È ufficiale, Greta ha fatto il miracolo e improvvisamente la sostenibilità è diventata di moda. Influencer che fino a due mesi fa non si erano mai interessate all’ambiente adesso non fanno altro che pubblicare un profluvio di foto rigorosamente plastic free; in vista dei saldi, fioccano le raccomandazioni a evitare il poliestere come la morte e a comprare sostenibile. E per chi non avesse idea di che cos’è un vestito “sostenibile” i grandi marchi tipo ASOS corrono al riparo, fornendo una agevole selezione dei capi nel loro e-shop che rispondono a requisiti di sostenibilità ambientale…
…dimenticandosi di qualsiasi altro aspetto. Tipo, che ASOS è uno dei pochissimi rivenditori esteri del marchio People Tree, uno storico brand di moda etica ed equo-solidale, ma ASOS non ha ritenuto di inserirlo tra i marchi “sostenibili” perché il suo criterio è di selezione si esclusivamente basato sull’ecologia: sono sostenibili quei brand che utilizzano materiali riciclati.
Di ‘sto passo, i liceali ecologisti finiranno con lo stare pesantemente sulle scatole pure a me, perché non trovo ammissibile che adesso possa passare il messaggio che “il problema della fashion industry è che inquina” e che “se ti compri il mio vestito di tessuto riciclato, allora sei una consumatrice accorta con la coscienza a posto”.
No, gente, io non ci sto. Per chi vuole, sta per iniziare un (rancoroso) soliloquio dedicato al tema
Perché il problema esiste, per carità, e va benissimo sottolinearlo. Quella del fashion è una delle industrie più inquinanti in assoluto, ed è senz’altro buona cosa cominciare a ragionarci sopra (come dicevo in un passato articolo, non bisogna essere attivisti di Greenpeace per convenire sul fatto che meno si inquina, meglio è per tutti).
Il fatto, però, ragazzi, è uno: che la fashion industry non è mai stata ecologica. Se ne erano accorti già nel Medioevo, quando diverse ordinanze avevano costretto i laboratori dei tintori a starsene lontani dal centro cittadino, a causa della sporcizia che producevano.
Oggigiorno è senz’altro vero che esistono abiti più inquinanti di altri: il poliestere, ad esempio, è additato come il Nemico N. 1 dell’ambiente, a causa della sua origine (è un derivato del petrolio) e della sua non-riciclabilità (ad oggi, non esiste una tecnologia in grado di scomporre le fibre nelle loro componenti originarie). Ma, a ben vedere, qualsiasi nostro capo d’abbigliamento porta inevitabilmente con sé una certa misura di danno ambientale. Come scrive Elizabeth Cline in Siete pazzi a indossarlo!,
Le pecore allevate per la lana possono causare erosione del suolo, inquinamento dell’acqua e perdita della biodiversità. La tintura dei pellami comporta l’uso di metalli tossici pesanti. Tutte le fibre artificiali emettono gas serra e inquinano l’acqua. E la coltivazione del cotone negli Stati Uniti richiede 10.000 tonnellate di diserbanti l’anno.
Il consumatore finale è senz’altro libero di prediligere tessuti naturali e cercare cotone biologico certificato, ma sarà bene sottolineare che, per quanto riguarda il settore della moda, il grosso problema ambientate è causato non tanto dal cosa, ma semmai dal dove e dal quanto.
“Dove”, perché, nel corso degli ultimi decenni, la tecnologia che permette di rendere meno inquinante la produzione ha fatto passi da gigante, così come sono enormemente migliorate, nei Paesi occidentali, le leggi a tutela dell’ambiente. Il problema è che, negli ultimi anni, la produzione si è spostata sempre più in Paesi del Terzo Mondo, dove, mediamente, leggi simili non esistono, e in ogni caso le tecnologie necessarie avrebbero costi troppo alti.
La Cina, che produce attualmente il 10% dei tessuti mondiali, è un disastro ambientale su tutta la linea. In Bangladesh, gli scarti di lavorazione vengono riversati nei fossati come se niente fosse. Sta bene, evitare il poliestere come se fosse la morte, ma sarà meglio essere consapevoli che non necessariamente una maglietta di cotone riciclato made in Pakistan è la scelta più ecologica in assoluto.
Ma, soprattutto: il più grande problema ambientale della fashion industry sta nel “quanto”, cioè quanti vestiti (inutili) vengono immessi in commercio. Secondo il resoconto The Fiber Year 2009/2010 della Oerlikon, nel 1950 si producevano, in media, 10 milioni di tonnellate di tessuti l’anno. Oggigiorno (anzi: nel 2009/2010) la produzione annuale di tessuti ha superato le 70 tonnellate. Finché non cambierà qualcosa nel mondo della moda (che, con i suoi vestitini low cost, ci invita a comprare sempre di più, a un prezzo sempre più basso, per avere un guardaroba sempre più fornito), sarà ben difficile che il problema ambientale possa essere risolto. Più vestiti produciamo, più l’inquinamento aumenta: inevitabilmente.
In questo senso, posso capire il ragionamento proposto qualche settimana fa dalla rivista Fashionista, in un articolo che ha fatto un certo scalpore nel mondo della moda etica. Il titolo, Do we really need any more sustainable fashion brands?, celava già la risposta dell’autrice: no, non ne abbiamo bisogno, perché ogni singolo brand che nasce è comunque una fonte di inquinamento in più.
Capisco il suo punto di vista, ma è stato giust’appunto quest’articolo che ha cominciato a farmi rodere il fegato. Perché il problema non è solo ambientale, porca la miseria. E, sì, abbiamo dannatamente bisogno di nuovi brand di moda etica, perché un vestito sostenibile è molto, molto più di un vestito che, banalmente, “non inquina”.
Ad esempio è un vestito che…
Posso essere cinica?
Guardando al fenomeno col distacco della storica che è abituata a pensare nel lungo periodo, a me sta anche bene se l’imprenditoria decide di delocalizzare certe fasi della produzione a causa del minor costo della manodopera. Cioè: mi spiace per le sartine italiane che perdono il lavoro, ma di casi simili è piena la storia dell’economia; temo che siano, in una certa misura, inevitabili.
Quello che a me manda in bestia, invece, è un altro problema. Abituati ai prezzi stracciati di capi prodotti nei Paesi più poveri del mondo (impiegando sarti che, oltretutto, lavorano in condizioni di semi-schiavitù) noi consumatori abbiamo perso la percezione di quale sia il prezzo equo di un capo.
La giornalista Lisa Bolton lo sintetizza così: non solo i consumatori interpretano il prezzo più basso come il prezzo giusto, ma arrivano a pensare che, se un certo marchio ti vende un abitino a 30 euro, il marchio concorrente che te ne propone uno a 100 è un delinquente che ti sta imbrogliando. Quasi nessuno, ormai, mette sul piatto della bilancia il fatto che, probabilmente, il marchio concorrente ha un inventario più ridotto, dei costi superiori, un assortimento di tessuti radicalmente diverso, o è magari un piccolo imprenditore che meriterebbe incoraggiamenti (anche solo a parole, nel caso!) invece di critiche e occhiatacce.
In Siete pazzi a indossarlo!, Elizabeth Cline intervista Alan Ng, un imprenditore nativo di Hong Kong che, dopo aver lavorato per vent’anni nell’industria tessile in Cina, ha deciso di fare il salto di carriera e ha aperto una fabbrica a Brooklyn. Attualmente, si occupa della produzione di capi di fascia alta per conto di designer esordienti, anche se, di tanto in tanto, riceve proposte commerciali da parte di brand generalisti. Ecco: Ng, che di abiti made in China se ne intende, sostiene che la gente, e persino gli addetti ai lavori, hanno completamente perso la percezione di quale sia il reale costo di un capo d’abbigliamento. Ogni giorno, la sua ditta viene contattata da potenziali clienti che si aspettano di pagare un prezzo di produzione che è totalmente irrealistico, basato sul costo del lavoro (e delle tasse, e della corrente elettrica…) nelle zone più disagiate del mondo.
Ng cita il caso di una azienda che aveva chiesto un preventivo per un bavaglino di buon tessuto e particolarmente lavorato che aveva intenzione di proporre al consumatore finale a un prezzo di 5 dollari: meno di quanto sarebbe materialmente costato alla sua fabbrica il solo produrlo. In un’altra occasione, una grande multinazionale aveva presentato a Ng il bozzetto di una T-Shirt per bambini decisamente basica: Ng aveva offerto un prezzo di produzione di 2 dollari al pezzo (…che non si può dire che sia alto…), ma è venuto fuori che la multinazionale aveva intenzione di lanciare un pack promozionale in cui sei di quelle T-Shirt sarebbero state vendute a 3 dollari.
Ora: io posso capire che sei T-Shirt a 3 dollari siano una benedizione per una famiglia numerosa, ed è ragionevole che non tutti possano (o vogliano) spendere 100 euro per un completo made in Italy. Sta bene: basta però avere la consapevolezza che 3 dollari per sei magliette sono un prezzo del tutto irrealistico, e non può in alcun modo essere usato come parametro di “prezzo equo” in base al quale sostenere che l’imprenditore nostrano sta solo spennando polli.
Con questo approccio, ci facciamo del male da soli e manco ce ne rendiamo conto.
Qualche tempo fa, mi ero imbattuta, su Instagram, in un post provocatorio ma estremamente efficace: qualcosa sulle linee di “ti sta sulle scatole, quel negro ben pasciuto che mendica davanti al supermercato infastidendo le donne italiane? Potrebbe trovarsi lì per colpa di quello stesso supermercato”. Seguiva il link ad un articolo secondo cui il sovra-sfruttamento ittico di molti mari africani, operato dai mega-pescherecci europei per conto delle multinazionali del cibo, ha fatto perdere il lavoro a tanti africani che, fino a qualche anno fa, sbarcavano il lunario facendo i pescatori sulla loro barchetta. E chissà che alcuni di loro, per disperazione, non abbiano poi deciso di migrare verso l’Europa.
Boh? Non è il mio campo, non me ne intendo, ma cito questo esempio perché mi è piaciuta la strategia di comunicazione. Credo che tutti noi potremmo concordare sul fatto che il modo migliore per aiutarli a casa loro sia lottare affinché, a casa loro, abbiano fine quelle situazioni di semi-schiavitù che, invece di aiutare un’area del mondo disagiata, si limitano a sfruttarla facendo leva sulla sua debolezza.
Il documentario The True Cost, ad esempio, parla a lungo della situazione di inedita difficoltà venutasi a creare tra i coltivatori di cotone in India nel momento in cui una grande azienda è diventata la leader assoluta del business delle sementi, instaurando di fatto un regime di monopolio. Il costo delle sementi è aumentato in maniera spropositata (il documentario parla addirittura del 17.000%!, sarà mai possibile?), sicché molti contadini finiscono con l’indebitarsi per acquistarle. A detta di The True Cost, in India è in crescita esponenziale il fenomeno del contadino che si suicida nel momento in cui si rende conto che non riuscirà a saldare il suo debito: pare che negli ultimi sedici anni siano ci siano stati oltre 250.000 (!) casi di suicidio tra piccoli coltivatori di cotone, la più grande ondata di suicidi in una singola categoria professionale mai registrata nel corso della Storia.
Lo stesso documentario, intervistando un cittadino di Kampur, in India (cittadino abbastanza benestante, peraltro, a giudicare dal suo abbigliamento e da quanto della sua casa si intravvede) cattura l’affermazione “tutti i nostri risparmi se ne vanno in cure mediche” (come mai? Ve lo spiego più avanti).
Ecco: decidere di lavorare con le popolazioni delle aree più povere del mondo e stabilire di pagarle con uno stipendio talmente basso che è già difficile arrivare a fine mese, figuriamoci far fronte a una qualsiasi spesa imprevista… ehm, come dire. Probabilmente, non è il modo più efficace di far uscire dalla crisi le zone disagiate, mettiamola così.
Non nascondiamoci dietro a un dito: salvo casi eccezionali, la maggior parte di noi potrebbe, se volesse, sostenere un lieve rincaro del prezzo dei suoi vestiti – un rincaro tale da garantire migliori condizioni salariali ai lavoratori.
Potremmo, sì… ma la realtà è che, in ogni caso, questo piccolo sacrificio non sarebbe neanche necessario. Si stima che, mediamente, un lavoratore impiegato nelle fabbriche tessili dei Paesi del Terzo Mondo abbia un guadagno che si assesta attorno all’1% del prezzo finale del capo. Il salario della manodopera è così basso, e il margine di guadagno dei marchi così alto, che, secondo una stima del Worker Rights Consortium, i brand potrebbero permettersi di aumentare in modo significativo gli stipendi anche senza essere costretti a scaricare il maggior costo sul consumatore.
Ma ipotizziamo pure che i brand decidano di non avere alcun interesse ad atteggiarsi a benefattori dell’umanità, e di non aver la minima intenzione di rimetterci di tasca loro. Prendiamo il caso di una maglietta venduta a un costo di 29 dollari: secondo una stima della Fashion Revolution, se anche la paga oraria del sarto pakistano che la produce dovesse improvvisamente raddoppiare, il prezzo finale aumenterebbe di soli 1,5 dollari. Una cifra che a noi, oggettivamente, non cambia la vita, ma al sarto pakistano invece sì: in quel dollaro e mezzo sta la differenza tra il “salario minimo”, bassissimo, fissato per legge da (alcuni) stati del Terzo Mondo e parametrato al costo della vita, e il “living wage” che invocano invece le associazioni che s’interessano di moda etica. Quest’ultimo permetterebbe ai lavoratori di risparmiare quel tanto che basta, non dico “per concedersi uno sfizio”, ma “per poter far fronte a un’emergenza senza dover ricorrere agli strozzini e alla criminalità organizzata”.
È interessantissimo, e tristemente illuminante, leggere un reportage fatto, nel 2013, da Raveena Aulakh, una giornalista del Toronto Star originaria del Punjab, che si è infiltrata per qualche tempo in una fabbrica tessile di Dacca, lavorando sotto copertura come operaia incaricata del controllo-qualità dei capi.
La sua esperienza inizia col botto, perché al primo giorno di lavoro le viene presentata la sua responsabile, cioè la figura esperta che è stata incaricata del training della nuova arrivata, e salta fuori che il capo di Raveena è questa qua:
Meem, nove anni, parecchi dei quali trascorsi in fabbrica, ritirata dalla scuola quando, a fronte di una nuova gravidanza, i suoi genitori hanno avuto bisogno di un aiuto in più.
Di quella sua esperienza di lavoro, Raveena ricorda l’enorme fatica di stare tutto il giorno accovacciate su pile di abiti da controllare, con le ossa che, a fine giornata, gridavano vendetta. In quella fabbrica (senza estintori, senza uscite d’emergenza e con un unico buco per terra a fungere da toilet per tutti i dipendenti) si lavorava dodici ore al giorno, dalle 9 del mattino alle 9 di sera, con una breve pausa pranzo a metà giornata e il diritto a una mezza giornata di riposo il venerdì. Stipendio? 25 dollari al mese: il minimo legale, secondo le leggi in vigore all’epoca, ma a malapena sufficiente per sopravvivere (a stento, e a patto di mandare in fabbrica la figlia di nove anni invece di farla studiare).
Pensiamoci, di tanto in tanto, a queste cose, quando ci compiaciamo di aver appena comprato da H&M quel vestitino bellissimo a 8 euro.
Pensate che una bambina di nove anni costretta a lavorare nove ore al giorno per 25 dollari al mese fosse la bruttura più brutta che potevate trovate in questo post?
Ehm, vi illudevate. Perché peggio ancora di una bambina sfruttata c’è una bambina morta – e di lavoratori morti, nel mondo della moda, ce ne sono decisamente troppi.
Ha fatto (moderatamente) scalpore, nel 2013, l’episodio drammatico del crollo del Rana Plaza, un edificio a otto piani collassato su se stesso, in Bangladesh, uccidendo 1129 persone che, in quel momento, si trovavano all’interno. Le 1129 persone si trovavano all’interno non perché fossero masochiste o sprovvedute, ma perché erano state costrette dai loro datori di lavoro, i proprietari di una fabbrica tessile che confezionava abbigliamento low cost per i grandi marchi occidentali. Nonostante l’edificio mostrasse crepe evidenti e fosse stato dichiarato non agibile dalle autorità locali, i proprietari della fabbrica avevano costretto i loro dipendenti a rimanere sul posto, per non ritardare la consegna dei capi che erano stati commissionati loro.
Ma vorrò essere buona: vorrò considerare il Rana Plaza una tragedia isolata. Pure noi abbiamo casi imbarazzanti di strutture che collassano dal nulla: ammettiamo pure per amor di discussione che sia stato un evento eccezionale e irripetibile.
Il fatto è che, purtroppo, si ripetono ogni giorno incidenti di minor magnitudo, che magari non ammazzano mille persone in un botto ma sono comunque un lento stillicidio.
Secondo un report di Common Objective, nel solo 2017 sono stati riportati 1,4 milioni di incidenti relativi alla salute nella catena produttiva del mondo fashion, il che equivale, grossomodo, a un incidente ogni 5,6 lavoratori. Tra questi “incidenti”, si fa rientrare qualsiasi episodio che mini alla salute del lavoratore, tra cui ad esempio: diagnosi di malattie derivanti dall’esposizione a sostanze chimiche pericolose (ne parlavo ad esempio qui); ustioni e intossicazioni causate da incendi divampati per un corto circuito; veri e propri incidenti in senso stretto, provocati da macchinari non sicuri o mancate protezioni. Non rientrano nella categoria, invece, i danni non dimostrabili che hanno luogo nel lungo periodo, derivanti dalla prostrazione fisica, dalla carenza di ventilazione (e, spesso, d’acqua potabile) negli ambienti di lavoro, dalle condizioni ambientali che spesso sono alla base di perdite d’udito e cali della vista… Qualche medico ha anche provato a indagare in che misura queste condizioni di lavoro finiscano con favorire aborti spontanei nelle lavoratrici: è ovviamente difficile stimare percentuali esatte, ma non v’è stato dubbio che una correlazione esista.
Ma ad essere in pericolo di vita non sono solo i derelitti sfruttati nel Terzo Mondo. Il documentario The True Cost, ad esempio, offre allo spettatore una lunga intervista a Larhea Pepper, una imprenditrice texana proprietaria di una piantagione di cotone, che, da qualche tempo, è passata alla coltivazione biologica. E questo, non perché Larhea sia una fricchettona ambientalista, ma perché ha cominciato a provare un vago senso di inquietudine per la salute sua e dei suoi figli quando a suo marito Terry è stato diagnosticato un cancro al cervello che se lo è portato via a cinquant’anni. A quanto pare, i medici che lo hanno avuto in cura avevano chiesto tra le prime cose “lei lavora mica nel settore del cotone?”: quel particolare tipo di cancro, infatti, è particolarmente diffuso in quella categoria professionale; si ipotizza una correlazione con i pesticidi utilizzati nelle piantagioni. Una ipotesi che Larhea non si sente di trascurare, anche perché, qualche tempo prima, pure suo suocero (proprietario dell’azienda di famiglia) era morto di cancro, a cinquantasette anni.
In The True Cost, dopo queste considerazioni la scena si sposta al Baba Farid Center for Special Children situato a Farikot, nel Punjab, una delle regioni che produce la maggior parte del cotone mondiale.
Sarà che, noi occidentali, gli special children li abortiamo direttamente, ma fa oggettivamente abbastanza impressione vedere la telecamera scorrere su ‘sta quantità abnorme di ragazzini storpi e rattrappiti su se stessi. Il dottor Pritpla Singh, direttore del centro, dice che per lui è abbastanza indifferente leggere le affermazioni per cui i produttori di pesticidi negano ogni possibile correlazione: oggettivamente, negli ultimi anni, in concomitanza con la crescita di coltivazioni intensive per far fronte alla domanda di cotone, si è registrata in quella regione una crescita marcata nel numero di difetti congeniti e malattie mentali nei nuovi nati (e, per par condicio, di tumore negli individui adulti). Secondo il dottor Singh, ogni villaggio rurale della zona ha, in media, dai settanta agli ottanta ragazzini che presentano un handicap fisico o un ritardo mentale grave: può anche darsi che davvero gli studi non mostrino al momento una correlazione diretta tra l’uso di pesticidi e l’aumento di malformazioni fetali… ma qualcosa sarà pur successo negli ultimi anni per causare ‘sto macello.
A Kampur, ad esempio, c’è voluto un po’ di tempo prima di capire da cosa diavolo potesse dipendere quell’inspiegabile boom di casi di itterizia che si verificavano tra la popolazione (“ogni anno, una casa sì e una no, c’è almeno una persona che si prende l’itterizia”, dice un locale). Ebbene: salta fuori che Kampur – capitale dell’export di cuoio a basso costo – ha un sistema fognario non proprio all’avanguardia, sicché capita che le acque di scarico delle concerie locali (50 milioni di litri d’acqua al giorno, inquinate da componenti come il cromo 6) finiscano con l’infiltrarsi nelle condutture dell’acqua potabile (è stato dimostrato, analisi alla mano, che l’unica fonte d’acqua potabile della zona è contaminata). Ebbene: il cromo 6, se ingerito, attacca il fegato, provocando, in ordine di gravità crescente, problemi di digestione, itterizia e cancro.
È lì alle perse con una figlia itterica, l’indiano dall’aria benestante cui facevo riferimento prima, che ammetteva “risparmi, ne avremmo pure, ma se ne vanno tutti quanti in medicine”. E a me mette seriamente a disagio (per usare un garbato eufemismo) pensare a tutte le morti che si potrebbero evitare se solo le leggi diventassero più stringenti e/o le aziende si sentissero in dovere di arginare questo scempio.
È ovvio che noi singoli non possiamo fare niente… eppure, paradossalmente, molto dipende da noi. Perché se noi (tutti noi) iniziassimo improvvisamente a far riferimento a una scala di valori in cui la cosa più importante non è comprare come pazzi magliettine a prezzo stracciato, ma corrispondere il giusto compenso a chi tratta i suoi dipendenti con leale dignità… ecco: allora sì che le cose potrebbero, forse, pian piano, cominciare a cambiare.
E poi leggo la mega-influencer trasformatasi in ambientalista che dice “ragazze mi raccomando, ai saldi comprate sostenibile: in swipe up vi linko una maglietta prodotta da schiavi bambini, ma, ehi!, super sostenibile, perché è fatta di buccia d’arancia!”.
Mph.
Se volete dar retta a me: quest’anno, ai saldi, provate a comprare:
ed ecco: a quel punto sì, potrete effettivamente dire di aver comprato sostenibile.
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