piccoli proprietari furono di fatto impossibilitati a comprare anche i piccoli lotti. Se erano terre di prima classe, con l’assegnazione al migliore offerente, la concorrenza lievitava il prezzo di base fino a somme che, nonostante la rateizzazione, erano proibitive per chi non aveva capitali. A basso prezzo rimanevano i piccoli lotti di terre scadenti che non garantivano una rendita tale che permettesse di onorare le rate concordate. Era logico che questo tipo di terre non interessando, per opposti motivi, né gli speculatori borghesi e neppure i piccoli proprietari, rimanessero al demanio. Chi trasse vantaggio dai beni della Chiesa, anche questa volta, come nella soppressione francese, non fu lo Stato, ma i privati che disponevano di una forte liquidità”.
Come nel resto d’Europa, la vittoria del liberalismo economico si accompagnava all’affermazione della borghesia, che nell’Italia meridionale era rappresentata soprattutto da quella agraria. Alle spoliazioni dei beni della Chiesa si unì anche una forte azione governativa a sostegno del protestantesimo, per completare così il programma anticattolico conformemente ai principi massonici, che in quegli anni ispiravano la politica italiana. Ma sia pure affamato e costretto all’emigrazione verso le Americhe, il popolo meridionale, e italiano in generale, conserverà la millenaria fede religiosa cattolica, reale contrassegno della propria identità nazionale.
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Il vescovo Luigi Negri ha più volte affrontato queste pagine di storia.
L’esempio più eclatante dell’ingerenza dello Stato nei confronti della Chiesa rimangono comunque le leggi e le conseguenti azioni rivolte contro gli ordini religiosi di natura contemplativa, perché considerati dispendiosi e inutili per la società. La cosiddetta “legge dei frati”, voluta da Cavour per il Regno sabaudo, fu poi estesa all’intera Italia con conseguenze gravissime: «Così in nome e in difesa della libertà dei cittadini, lo Stato impose di forza la soppressione di quasi 4.000 istituti (i beni dei quali vennero incamerati dal demanio), e oltre 50.000 religiosi, che già avevano conosciuto le spogliazioni rivoluzionarie e napoleoniche, si videro nuovamente costretti (con meno apparente violenza ma identico sopruso) ad abbandonare il monastero e concentrarsi in altri luoghi, fino alla loro estinzione. Non è senza significato notare che per tentare di portare alla sua completa realizzazione questo azzeramento dei corpi intermedi religiosi, non bastò una legge, ma furono necessarie in 17 anni ben 132 circolari amministrative del solo Ministero di grazia e giustizia. Un numero impressionante, quasi simbolica dimostrazione che quando uno Stato pretende di eliminare la concreta e libera organizzazione della società per togliere consuetudini e usi che ritiene oppressivi della libertà individuale, è costretto poi a moltiplicare gli interventi diretti per inseguire i suoi disegni di semplificazione, e cercare di adeguarvi a colpi di decreti le libere forme di convivenza messe in pratica dagli uomini». (…)
(Mons. Luigi Negri da “Risorgimento e identità italiana: una questione ancora aperta” (Cantagalli, pagine 120, euro 12), – recensione della Nuova Bussola Quotidiana )