Il welfare occupazionale all’italiana: rischi e criticità

Il “welfare all’italiana” ha tradizionalmente mostrato un’accentuazione di due sfere istituzionali, lo stato e la famiglia. Tuttavia, negli ultimi anni sono state adottate misure volte a favorire l’irrobustimento del ruolo di altre due sfere nel campo della protezione sociale: il mercato e le associazioni intermedie. Se infatti negli anni Novanta la crisi del compromesso fordista-keynesiano facilitò l’adozione di riforme (pensioni 1993-1995, sanità 1993-199) volte ad aprire un nuovo sentiero di evoluzione istituzionale verso modelli di welfare “multi-pilastro” – fondati sull’interazione tra welfare pubblico e “privato” in senso lato – la prima grave crisi dell’epoca post-fordista e globalizzata ha approfondito il sentiero tracciato in precedenza. Il riferimento è in particolare ai provvedimenti inclusi nelle Leggi di Stabilità 2016 e 2017, diretti a promuovere lo sviluppo di forme di welfare aziendale tramite il collegamento di questo con gli incrementi di produttività delle imprese, su cui si sono recentemente soffermati i contributi di Leonardi e Ghiselli per questa rivista.

Tale processo di riconfigurazione istituzionale è orientato da una diagnosi della crisi del welfare state italiano che suona sostanzialmente come segue. Poiché le risorse a disposizione sono sempre più limitate, i programmi pubblici di protezione sociale mostrano la corda sia sul versante della sostenibilità economico-finanziaria sia rispetto all’efficacia, cioè alla capacità di svolgere effettivamente le funzioni per cui sono stati istituiti. In un paese come l’Italia, affetto dalla sindrome della bassa crescita ed elevato indebitamento, la “cura” consiste nello sviluppo di forme di welfare non pubblico – soprattutto occupazionali o aziendali – per tre diverse ragioni. Primo, perché l’estensione di tali programmi rappresenta la strada maestra per mantenere i livelli di tutela, ovvero fornire prestazioni aggiuntive – o integrative – rispetto a quelle offerte dai programmi del welfare state, anche nella fase di “austerità permanente”, senza sovraccaricare ulteriormente la finanza pubblica. Secondo, i programmi di welfare che sfruttano meccanismi di mercato possono produrre incrementi di efficienza nel sistema di protezione sociale. È il tipico caso, in campo pensionistico, della (supposta) superiorità degli schemi a capitalizzazione (privati o occupazionali) sugli schemi a ripartizione (generalmente pubblici); analogamente, in campo sanitario, i fondi integrativi possono consentire l’accesso alle cure in tempi più brevi, evitando le liste d’attesa che spesso contrassegnano la sanità pubblica. Infine, è andata recentemente affermandosi l’idea che il welfare occupazionale, specie nella sua variante aziendale, comporti incrementi di produttività – per l’effetto positivo su motivazione e condizioni di lavoro e salute dei lavoratori – favorendo inoltre un clima più cooperativo nel sistema di relazioni industriali e contribuendo a rafforzare la contrattazione di secondo livello.

Il tema è vasto e richiederebbe una trattazione più estesa di quanto possibile in questa sede. Tralasciando, per ragioni di spazio, il tema delle esternalità sui fronti dell’organizzazione aziendale e delle relazioni industriali, e concentrandoci sul buon funzionamento degli schemi di protezione sociale, l’osservazione del caso italiano in prospettiva comparata consente di valutare, accanto alle promesse delineate sopra, anche rischi, profili di criticità e sfide potenzialmente innescate dall’espansione del welfare occupazionale – in specie nella variante contrattuale. Tale valutazione muove dalla considerazione che, se si prende sul serio la limitatezza delle risorse disponibili – punto di partenza degli argomenti a sostegno dell’espansione del welfare occupazionale – i criteri decisivi rispetto ai quali valutare i processi di “multipillarizzazione” del welfare paiono essere efficacia, efficienza, equità (le “3E”). Utilizzare in maniera efficiente le risorse è infatti cruciale stante le perduranti condizioni di bassa crescita economica e vincoli sulla finanza pubblica, mentre l’equità richiama la centralità della dimensione distributiva nel valutare l’efficacia relativa delle forme di welfare mix.

Su questo sfondo, va detto in primo luogo che è difficile individuare una chiara relazione tra estensione del welfare privato/occupazionale e (incrementi di) efficienza ed efficacia. Con riferimento, ad esempio, al principale settore di spesa pubblica (le pensioni), la letteratura ha messo in chiara luce come esistano sistemi fortemente centrati sugli schemi privati che producono risultati insoddisfacenti in termini di efficacia e soprattutto equità – il caso emblematico è il Regno Unito – e sistemi in cui la combinazione dei diversi “pilastri” risulta più virtuosa – specialmente Olanda, Danimarca e Svezia – in ragione delle caratteristiche sia degli schemi pubblici che degli schemi occupazionali (si veda, Hinrichs e Jessoula, Labour market flexibility and pension reforms, Palgrave).

Tali caratteristiche, soprattutto in termini di inclusività e capacità di tutela degli schemi pubblici nei diversi settori di politica sociale, sono importanti nel valutare la bontà delle varie combinazioni, o i diversi possibili “incastri”, tra schemi di protezione sociale pubblici e occupazionali. Le maggiori criticità emergono infatti nei settori in cui i programmi pubblici presentano una matrice assicurativa-occupazionale – con limitata redistribuzione/solidarietà “verticale” e conseguenti significative differenze di trattamento tra categorie professionali e lavoratori con diversi tipi di contratto nonché, talvolta, lacune nella stessa copertura – cioè mancata assicurazione di determinati gruppi rispetto al rischio in oggetti. In questi casi, il welfare occupazionale non fa altro che ampliare i divari di tutela lungo le linee di segmentazione indicate sopra, con esiti insoddisfacenti sia rispetto all’efficienza che all’efficacia e all’equità. È il caso delle pensioni, il comparto più sviluppato del welfare occupazionale italiano. Nonostante la significativa quota di risorse impiegate da ormai due decenni, la combinazione tra un primo pilastro pubblico di matrice assicurativa e caratterizzato dalla progressiva entrata a regime del metodo contributivo – dunque a limitata redistribuzione verticale – e il secondo pilastro complementare a capitalizzazione ad adesione volontaria pare infatti condurre ad esisti perversi, con il profilarsi di due gruppi di lavoratori. Nel primo troviamo i lavoratori con contratti di lavoro a tempo indeterminato nelle grandi imprese, specie al Centro-Nord, e nei settori economici forti, tipicamente iscritti ai fondi complementari e per i quali sono ancora ipotizzabili carriere lavorative lunghe, poco frammentate e con salari adeguati: per questi il contributo pensionistico complessivo (previdenza pubblica e complementare) è attorno al 43% e le pensioni future genererebbero, all’età legale di pensionamento, tassi di sostituzione da “étà dell’oro” – circa 100% secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato. Il secondo gruppo comprende invece quegli individui con carriere frammentate e poco remunerate. Questi lavoratori rischiano di ricevere una pensione pubblica d’importo molto inferiore, che necessiterebbe sì di un’integrazione da fonte complementare: tuttavia, i lavoratori con carriere intermittenti e svantaggiate di fatto non aderiscono alla previdenza integrativa. Alla perdita di efficienza dovuta all’elevata aliquota contributiva per i lavoratori del primo gruppo si accompagna dunque una limitata efficacia nel livello della tutela ed effetti complessivi insoddisfacenti sul piano dell’equità.

Meno critico sembrerebbe l’incastro tra welfare state e welfare occupazionale in quei settori in cui è già presente un pavimento universalistico pubblico, inclusivo e in grado di garantire una tutela (generalmente) di elevata qualità a tutta la popolazione: in Italia è il caso del sistema sanitario nazionale. Qui la funzione dei piani sanitari occupazionali è meramente integrativa, e presenta minori problematicità, almeno se l’incastro è osservato in chiave statica. Criticità possono però emergere in una prospettiva dinamica, se misure di contenimento della spesa e/o riduzione dell’offerta si accompagnano a provvedimenti volti a favorire – anche tramite il ricorso a risorse pubbliche – l’espansione della sanità occupazionale, che da meramente integrativa può divenire complementare – e dunque parzialmente sostitutiva – della prima. È in sostanza ciò che è avvenuto in Italia nell’ultimo decennio. Tale dinamica può innescare un progressivo spiazzamento della sanità universalistica pubblica, con effetti negativi sul piano dell’equità – per la segmentazione della forza lavoro analizzata sopra – e dell’efficacia complessiva del sistema ove raffrontato a un modello universalistico pubblico. A ciò si aggiunga, rispetto all’efficienza, che a livelli di efficacia comparabili, i sistemi sanitari più costosi sono proprio quelli che hanno puntato su un approccio assicurativo, in prevalenza pubblico – Germania, con una spesa sanitaria complessiva, pubblica e privata, pari all’11.3% del Pil – o privato – Olanda (10.9%), Svizzera (11.7%) e Stati Uniti (addirittura 17.1%) – a fronte del modesto 9.2% della spesa sanitaria in Italia e nei paesi con modelli sanitari simili (Spagna 9.0%, Grecia 8.1%).

Diverso è infine il ragionamento nei settori tradizionalmente – e ancora oggi – sottosviluppati del welfare state italiano, perlopiù volti al contrasto dei “nuovi rischi sociali” tramite servizi sociali e di cura. L’introduzione di nuovi programmi a base occupazionale può essere qui accolta con maggiore favore – specie se finanziata tramite risorse aggiuntive rispetto al bilancio pubblico – tanto in una prospettiva di genere quanto con riferimento a possibili incrementi di produttività, per la fondamentale funzione di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro che essi possono promuovere. Alcune criticità si possono però individuare se gli stessi interventi vengono valutati in una prospettiva di social investment – cioè rispetto allo sviluppo, cognitivo ed emotivo, dei bambini – per almeno tre ragioni: i) il rischio che i servizi di cura aziendali e istituiti da operatori privati (es. asili nido) non raggiungano elevati standard di qualità; ii) l’esclusione dei bambini con genitori impiegati in aziende che non forniscono tali servizi; di conseguenza iii) il rischio che rimangano privi di tutela i bambini delle aree più svantaggiate, cioè proprio quelli che trarrebbero maggiore giovamento da tali provvedimenti.

Ça va sans dire, le preoccupazioni qui illustrate diventano ancor più cogenti allorché i programmi di welfare occupazionale vengono finanziati non solo tramite risorse aggiuntive provenienti da imprese e lavoratori, bensì anche tramite agevolazioni fiscali e/o contributive a carico del bilancio dello stato. In questo caso, si apre infatti uno scenario di “competizione”, parziale ma diretta (cfr. Mallone e Tafaro, Premio in welfare oggi, quale pensione domani? in Rivista delle Politiche Sociali 2.2017), tra welfare occupazionale-fiscale e welfare pubblico, che solleva delicati dilemmi distributivi e normativi.

Per concludere, la transizione da un regime di welfare incentrato sul binomio stato-famiglia a un più articolato modello di welfare mix con un maggiore ruolo degli schemi occupazionali e strettamente privati è tutt’altro che esente da sfide e da rischi. Tali rischi sono accentuati dalle caratteristiche “distorsioni” del welfare state all’italiana e dai processi di riforma recenti, nonché da condizioni di contesto relative al “volontarismo” del welfare occupazionale, alla frammentazione del tessuto produttivo, ai divari territoriali e alla progressiva flessibilizzazione e segmentazione del mercato del lavoro. Ne segue che gli attori coinvolti nei processi decisionali sul tema – in primis, governi e sindacati – devono valutare con estrema attenzione e consapevolezza sia la desiderabilità della diffusione delle forme di welfare occupazionale nei diversi settori di politica sociale, sia le eventuali modalità di incastro con il welfare pubblico.

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