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Che cosa qualifica gli italiani? Difficile rispondere. Al di là del folclore superficiale, non c’è un vero tratto distintivo nazionale. Le caratteristiche peculiari riguardano non tanto la nazione quanto l’area locale. Il nostro è il paese dei campanili, dei particolarismi. In certe occasioni, specialmente di carattere sportivo, ci trasformiamo in nazione, ma in questi casi, anche se ci mostriamo patriottici, nel profondo dell’animo avvertiamo che l’operazione ha sempre un che di forzato, se non proprio di falso. Invece ci sentiamo bene nella piccola comunità alla quale apparteniamo: quello è il mondo che riconosciamo come nostro e ci riconosce.
Ma davvero non esiste qualcosa che ci possa qualificare in quanto nazione? La domanda è al centro di un piccolo libro, vivace ma anche dolente, di Giancristiano Desiderio, «L’individualismo statalista. La vera religione degli Italiani» (Liberilibri, 144 pagine, 15 euro), nel quale fin dal titolo l’autore scopre le sue carte e dà la risposta. Eccolo il tratto distintivo: l’individualismo statalista, appunto, un ossimoro tutto italiano.
Di fronte all’inefficienza dell’amministrazione pubblica, allo Stato sempre invocato ma vissuto come corpo estraneo e in fondo nemico, all’indifferenza verso il bene comune, all’incapacità di fare squadra, all’anarchia congenita, alla maleducazione sociale, alla mafiosità più o meno esplicita, al malcelato disprezzo della legge, alla furbizia eretta a norma di vita, alla diffidenza reciproca e alla conseguente ingovernabilità, viene da chiedersi: perché siamo così?
Il libro ci porta dentro un sistema di scatole cinesi. La prima risposta è che gli italiani «tanto sono realisti e concreti, avveduti e pratici, furbi e accorti, interessati e scrupolosi nel governo della vita privata, quanto sono astratti e finti, superficiali e invidiosi, boriosi e risentiti, dottrinali e pelosi nel governo della vita pubblica». Sì, ma perché sono così? Perché «sono incuranti di quella che Machiavelli chiamava la realtà effettuale – la realtà, il mondo com’è – e, nella ricerca del loro particolare interesse, corrono dietro all’immaginazione e ai castelli in aria di un mondo irreale». Sì, ma perché fanno così? Perché la scena pubblica è in realtà una messa in scena, e il rapporto tra gli italiani e la politica si basa su «un consapevole equivoco, come nella commedia dell’arte» (non a caso siamo il paese più ricco di maschere). Sì, ma perché le cose stanno così? Perché, sotto le maschere, gli italiani combattono una sola battaglia, quella di tutti contro tutti, per rincorrere l’unica cosa che davvero sta a cuore a tutti e a ciascuno: il tornaconto personale.
Eccoci all’ultima scatola. La storia dà la sue risposte, l’economia anche, e così la sociologia, la geografia, l’antropologia eccetera. Ma alla fin fine la questione è morale, come riconobbe Indro Montanelli quando osservò che non è il potere che corrompe gli italiani, ma sono gli italiani che corrompono il potere. Per cui la lotta è sempre e solo per la conquista del Palazzo, piccolo o grande che sia. Il quale, una volta conquistato, diventa non uno strumento al servizio di tutti, ma la centrale di comando di una fazione contro le altre fazioni. Di qui il rifiuto del principio dell’alternanza, perché da noi prendere il potere vuol sempre dire fare piazza pulita di quelli che c’erano prima.
Come si fa a essere individualisti e allo stesso tempo statalisti? Si fa, si fa. Noi magari parliamo di Stato, collettività, interessi comuni, ma è tutta una recita. Recitano i politici quando ne discutono e recitano i cittadini che ascoltano e fanno finta di crederci. In realtà agli uni sta a cuore la gestione del potere e ai secondi il proprio interesse particolare, il proprio orticello. Ragion per cui diciamo «libertà» ma intendiamo «anarchia», diciamo «democrazia» ma intendiamo «licenza». Ci è estraneo il senso di responsabilità collettivo, degli uni nei confronti degli altri.
Guicciardini aveva capito tutto e la sua lezione è attualissima. Gli italiani non sono stupidi. Anzi, forse sono troppo intelligenti. Sanno fin troppo come va il mondo. E così si condannano all’ingovernabilità. Quando osserviamo un popolo straniero che sa procedere unito e una nazione che sa compattarsi attorno a valori e interessi comuni, da un lato proviamo invidia, ma sotto sotto pensiamo che quel popolo sia un po’ sempliciotto, o illuso. Siamo convinti che valori e ideali siano solo cappelli colorati da mettersi sulla testa a seconda delle necessità. A Roma si dice essere «sgamati». Ecco, noi siamo «sgamati». A noi nessuno può venircela a raccontare. Di qui la condanna che ci infliggiamo per troppa furbizia: l’incapacità di vivere insieme. E di qui il ricorso allo Stato, invocato come se fosse la risorsa in grado di risolvere tutti i problemi nati dal nostro individualismo sfrenato. Pretesa assurda, perché lo Stato, inteso così, come organo senza volto, come entità suprema che dovrebbe garantirci ciò che non siamo in grado di garantire a noi stessi, non solo è inutile, ma diventa ingombrante e invadente, si infila dappertutto e alla fine ci tiranneggia.
Statalista perché troppo individualista, l’italiano non è soltanto una contraddizione vivente. È un infelice. Perché il furbo non è mai contento. La cura del «particulare» gli può dare soddisfazione, ma non gli dona mai serenità e pace interiore.
Conseguenza della mentalità statalista è la produzione abnorme di leggi. Sempre sospettoso e diffidente, propenso a vedere i propri diritti ma mai i doveri, l’individualista statalista si affida alle norme e ai codici per regolare i rapporti. Ma la proliferazione di leggi non garantisce automaticamente la possibilità di vivere insieme. Anzi. Se manca il senso di responsabilità e la fiducia nell’altro, le leggi finiscono col formare un nodo inestricabile e una gabbia. Nel tentativo di uscirne, l’italiano diventa cavilloso, pedante, capzioso, e spesso se ne compiace. Senza rendersi conto che è sempre più prigioniero.
Desiderio ci perdonerà per questa sintesi. Il libro è molto più ricco e articolato. Tutto da gustare il capitolo dedicato alla commedia, il vero modo di essere della vita pubblica italiana. «Siccome avvertiamo una mancanza, una incompletezza, una inaffidabilità di fondo, un’assenza di volontà e di responsabilità, allora scatta l’arte della commedia e ci arrangiamo. Siamo un paese semiserio, nel senso che siamo seri a metà, non fino in fondo».
Il gioco verità-finzione nasce con il risorgimento, prosegue con il fascismo e arriva ai giorni nostri. L’uso politico della menzogna attraverso la propaganda non è certamente una prerogativa tutta italiana, ma da noi la storia ha infierito. Fiocchi e pennacchi coprono un vuoto ma non riescono a nasconderlo. Così quella che Luigi Barzini jr. chiamò la «frattura» tra la verità e la finzione è diventata il filo conduttore della vicenda nazionale, e quando oggi parliamo della divaricazione tra paese reale e paese legale non facciamo che aggiungere un anello a una lunga catena di scissione tra storia ufficiale e realtà effettuale, tra la maschera e il volto.
Montanelli, nell’ultimo volume della sua «Storia d’Italia», prese congedo dai suoi lettori con un «poscritto amarissimo» nel quale spiegava che in realtà il congedo l’aveva preso da tempo dall’Italia stessa, un paese che non gli apparteneva più e al quale sentiva di non appartenere. Da noi, spiegava, cambiano le forme, ma non la sostanza. A un certo tipo di retorica si sostituisce altra retorica, a un certo tipo di mafia un’altra mafia, ad alcune menzogne altre menzogne. Inutile e illusorio attribuire le colpe alla classe politica, perché il problema è morale e riguarda tutti.
«Rimarremo quello che siamo», diceva Montanelli. «Un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e d’interesse», e Desiderio sembra riconoscersi in questa sconsolata conclusione.
Troppo pessimismo? Quelli della mia generazione, che stanno per affacciarsi alla vecchiaia, sono portati a pensare che si tratti semplicemente di realismo. Ma poi il pensiero va ai figli, ai nipoti, e nasce la domanda: possiamo permetterci di essere così a corto di speranza?
Certamente no. E allora? E allora cerchiamo di educare e di educarci all’uso della libertà nella responsabilità, evitando di accampare diritti senza pensare ai doveri. Smettiamo una volta per tutte di invocare il Leviatano, e mettiamoci in gioco con lealtà. Prezzolini diceva che gli italiani si dividono tra furbi e fessi. È vero solo in parte. Ci sono gli onesti e sono tanti. Non mortificarli sarebbe già qualcosa. Per esempio non trattandoli come se fossero sempre e soltanto o furbi o fessi.
Aldo Maria Valli
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grassetto: Vietatoparlare