ISLAM: UN PROBLEMA POLITICO.

Magistrale articolo dell’islamologa francese M-T. Urvoy – IL VERO SIGNIFICATO DELLA « UMMA » MUSULMANA

Marie-Thèrese Urvoyvanthuanobservatory

« Nel Corano ritroviamo questo primo uso del verbo âmana nel senso di “fidarsi gli uni degli altri”. Vi si dice infatti che il profeta «si fida dei muʼminûn », mentre non «si fiderà per niente» di quanti si tirano indietro e trovano delle scuse per non impegnare i loro beni e le loro persone nella lotta sulla strada di Allah (IX, 41, 44, 73 et 81).

Gli affidati «sono una umma unica, ad esclusione degli altri uomini», dice l’incipit della Carta. Nel grande dizionario classico Lisân al-ʽarabumma questa parola significa prima di tutto gruppo, o raggruppamento umano in senso neutro. Qui, essa non designa un raggruppamento etnico o tribale, ma nel contesto dell’Arabia di allora indica la federazione dei Qurayshiti della Mecca, giunti a Medina con il profeta, e i vari clan e tribù della zona di Medina. Questa confederazione è di natura politica, unita dall’adesione al profeta di Allah.

Essa si caratterizza per il fatto di essere esclusiva. La finalità di questa organizzazione è di garantire l’efficacia del comune sforzo guerriero. Ciò è espresso fin dall’inizio della Carta con la parola jihâd, che verrà più tardi precisata con l’espressione “il combattimento sulla strada di Allah”. Una stretta regolamentazione e una casistica minuziosa stabiliscono che un affidato possa evitare una sanzione, anche se è colpevole, se la vittima è estranea al gruppo.

Questa solidarietà nasce prima di tutto dallo spirito di sopravvivenza del gruppo – dirà lo storico Muhammad Talbi, per giustificare le violenze degli inizi della storia dell’Islam, – «perché si trattava della difesa e della sopravvivenza della umma primitiva». Non per caso quando il Corano dice: «i credenti sono dei fratelli» (XLIX, 10) utilizza la particella grammaticale innamâ che contiene un significato esclusivo, ma anche un effetto amplificante che dinamizza la frase nominale.

Essa è da mettere in relazione con la particella illâ, propria del credo monoteista «nessuna divinità eccetto Allah», che carica la frase nominale, qui negativa, di un esclusivismo ferreo. In questi due esempi abbiamo ben più che delle questioni tecniche, abbiamo delle vere e proprie strategie stilistiche che mirano ad un solo effetto: la valorizzazione dell’aspetto assoluto con la relativa ricaduta nella mente dei credenti.

Del resto, il commentatore al-Râzî afferma che la particella innamâ comporta restrizione: «nessuna fraternità se non tra Musulmani». Egli spiega la sua interpretazione basandosi sulle prescrizioni legali che negano una qualunque fraternità tra un Musulmano e un infedele, il quale non può in nessun caso ereditare da un Musulmano.

Allah ricorda a più riprese ai Musulmani che essi sono i soli credenti nel Corano: «voi siete la comunità migliore che sia mai stata creata per gli uomini; voi ordinate di fare il bene e vietate di fare il male, voi credete in Allah» (III, 110). A partire da qui, l’islam ha considerato la susperiorità della comunità dei credenti come il primo legame tra di loro: essi hanno come segno distintivo la capacità di distinguere tra fede e infedeltà, bene e male.

Dall’invincibile affermazione dell’unicità di Allah discende il senso vivo del Musulmano per l’unità con i suoi fratelli nella medesima fede. Essi sono inviati da Allah per difendere i suoi diritti sulla terra. Sono dei servitori eletti e incaricati dell’esecuzione di un piano divino che coincide con le prescrizioni sociopolitiche scese sul suo profeta a beneficio dell’umanità e per il trionfo dell’islam su tutte le religioni (IX, 33).

Questi brevi richiami alle fonti dell’Islam a Medina permettono di comprendere la nozione di “terra dell’islam” (dâr al-islâm) nei suoi rapporti con gli infedeli. L’espressione designa l’insieme delle terre dove viene osservata la legge islamica ed è la rappresentazione concreta dell’organizzazione politica dell’Islam. Accanto alla terra dell’islam c’è “la terra della guerra” (dâr al-harb), chiamata anche “terra dell’infedeltà » (dâr al-kufr). Conquistarla è un «dovere collettivo» per installarvi la umma che difende i diritti di Allah.

Una simile divisione del mondo fa sì che un aggiornamento sia tecnicamente difficile perché il Diritto islamico classico è strutturato secondo uno schema preciso proprio di tutte le società islamiche:
1. uomini e donne;
2. liberi e schiavi;
3. Musulmani e non musulmani.
Non hanno tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri. La comunità dei credenti è privilegiata a motivo della sua origine sacralizzata nel Corano.

Uno Stato islamico va inteso di trascendenza divina, coranica e  chariatica. Le sue terre sono le terre di Allah, del Corano e della legge di Allah. Questa sottomissione ad una trascendenza si trova nella disposizione, per costituzione, che l’islam “è la religione dello Stato”, e non solamente “religione di Stato”. 

Lo Stato fa professione di islam. In uno Stato islamico l’adesione alla comunità non pone direttamente la questione di una vita nuova, nel senso del rinnovamento individuale tramite la grazia (quella dell’uomo nuovo di San Paolo), perché l’islam è la religione di una collettività. Essa è essenzialmente uno stato, uno statuto giuridico (hukm), direttamente voluto e decretato da Allah. Gli individui che vi si sottraggono sono braccati, perseguitati, e perfino messi a morte dall’islam ufficiale tradizionale ».

(Marie-Thèrese Urvoy)

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