Isolamento di Putin e condanna del CPI: un errore strategico e diplomatico

I rapporti diplomatici devono essere preservati anche durante i conflitti, poiché sono strumenti essenziali per affrontare i momenti più difficili. La tendenza recente a limitare o interrompere i contatti diretti, come nel caso di Vladimir Putin, rappresenta un grave errore e un allontanamento dalla tradizione storica. Persino durante la Seconda Guerra Mondiale, Paesi neutrali come Svizzera, Svezia, Spagna e Portogallo, che non erano direttamente coinvolti nel conflitto, mantennero relazioni diplomatiche con la Germania nazista. Questi canali servivano a facilitare mediazioni, scambi di informazioni e la gestione di situazioni critiche, evitando un isolamento totale.

Anche durante la Guerra Fredda, nonostante la contrapposizione ideologica e strategica tra Stati Uniti e URSS, il dialogo rimase costante. La diplomazia non solo sopravviveva alle tensioni, ma veniva valorizzata proprio come mezzo per evitare escalation. Questo rende ancora più evidente quanto sia straordinaria e anomala la decisione di molti leader europei di limitare i contatti con Mosca dall’inizio del conflitto russo-ucraino.

Il comportamento di Emmanuel Macron, ad esempio, che recentemente ha dato la mano a Lavrov durante il G20, non sembra indicare un reale tentativo di disgelo. Al contrario, la sua successiva approvazione di ulteriori invii di armi, compresi missili a lunga gittata, dimostra come il dialogo sia più una strategia tattica che un segnale di apertura. Tuttavia, il fatto che pochi leader abbiano seguito questo esempio rafforza la percezione di una rottura diplomatica senza precedenti.

Anche la condanna di Putin da parte del Tribunale Penale Internazionale rappresenta un grave errore. Questo strumento, introdotto in tempi relativamente recenti, ha spesso contribuito ad alimentare le tensioni invece di attenuarle. Le inchieste e i procedimenti giudiziari dovrebbero essere avviati solo al termine delle ostilità, quando le condizioni consentono una valutazione equa e completa. La storia ci insegna che un approccio diverso rischia di legittimare ulteriori escalation.

Un esempio evidente è il caso di Mu’ammar Gheddafi, dove il mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale non servì a prevenire il conflitto, ma piuttosto a giustificare l’aggressione della NATO. Questo intervento fu presentato come una crociata legale contro un “nuovo Hitler”, mentre in realtà mancava di solide basi nel diritto internazionale. La condanna fu utilizzata come pretesto per accelerare la guerra, conferendo una parvenza di legittimità a un’azione militare che altrimenti sarebbe stata difficilmente giustificabile.

Una dinamica simile si sta ripetendo oggi con Putin, attraverso la strumentalizzazione di episodi come il presunto massacro di Bucha e il trasferimento di bambini ucraini in Russia. Tuttavia, queste accuse non sono state oggetto di indagini condotte da commissioni indipendenti, né da organismi imparziali. Gli elementi utilizzati per sostenere tali accuse provengono quasi esclusivamente da fonti legate a una delle parti in conflitto, compromettendo la credibilità e l’imparzialità del procedimento.

Questo modo di utilizzare il diritto internazionale come leva politica, anziché come strumento di giustizia,mina ulteriormente la possibilità di negoziati e di perpetuare il conflitto.

Anche la condanna del presidente siriano Bashar al-Assad, emessa in circostanze simili, rappresenta un esempio di come i tribunali penali internazionali siano stati utilizzati per incentivare tensioni piuttosto che favorire soluzioni pacifiche. Questa condanna, avvenuta in prossimità di una conferenza di pace a Ginevra, si rivelò un grave errore strategico, poiché minò ogni possibilità di dialogo e negoziato. Identificare Assad come un criminale, anziché come una controparte con cui dialogare, contribuì a polarizzare ulteriormente le posizioni e a ostacolare i tentativi di risoluzione diplomatica.

Come nel caso di Gheddafi e ora con Putin, anche la condanna di Assad fu accompagnata da una narrativa che lo dipingeva come un dittatore paragonabile a Hitler, legittimando indirettamente azioni militari contro il suo regime. Tale approccio non solo delegittima il ruolo dei tribunali internazionali, trasformandoli in strumenti politici, ma compromette anche il processo di pace. In particolare, l’idea di perseguire un leader durante il conflitto conferisce alle parti in guerra una giustificazione per intensificare le ostilità, confidando in una presunta “copertura legale” delle proprie azioni.

La strumentalizzazione di episodi controversi, spesso basati su informazioni fornite da una parte in conflitto senza una verifica da parte di commissioni indipendenti, come accaduto con Bucha nel caso ucraino o con l’uso di armi chimiche in Siria, dimostra come queste accuse vengano utilizzate più per sostenere obiettivi politici che per cercare giustizia. In ogni caso, la tempistica di queste condanne – in piena guerra o in prossimità di tentativi di dialogo – evidenzia un modello che ostacola la diplomazia e favorisce ulteriori escalation.

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