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1. Nel 2006, la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009, ha impegnato i Paesi a promuovere la rimozione delle barriere che possono essere di ostacolo all’esercizio, da parte di quanti sono portatori di minorazioni fisiche, mentali o sensoriali a lungo termine, del diritto a partecipare in modo pieno ed effettivo alla società. In tal senso, le politiche sociali devono operare a diversi livelli e nelle diverse fasi della vita, integrandosi, in particolare, con le politiche sanitarie, le politiche scolastiche, del lavoro, dello sport e del tempo libero, della cultura,….
La distanza che ancora ci separa dalla realizzazione di un tale obiettivo risulta evidente dai dati dell’osservatorio statistico Disabilità in cifre (vedi l’articolo di Cicerchia, Bologna, Staffieri e Solipaca sullo scorso numero del Menabò). Tale evidenza, tuttavia, non è frutto tanto di un’arretratezza nella specifica area della disabilità, quanto del più generale sottosviluppo, a livello nazionale, del sistema dei servizi sociali e della generale tendenza del welfare italiano a privilegiare i trasferimenti monetari sui servizi, con l’unica – per quanto rilevante – eccezione rappresentata dal sistema sanitario.
2. Se le dimensioni del welfare complessivo italiano reggono il paragone con quello dei paesi della nostra area di riferimento (v. Fig. 1), tuttavia, il welfare italiano è concentrato fortemente sulle prestazioni monetarie pensionistiche, da un lato, e sui servizi sanitari dall’altro, mentre la componente dei servizi sociali è sostanzialmente residuale: per i dati di contabilità pubblica, il welfare pubblico nel 2015 valeva complessivamente (escludendo l’istruzione) circa 445 miliardi, di cui 280 miliardi di spesa pensionistica in senso stretto, 105 miliardi di spesa sanitaria, 40 miliardi di altri trasferimenti monetari (TFR, malattia, assegni al nucleo familiare, disoccupazione,…) e meno di 10 miliardi di prestazione di servizi non sanitari, ovvero, per la massima parte, servizi sociali.
Analoghi dati emergono dall’Indagine sulla spesa sociale dei comuni singoli e associati, secondo la quale la loro spesa nel 2015 era attorno a 7 miliardi di euro, e dai dati Eurostat, secondo i quali la spesa sociale locale in Italia nel 2016 raggiungeva appena lo 0,7% del PIL, contro una media EU-28 del 2,7% e contro il 2,8% della Germania e il 2,2% della Francia (v. Fig. 2).
In altri termini, la spesa pro-capite complessiva per il welfare in Italia, circa 7.800 euro annue nel 2015, è di poco superiore alla media EU-28 (7.600 euro) e di 700 euro inferiore alla media EU-15 (8.500 euro), ma spendiamo più degli altri in pensioni, meno in sanità e, soprattutto, appena 1.450 euro pro capite per tutte le altre prestazioni sociali, un dato inferiore di 800 euro alla media UE-15 e di 500 euro alla media EU-28 (Cfr. A. Marano: “Tagli agli enti locali e servizi sociali. Condannati alla marginalità?”, Rivista delle politiche sociali, 2016). Si noti che i dati medi EU si riferiscono all’anno 2014 mentre quelli sulla spesa italiana si riferiscono al 2015; tuttavia le considerazioni espresse si rafforzerebbero se si considerasse il dato del 2014, inferiore di 300 euro pro capite per l’Italia, dei quali 200 relativi al comparto pensioni.
3. All’interno di un quadro, come visto, di forte arretratezza, la spesa specificamente rivolta alla disabilità non è secondaria. La suddivisione per aree di intervento, per quanto non completamente adeguata concettualmente, indica (v. Fig. 3), che dei già richiamati 7 miliardi di spesa sociale dei comuni nel 2015, il 38,5% è destinato alle famiglie e ai minori, il 25,4% ai disabili, il 18,9% agli anziani, il 7% al contrasto di povertà ed esclusione sociale, il 4,2% ai servizi per gli immigrati e lo 0,4% alle dipendenze, mentre il rimanente 5,6% è assorbito da spese generali e per servizi rivolti alla “multiutenza” (cfr. Istat La spesa sociale dei comuni singoli e associati – Anno 2015. “Statistiche Report”, 2017).
Quasi due terzi della spesa, dunque, sono concentrati nell’area famiglia/minori e sulla disabilità, una percentuale che sale attorno all’85% considerando anche i servizi agli anziani, che hanno significative sovrapposizioni con quelli dedicati all’area della disabilità, anche a causa della naturalmente elevata percentuale di anziani fra coloro che sono affetti da disabilità.
Invero, tuttavia, sono un numero molto limitato di servizi ad assorbire gran parte della spesa. Nel caso di Roma Capitale, ad esempio, solo sette prestazioni danno conto dei 2/3 della spesa sociale: asili nido (175 milioni) e case famiglia (45 milioni) nell’area famiglia/minori, assistenza domiciliare (57 milioni), sostegno educativo scolastico (35 milioni) e comunità alloggio (16 milioni) nell’area della disabilità, assistenza domiciliare (22 milioni) e rette per RSA (25 milioni) nell’area anziani, per un totale di 380 milioni su 580 milioni di spesa al netto degli oneri di gestione.
Di fatto, in un panorama territorialmente molto differenziato a livello nazionale, all’infuori di servizi analoghi a questi – comunque sottofinanziati – c’è poco. Gli altri interventi, in particolare quelli volti a favorire la socializzazione e l’integrazione, appaiono residuali, con punte di eccellenza, progetti sperimentali anche avanzatissimi ma che faticano – con le dovute eccezioni – ad andare oltre il carattere di sperimentalità, la scala ridotta e l’assenza di garanzie di continuità da un anno all’altro.
4. Peraltro, anche laddove si riscontra, a livello nazionale e locale, un maggiore investimento in ambito sociale e sulla disabilità, la precarietà e l’incertezza che caratterizzano i servizi sociali spingono gli attori in gioco (amministrazioni e gli stessi utenti) a privilegiare, la concessione di sussidi economici piuttosto che i servizi, tipica attitudine italiana alla monetizzazione, pur con la già richiamata eccezione del SSN. Si pensi che il Fondo nazionale per le non autosufficienze è stato portato a 450 milioni annui e stabilizzato nel bilancio dello stato, mentre il Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive di sostegno familiare istituito con la L. 112/2016 (sul dopo di noi) è arrivato ad avere una dotazione di 56 milioni annui. A livello locale, l’Indagine sulla spesa sociale dei comuni singoli e associati (vedi sopra) evidenzia come fra 2005 e 2015 la percentuale destinata all’area della disabilità sia aumentata dal 20,4% al 25,4%, in un contesto di crescita, sia pur contenuta, della spesa sociale complessiva dei comuni (da 6 a 7 miliardi annui).
Così, ad esempio, laddove il Ministero del lavoro e delle politiche sociali individua fra le azioni prioritarie da realizzare col Fondo per le non autosufficienze (anno 2016), fra l’altro, il rafforzamento dei servizi domiciliari (pur non escludendo che questo possa avvenire anche mediante trasferimenti monetari), la Regione Lazio, in fase di traduzione a livello regionale dell’indicazione nazionale indica (DGR 104/2017) che “L’intervento di assistenza in ambito domiciliare a persone in condizioni di disabilità gravissima si realizza attraverso il riconoscimento di un contributo economico, denominato assegno di cura, finalizzato all’acquisto di prestazioni rese da personale qualificato scelto direttamente dall’assistito e dalla famiglia” ovvero, alternativamente, attraverso un “contributo di cura” erogato alla persona in condizione di disabilità per il sostegno al caregiver familiare, mentre la possibilità di utilizzo dei fondi disponibili per l’aumento delle ore di assistenza domiciliare da parte del comune viene considerata fra le opzioni residuali, residualità che di fatto scompare nell’ulteriore traduzione della norma a livello locale (cfr. ad esempio, per il comune di Roma, la DGC 7/2018).
La richiesta di monetizzazione proviene anche da molte famiglie di disabili, convinti di potere ottenere una migliore assistenza autonomamente (o tramite le proprie associazioni) e di avere in tal senso un diritto alla prestazione monetaria. Così, rispetto al SAISH, l’assistenza domiciliare ai disabili offerta dal comune di Roma, è costante la richiesta di forzare la regolamentazione per ottenere la prestazione indiretta (monetizzata) piuttosto che diretta e, nei casi in cui è concessa l’indiretta, di non assumere direttamente un assistente, come richiesto, bensì passare attraverso l’intermediazione di agenzie e, ancora, di diluire gli obblighi di rendicontazione. Si tratta di una tendenza che gli enti locali spesso assecondano in quanto, dal punto di vista finanziario, monetizzare permette loro un risparmio significativo rispetto all’assistenza diretta. D’altra parte, la flessibilità accordata alle famiglie dei disabili si realizza spesso a discapito della qualità del servizio e della stessa persona con disabilità, che rischia di perdere il contatto quotidiano coi servizi e si ritrova più isolato, laddove, come emerge chiaramente dal già citato articolo di Cicerchia et al., alla base del benessere della persona vi è proprio la capacità di inserirsi in una adeguata rete sociale e di attività.
5. La tendenza alla monetizzazione conferma il generale primato, nel sistema di welfare italiano, dei trasferimenti monetari sulla prestazione di servizi. Va ricordato che le prestazioni in assoluto più impegnative dal punto di vista finanziario a favore della disabilità sono già di natura pensionistica: le pensioni di invalidità civile (circa 1 milione, per 300 euro al mese in media) e le indennità di accompagnamento (circa 2 milioni per 500 euro mensili), quest’ultima, forse, l’unica prestazione assistenziale universalista non selettiva presente nel welfare italiano assieme al bonus cultura ai diciottenni.
Di fatto, la spesa per tali trasferimenti monetari è di un ordine di grandezza del tutto diverso rispetto alla spesa per i servizi sociali. Si pensi che le due suddette prestazioni sono costate nel 2018 complessivamente più di 16 miliardi, cui si potrebbero aggiungere ulteriori 2 miliardi relativi alle pensioni di invalidità civile trasformate in assegni sociali al raggiungimento, da parte del titolare, del relativo requisito di età e almeno 14 miliardi di spesa per pensioni previdenziali di invalidità (v. Tab. 1).
6. L’arretratezza che abbiamo evidenziato nei servizi sociali non è senza costi. Non solo, come evidenziato da Cicerchia et al., le persone con disabilità devono fronteggiare ancora moltissimi ostacoli per partecipare alla vita sociale, ma peggiora anche la qualità della vita ed emergono condizioni di disabilità che con adeguati interventi potrebbero non emergere, in particolar modo nelle età più tarde. E’ significativo, in tal senso, quanto mostrano i dati sulla speranza di vita in buona e cattiva salute (Fig. 4.1-4.3): laddove la speranza di vita fra 2004 e 2015 è continuata ad aumentare in Italia, anche se meno di un tempo e meno rispetto agli altri paesi considerati (Francia, Germania, Svezia), la crescita della speranza di vita in buona salute, priva di disabilità, sembra essersi quasi arrestata, laddove in altri paesi, vedi in particolare la Svezia, il gap si è sostanzialmente ridotto, con un aumento più che proporzionale della speranza di vita in buona salute.
Tale evidenza, lungi dall’essere conclusiva, potrebbe rivelare connotazioni anche di tipo distributivo laddove emergesse che le ben note differenze nella speranza di vita legate al reddito e alla scolarizzazione (Fig. 4.4) si accentuano ulteriormente a livello di speranza di vita in buona salute, col risultato che l’inadeguatezza dei servizi sociali colpirebbe in modo più che proporzionale gli individui con tassi di scolarità o redditi più bassi.
* Le considerazioni espresse sono meramente personali.
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