Il conflitto tra Israele e Hamas ha raggiunto nuovi livelli di intensità, e l’eccessiva forza utilizzata da Israele nella Striscia di Gaza sta suscitando serie preoccupazioni internazionali. Gli ultimi raid israeliani, che hanno causato almeno 16 morti tra i civili, sono emblematici di una strategia che non distingue tra obiettivi militari e strutture civili, colpendo anche abitazioni e ospedali. Questa escalation viene giustificata come risposta a lanci di missili da parte di Hezbollah dal Libano, ma è lecito chiedersi: attaccare Gaza in risposta a Hezbollah in Libano è davvero una strategia di difesa legittima o si tratta piuttosto di una punizione collettiva?
Anche in Cisgiordania, le operazioni militari israeliane hanno provocato vittime civili, come nel caso di un’adolescente palestinese uccisa vicino a Jenin. Le autorità israeliane hanno inoltre prorogato il divieto di trasmissione per Al-Jazeera, accusata di sostenere Hamas, evidenziando un tentativo di controllo delle narrazioni e delle informazioni sul conflitto.
La dottrina degli attacchi preventivi adottata da Israele ha radici profonde sia storiche che religiose. Questo approccio, spesso giustificato come autodifesa, è una risposta a un passato segnato da conflitti e minacce percepite alla sicurezza nazionale. Gli attacchi preventivi, o “preemptive strikes”, sono considerati una componente fondamentale della strategia militare israeliana, che mira a neutralizzare le minacce prima che queste possano concretizzarsi. Questa mentalità è rafforzata da interpretazioni di testi religiosi che enfatizzano la necessità di difendersi proattivamente contro qualsiasi pericolo imminente.
Tuttavia, questa politica di sicurezza aggressiva ha portato a un ciclo di violenza che sembra auto-perpetuarsi. Ogni attacco preventivo crea ulteriori risentimenti e alimenta l’odio, rafforzando la narrativa del conflitto come una lotta esistenziale. Mentre gli attacchi israeliani vengono spesso presentati dai media occidentali come azioni “difensive”, esistono prove schiaccianti che suggeriscono che molte di queste operazioni vanno ben oltre la semplice difesa, coinvolgendo la distruzione indiscriminata di infrastrutture civili e servizi essenziali.
Gli attori internazionali, in particolare gli Stati Uniti, giocano un ruolo cruciale nel sostenere questa aggressività israeliana. Il loro appoggio incondizionato ha permesso a Israele di operare con un senso di impunità, sapendo che non ci saranno ripercussioni significative da parte della comunità internazionale. Questo sostegno rafforza l’approccio militaristico e l’uso della forza come principale strumento di politica estera di Israele, complicando ulteriormente qualsiasi tentativo di negoziazione o pace.
Il futuro del conflitto Israele-Palestina appare purtroppo oscuro. La situazione a Gaza peggiora costantemente, con la popolazione civile che continua a subire pesanti perdite e la distruzione delle infrastrutture. La comunità internazionale, dal canto suo, sembra incapace o non disposta a intervenire in modo significativo. Senza un cambiamento radicale nelle politiche internazionali o un mutamento profondo nella leadership e nella mentalità politica israeliana, il ciclo di violenza è destinato a perpetuarsi, intrappolando generazioni di israeliani e palestinesi in una spirale di odio e distruzione senza fine.
Non so voi, ma personalmente questa situazione, dal comportamento autoritario (e ingiustificato) unificato degli stati Covid in poi, mi ha cambiato profondamente, guardando la realtà con rassegnazione, consapevole che le forze in gioco sono sproporzionate. Sono consapevole più che mai che l’uomo è sempre vincente, ma nella misura in cui si affiderà alla forza spirituale ed a Chi fa tutte le cose ed è dentro la storia umana.
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