Io giaccio con la verginità

“Corazón maldito por què palpitas?”

Il discorso che Don Trento ha tenuto a al Meeting di Rimini il 28 agosto 2008 –
Un bambino fuggito verso Gesù, travolto dal ’68, toccato dall’amore e graziato dalla depressione. Giussani ne ha fatto lo sposo della purezza e il padre degli ultimi
fonte:
http://unoconunapersempre.org/testimoni/don-aldo-trento/io-giaccio-con-la-verginita/

Missionario della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo in Paraguay dal 1989, don Aldo Trento ha sessantadue anni. Bellunese, parroco della chiesa di San Rafael ad Asunción, dal 2004 è responsabile della clinica per malati terminali intitolata a san Riccardo Pampuri. In questo luogo arrivano pazienti in fin di vita, malati di cancro o di Aids, e persone abbandonate a loro stesse, che non hanno più nessuno in grado di accudirle. Il 2 giugno di quest’anno il presidente della Repubblica italiana gli ha conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà. Il testo qui pubblicato è il discorso tenuto al Meeting di Rimini giovedì 28 agosto all’interno del ciclo di incontri intitolati: “Si può vivere così”.

“Corazón maldito por què palpitas?”, “Cuore maledetto perché batti?”, dice Violeta Parra. E poi: “Gracias alla vida che m’ha dato tanto”. E poco tempo dopo si toglie la vita. Perché incomincio così? Perché vorrei riprendere qui quello che mi ha commosso molti anni fa quando Giussani ha detto: “Vi auguro di non essere mai tranquilli”.
Luglio 2008, sono lì con i bebè (che cura nella sua casa in Paraguay e lo chiamano “papà”, ndr) a cui sto dando il biberon. Torna Cristina, la mamma che mi aiuta coi bambini piccoli malati di Aids o violentati, tornano con le pagelle, li metto in girotondo, leggo le pagelle. Lì si va dall’uno al cinque. Uno, uno, uno, uno, tutti uno. Sorrido e gli dico: “Assomigliate a vostro padre che ha sempre avuto problemi di scuola e di risultati, era buono a nulla. ‘Placido si chiamava’ e spera di diventare Santo. Però c’è un motivo che mi fa contento. Perché nella vita la cosa difficile non è passare da uno a cinque, ma da zero a uno, e voi da febbraio a luglio siete passati da zero a uno”. Poi ho spiegato alla mamma cosa volevo dire. Bene, io sono questo ragazzino di sessantadue anni che forse è arrivato a due, per pura grazia divina. Per questo più che parlarvi delle opere, ho scritto in omaggio a Giussani, perché io vivo di lui: è lui, è Dio, è lui dietro tutto quello che potete vedere o leggere.

Padre Aldo – mi disse Giussani – ho deciso, adesso che stai diventando un uomo, di mandarti in Paraguay”. “Ma come, mio fratello mi ha detto che sarebbe meglio che mi ricoverassi al reparto per esauriti mentali a Feltre, vista la grande depressione che sto vivendo, una malattia inattesa che mi ha tolto la voglia di vivere, che mi ha portato d’improvviso a perdere il gusto della vita, mi ha reso difficile ma non impossibile il nesso con la realtà e, tu, mi vuoi mandare in missione?”. Giussani mi guardò come quella volta che Gesù fissò con tenerezza il giovane ricco, Zaccheo, la Maddalena, Matteo e mi disse: “Ebbene, io ti mando in missione perché solo adesso mi sento sicuro di te. Parti. Ti faranno il biglietto e io ti accompagnerò a Linate con lei e i suoi tre bambini”. Era il maggio del 1989, a Riva del Garda. Ma cosa era successo prima, perché mi accadesse tutto questo? Perché il Giuss mi prendesse per mano e mi dicesse quelle parole? A sette anni la chiamata chiara ad essere tutto di Gesù. Cinquant’anni fa, il 28 luglio 1958, abbandonai la mia famiglia alla quale non chiesi il permesso, semplicemente la posi al corrente della decisione e in autostop fermai un trattore che mi portò in seminario. Mia madre mi guardava sbalordita e incredula dalla finestra e piangeva, e io: “Mamma verrai a trovarmi?”, ed il trattore si avviò lentamente verso un destino in cui era chiara una sola cosa in me, dentro la mia irrequietezza: Gesù mi voleva tutto, tutto per sé.

Molti anni più tardi compresi che tutto questo si chiamava verginità, che è la bellezza, lo stupore, la capacità di commuoversi di fronte alla realtà, paternità, pienezza affettiva. Il seminario: anni difficili, belli e rabbiosi. Finalmente, nel pieno della contestazione del ’68, nel ’71 mi ordinano sacerdote. Dubitavo che mi ammettessero. Ero totalmente di Cristo, ma l’insoddisfazione e il desiderio di un mondo nuovo, l’irrequietezza per un vuoto esistenzialmente e socialmente poco interessante, mi portò a simpatizzare per Potere Operaio. L’ideologia piano piano cercava di riempire quel vuoto, ma il male di vivere già faceva capolino dentro le fibre del mio cuore e si manifestava in ribellione. Così mi spedirono a Salerno, fra i figli dei carcerati, per vedere se entravo nell’ordine, nel politicamente corretto, diremmo oggi. Lì un giorno quattro ragazzini di Battipaglia, come un fulmine, cambiarono la mia vita. Prima avevo partecipato a organizzare uno sciopero contro l’imperialismo del Vietnam e insegnavo la teoria di Paulo Freire invece di religione. Quei ragazzi mi dissero: “Professore non è così che lei cambia il mondo, il mondo cambia se cambia lei, e lei cambia se si lascia amare da Gesù”. Sconvolto da quel momento, una possibilità di vita nuova apparì nell’orizzonte della mia vita: potevo prendere sul serio la mia umanità senza paura, senza censurare niente. Le cose però precipitarono e i miei superiori mi spedirono al nord, vicino a mia madre, per vedere un possibile miracolo nella mia vita. Così mi stabilii a Feltre, in provincia di Belluno. Tutto continuava in una guerra interiore tra l’ideologia e il vuoto esistenziale, la domanda sul perché della vita e una aridità affettiva terribile, perché si era pietrificato il cuore. Si diceva (e l’avevo imparato a memoria): “Il privato non esiste, ciò che conta è il politico”. Due anni durissimi dove solo quella scintilla accesa a Salerno mi dava una fragile speranza.

Però la disperazione cresceva e fu così che un giorno un amico mi invitò ad un’assemblea a Padova con don Giussani. Sul palco, ricordo come adesso, ad un certo momento salì una giovane bella donna, vedova con tre bambini piccoli, lesse il suo dramma e la sua fede di fronte a quanto le era accaduto. Rimasi sconvolto e da quel gennaio ’87 non ebbi più pace. Ero rimasto affascinato. Un fascino che dopo alcuni mesi si trasformò in una grande affezione. Mi sembrava di sognare. Ma date le reciproche condizioni di vita il tutto sfociò in disperazione che diventerà presto una depressione che non mi abbandonerà più. Da quel momento mi spaventai perché non potevo credere che la mia umanità fosse un impasto di desideri, di aspirazione di infinito, di amare e di essere amato, di bellezza e di giustizia e anche di gelosia e di possessività. Ma che fare? Il grido, l’umano è solo grido, mi rese mendicante; mendicante di un rapporto di qualcuno che mi facesse vedere che quell’affetto non solo era incompatibile con quello che ero, con il mio sacerdozio, ma era come il cammino necessario per gustare la bellezza della verginità, il possesso senza possedere, per vincere quel vuoto affettivo riempito per anni dall’anestesia dell’ideologia. E così il 25 marzo 1988, in ginocchio, piangendo, andai da Giussani. Mi accolse come lui sapeva fare, perché nel suo cuore c’era posto per uno come per un milione. Mi abbracciò, mi lasciò piangere, mi dette le caramelle dopo un lungo tempo di singhiozzi e mi disse: “Che bello, adesso finalmente cominci ad essere un uomo! Quanto stai vivendo è una grazia per te, per lei, per i suoi figli, per il movimento e per la Chiesa. Vai e porta loro l’uovo di Pasqua”.

Da quel giorno fino alla sua morte mi tenne con sé. Prima di uscire da quella stanza a Milano mi richiamò indietro e mi disse: “Come sarebbe bello che quest’estate qualcuno ti facesse compagnia!”. Lo guardai e dissi: “Ma Giussani, dove potrei incontrare un uomo, un prete, disposto a condividere l’estate con uno schizzato, un ossesso, con tutto quello che devono fare?”. Mi fissò come Gesù: “Va bene, ti porterò via con me”. Per due mesi, fino alla partenza per il Paraguay, mi tenne con sé, pagandomi tutto e trasferendomi dalla mia prima congregazione alla Fraternità San Carlo. Don Massimo Camisasca (rettore della Fraternità sacerdotale San Carlo ndr) si vide arrivare questo pacco, questo povero uomo, buono a nulla, nelle sue mani e mi accolse. “Prendere sul serio la propria umanità senza censurarla – dice Giussani in “Tracce d’esperienza cristiana” – è la strada necessaria perché riaccada l’incontro con Cristo”. Ma che terribile, che bella la propria umanità così fragile, così povera e grande allo stesso tempo! Mi ha fatto paura il mio io. Non pensavo che l’umano fosse una miscela, un insieme di queste cose belle e disperate, che fosse insieme ironia e disperazione. Così per non perdere quanto amavo, mi accompagnò all’aeroporto e volle che ci fosse quel segno sacramentale dell’amore divino con i suoi tre bambini. Ricordo, quando con gli occhi rossi sul marciapiede di Linate, guardando lei sofferente dissi a Giussani: “E lei?”. La guardò e le disse: “Al prossimo ritiro del Gruppo adulto ti aspetto (il Gruppo adulto, o Memores Domini, è un’associazione che riunisce le persone di Comunione e Liberazione che hanno compiuto una scelta di dedizione totale a Dio vivendo come forma la virtù che la Chiesa chiama verginità, ndr)”.

Era il giorno della natività della Madonna quando giunsi in Paraguay. Passò un anno e il 15 ottobre 1990, giorno del compleanno di Giuss, mi chiamò lui per telefono: “Padre Aldo, chiama lei e dille che il direttivo del gruppo adulto ha deciso di accoglierla nel suo grembo”. Non riuscii neanche ad augurargli “buon compleanno” per la commozione, perché non potevo capire tanta tenerezza sua e tanta umanità. Non poteva fare lui questa cosa? Dirglielo lui! Perché si preoccupa che sia io a dirlo a lei, che stavo a dodicimila chilometri di distanza? Solo un uomo come lui poteva essere capace di amare così. Da quel giorno sono dovuti passare quindici lunghi anni dove solo la compagnia di Padre Alberto, continuità visibile di quella del Giuss, non solo ha impedito che la facessi finita con la vita, diventata insopportabile per l’acuirsi ogni giorno di più della depressione, ma mi ha fatto lentamente capire una cosa essenziale nella vita: solo un grande amore, un grande dolore, dentro la forte tenera amicizia, per quanto fragile, fanno di un io un uomo, cioè un padre. Padre Alberto ha vissuto per dieci anni solo per far compagnia ad un disperato, dibattuto fra la percezione che amare ed essere amato è possibile e la crudeltà della vita che pareva fregarmi. Ma la realtà, l’umano di ognuno, non sono mai nemici dell’io neanche quando ti rendi conto che non ti fanno nessuno sconto. Perché vi garantisco, è terribile prendere sul serio la realtà, la propria umanità. Perché non puoi che gridare, mendicare, consegnarti, come da quando ho sette anni a oggi continuo a gridare. E così ad un certo punto Dio, la realtà mi toglie anche la compagnia di Alberto e rimango solo. Solo col mio dramma, con la mia non voglia di vivere, con la mia stanchezza. L’unico conforto, da quel momento, sarà l’eucarestia che porrò come parroco e signore di tutto.

Da lontano Alberto e Monsignor Pezzi mi guidano ogni giorno: “Aldo, in alto i cuori!”. La chiarezza del destino, pur nella confusione della mente e nell’assenza di ogni emotività; la percezione della distanza come condizione del “già”, di una possibile pienezza affettiva, l’unica che fa di un uomo un uomo; la possibilità di amare virilmente colei che Dio mi aveva posto sul cammino come inizio di un cambiamento: tutto questo si chiama verginità che ha dato origine a quella piccola città della carità che, in compagnia di Paolino ed Ettore, è diventata la comunità di San Rafael in Paraguay. La verginità, ossia la carità, è la pienezza oggi, è come l’albore dell’io a cui è data la grazia di sperimentare adesso quello che ogni ragazzino con la tenerezza che porta dentro dice alla sua ragazzina, quando si innamora: “Tuo per sempre, ti voglio bene per sempre”. In fondo siamo realisti, aveva ragione Camus quando metteva in bocca a Caligola: “Voglio la luna”. O quanto scriveva Carl Marx a sua moglie: “Ciò che fa di me un uomo è il mio amore per te e il tuo per me”.

Si ama, si è padri solo se si è amati, attraversando tutte le belle, drammatiche e ironiche pieghe dell’umano. Io vivo facendo compagnia all’uomo che grida, piccolo, giovane o ammalato terminale che sia. Quanto è nato e creato da Dio, mediante questo povero uomo, è stato da Lui voluto perché io possa fare a tutti quello che Giussani ha fatto a me: compagnia. E’ così che quando ho visto per la prima volta un cadavere per la strada me lo sono preso, l’ho portato a casa, l’ho pulito. E così di giorno in giorno. Ho preso i moribondi, gli abbandonati, quelli putrefatti, delle favelas. E Dio ha creato quell’insieme di opere che oggi vedono impegnate più di 100 persone pagate e centinaia di volontari. L’uomo sano, bello o putrefatto non ha bisogno di consigli, ma di qualcuno che lo tenga per mano. Prendere sul serio il grido che siamo. Dare fiducia a qualcuno che Dio certamente mette sul tuo cammino per indicarti il destino. Accogliere il sacrificio, il dolore, non come una malattia ma come una grazia.

Ricordo un editoriale su un settimanale di molti anni fa, in Paraguay, l’Osservatore della settimana: “La depressione non è una malattia ma una grazia”. Un senatore molto conosciuto si avvicina dopo avermi cercato. Voleva togliersi la vita: questo editoriale lo cambia. Da quel momento diventa un altro. Presiede la commissione Bicamerale. Riesce a mettere tutte le nostre opere nella legge finanziaria. Così un governo del terzo mondo applica un articolo in cui sostiene, finanzia per mille milioni, duecentocinquantamila dollari, un’opera di una realtà che certamente non ha appoggiato il governo attuale. Una cosa impressionante; e così tutto quello che viene dopo. La depressione non è una malattia, è una grazia, perché ti spoglia di tutto. Oggi la chiamano malattia, un tempo la chiamavano purificazione, notte dell’anima, possibilità alla santità: per me è ancora quello. Per questo oggi raccolgo anche i matti. Mi facevano tremendamente paura anni fa, perché mi vedevo un possibile candidato ad essere uno di loro. Oggi li guardo con ironia e rido con loro perché anche nella pazzia ho visto che in tutti c’è un minimo di libertà. Perché ho sperimentato che se non fosse vero questo non esisterebbe Dio, perché non ci sarebbe l’uomo. L’uomo è libero anche quando perde la ragione. Ho la certezza perché l’ho visto su di me.

Voglio dire che realmente il dolore è una grazia che ti permette di essere contento perché ti permette di amare, ti permette di vivere la verginità, che è l’unica e reale e concreta vocazione dell’uomo: la pienezza dell’io. Perché cos’è la verginità? L’io compiuto già come possibilità adesso, come possibilità affettiva. Grazie Gesù per il tanto amore, per il tanto dolore che mi permetti di vivere ogni giorno. Stretto a te sulla croce per poter dire a tutti: “Ti voglio bene per l’eternità, così come io sono voluto bene adesso da te oh Gesù”. Davvero si è compiuta quella promessa. Io a 62 anni sono un uomo contento dentro un inizio di compiutezza che mi fa guardare la morte con serenità. Ho accompagnato a morire più di cinquecento persone in quattro anni. Tutte con il sorriso sulle labbra. Son diventato padre di decine di bambini che non hanno nessuno e mi chiamano papà: “Papà quando torni, perché te ne vai?”. Li metto a letto la sera, li prendo la mattina e li accompagno a scuola. In me si è compiuta, si sta compiendo quella profezia di Giussani: “E’ una grazia per te”. Per lei anche, perché è una donna contenta, per i suoi figli: due consacrati e uno sposato, per il movimento. Credo che l’esperienza che vivo sia un esempio per la Chiesa. Io vivo per quello.

Anche oggi che in Paraguay c’è un governo socialista, il vicepresidente, pur sapendo tutta la battaglia che abbiamo fatto perché non vincesse questo governo, mi ha chiesto: “Padre, posso ogni lunedì alle sei venire a pregare lodi con te?”. Ebbene da quando è stato nominato, il 15 agosto, tutti i lunedì mattina il vicepresidente prega lodi con me e fa un po’ di adorazione. Un miracolo insperato. E’ nato perfino un partito trasversale per i temi della vita, per i temi dei poveri. Perché anche dentro a questa condizione impensata del socialismo del Ventunesimo secolo che vuole svuotare il cristianesimo di Cristo, uno deve lavorare con intelligenza, con amore, con Cristo, partendo da Dio. Anche il vescovo presidente ha detto al Nunzio: “Padre Aldo io lo rispetto, e così i suoi confratelli. Perché di fronte a quello che lì accade non è possibile fare rappresaglie, perché è qualcosa che noi desidereremmo che accadesse in tutto il Paraguay”. Grazie, e pregate per me. (Immagini: Salvador Dalì, “Crocifissione” (1954), olio su tela, Metropolitan Museum of Art New York – don Aldo Trento durante l’incontro al Meeting)

di don Aldo Trento – 7 settembre 2008