L’Italia ha una storia che non può essere ridotta agli ultimi 150 anni, alla storia dello Stato unitario. Esiste una nazione italiana da molto prima, così come ha ricordato il cardinal Giacomo Biffi nel suo ultimo, breve ma estremamente significativo, scritto sull’argomento: con la costituzione del Regno d’Italia «è vero che in qualche modo si era dato origine all’Italia politica; ma agli occhi del mondo gli italiani esistevano già da almeno sette secoli e, proprio come italiani, almeno da sette secoli erano oggetto di stima e di ammirazione da parte di tutti gli altri popoli».
Questo perché l’identità italiana nasce innanzitutto da un punto di vista culturale e religioso, come non ha mancato di evidenziare anche Benedetto XVI: «Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale. […] Perciò l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo».
Tuttavia troppe volte nelle recenti celebrazioni del 150° anniversario della nascita dello Stato unitario ci si è dimenticati di tenerlo presente. Nasce lo Stato, la nazione e il popolo: questo è il dogma che attraversa centocinquant’anni di storia d’Italia. L’identità italiana viene fatta coincidere con la nascita di un assetto statuale nuovo. In questo consiste il più grande limite di molta storiografia, di molti discorsi che si sono sentiti nelle celebrazioni dei mesi scorsi. Infatti, l’identità di un popolo è caratterizzata da una cultura, da una concezione globale della vita, che diventa un ethos, un insieme di princìpi morali, che diventa una capacità di aggregazione e di creazione civile; una cultura crea inesorabilmente una civiltà.
Spesso si confondono termini come Nazione e Stato, concependoli come sinonimi, dimenticando così che si tratta di realtà distinte, finendo per identificare la società con lo Stato. Tale confusione, non bisogna dimenticare, nasce da un processo storico che, nel corso della modernità, ha preteso di ricondurre la dimensione sociale e culturale alla dimensione statuale.
Esiste oggi la possibilità di ricostruire la verità storica al di là dei miti e della retorica del Risorgimento, senza con questo volere mettere in discussione il valore dell’unità d’Italia? Occorre innanzitutto prendere coscienza che esiste un’identità italiana che precede l’unità politica. Si deve inoltre cercare di capire se la modalità con cui è stata costruita l’unità politica si sia fondata su tale identità, l’abbia rispettata e l’abbia promossa realmente. Per fare ciò è necessario, oltre a riconoscere i guadagni indiscutibili del Risorgimento (indipendenza e unità statale italiana, l’affermazione di un potere di tipo costituzionale, ecc.), non censurare nessun aspetto, anche quelli più controversi. (…)
Risulta necessario evitare tanto il parlare dell’unità d’Italia come del male assoluto, tanto assumere un atteggiamento acritico, incapace cioè di cogliere quei nodi problematici della costruzione dello stato italiano che hanno segnato drammaticamente la storia del popolo italiano: un modello di governo statalista e centralista che è prevalso, il difficile rapporto tra Stato e Chiesa, la guerra civile combattuta nel Sud Italia.
Un tale sguardo consente di cogliere l’evento della nascita e poi del consolidamento del nostro Stato nella sua complessità, così come si è determinato, cercando di non trascurare la molteplicità di fattori, che spetta proprio alla ricerca storica far emergere. In particolare, gli studi più recenti sul Risorgimento e sull’unità d’Italia permettono di avere una visione meno ideologica rispetto a quella che è prevalsa in passato e che ha trasformato la nascita dello Stato, del popolo e della nazione in una sorta di culto civile, come non senza la sua consueta ironia ha evidenziato il cardinal Giacomo Biffi: «Una volta conclusa l’azione unificatrice, con molta accortezza si è elaborato e imposto una specie di “catechismo risorgimentale” edulcorato, nel quale Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini erano indicati alla venerazione degli italiani come gli autori della mirabile impresa. In realtà, la sola cosa che accomunava questi padri del Risorgimento è che nessuno di loro poteva soffrire gli altri tre».
Un contributo decisivo alla nazione italiana è stato dato dal cristianesimo. L’identità italiana è stata curata, educata e sviluppata dalla Chiesa insieme alle famiglie cristiane; per secoli è stata custodita dai padri e dalle madri di famiglia. L’identità italiana quindi è in una storia, che siamo chiamati a riscoprire, riconoscendo anche l’importante contributo dei cattolici.
È nella inculturazione della fede, nel tessuto culturale, antropologico, etico e sociale del popolo italiano che si è costruito ciò che noi chiamiamo Italia, pur nella varietà delle situazioni e delle condizioni che essa ha vissuto negli ultimi 1.800 anni. La Chiesa ha contribuito a formare tale identità attraverso un’opera assolutamente rigorosa e puntuale di educazione. E l’identità italiana è emersa attraverso la vita di un popolo, sia nell’ordinarietà della vita quotidiana, sia nelle grandi vicende culturali e artistiche. È emersa attraverso la vita di un popolo, che cristianamente mangia, beve, veglia e dorme, vive e muore, non più per se stesso, ma per Colui che è morto e risorto per noi. Non c’è niente di straordinario: è stato un cammino lungo di educazione, che ha dovuto fare i conti con le differenze etniche e, nei secoli centrali della nostra storia, con le litigiosità dei piccoli potentati, ancor più gravi delle inimicizie dei grandi potentati. Ne è nato un popolo, un’esperienza storica che gridava la sua bellezza e la sua verità. Ne sono ancora oggi testimonianza le numerosissime opere d’arte che costituiscono il principale patrimonio del nostro Paese, rendendolo unico al mondo.
Tuttavia un’ideologia ha cercato di sostituirsi a questa identità, di contrastare questa esperienza storica, attraverso il cosiddetto Risorgimento. Se non si comprende la differenza fra un’identità che si vive nella storia e un’ideologia che si impone e pretende di cambiare la storia, non si comprendono le vicende degli ultimi due secoli in Europa e nel mondo. Certamente non si capisce la vicenda del passaggio dalla situazione tradizionale alla situazione unitaria e risorgimentale. Ebbene, una minoranza estremamente ridotta di ideologi, di massoni, di filo-protestanti e di borghesi ha preteso che la sua visione delle cose fosse l’unica possibile e che quindi questa dovesse prevalere sulle altre. È la tragica presunzione di chi sostiene che un’idea giusta possa essere imposta anche con la forza, come aveva già previsto Thomas Hobbes (1588-1679). Questa sostituzione è stata fatta senza nessuno scrupolo, usando la violenza, la manipolazione, l’ingiustizia, la sopraffazione e il disprezzo per una maggioranza considerata informe, per quei “cafoni” dei contadini e per quei “fanatici” dei preti, dei frati e delle suore. (…)
Non c’è nessuno che possa dire che sulla storia del Risorgimento abbiamo già conosciuto tutto. Non esiste nessuna autorità, né civile, né religiosa che possa dire: “Avete studiato abbastanza”. Fatta questa precisazione, credo che quello attuale sia un periodo fortunato, perché di queste vicende storiche si sta componendo un quadro sicuramente più inquietante, ma indubbiamente più oggettivo, favorendo quella necessaria purificazione della memoria. È, cioè, sempre più chiaro che non si può procedere senza sottrarre alla vulgata del Risorgimento il suo carattere di indiscutibilità. Occorre ricordare (e forse pochi lo sanno) che, per la prima volta nella storia delle guerre europee, i piemontesi hanno combattuto la grande battaglia di Gaeta (per intenderci quella che formalmente pose fine allo Stato borbonico) bombardando anche civili inermi; così uomini e donne, in fila per il pane o per l’acqua, diventarono improvvisamente nemici da mitragliare e da uccidere.
Per la prima volta in Italia – ha scritto Cardini – la guerra uscì dalla cerchia degli “esperti” e divenne una questione di popolo. Quello stesso assedio deve essere ricordato anche per un altro atto di efferata brutalità: «Di fronte all’inutilità di un’ulteriore resistenza, Francesco II autorizzò il governatore di Gaeta […] a trattare la capitolazione. Era l’11 febbraio e per due giorni si protrassero i colloqui senza che il generale Cialdini cessasse di rovesciare sulla sventurata fortezza una valanga di fuoco; ne aveva anzi approfittato per far entrare in azione altre due micidiali batterie di cannoni a canna rigata. Visto che la resa era sicura, quell’ulteriore dispiegamento di artiglieria era mortalmente inutile». Ebbene il generale Cialdini, che si macchiò di questo delitto contro l’umanità, venne gratificato dal Re d’Italia con il titolo di Duca di Gaeta.
Evidentemente l’ideologia ha sostituito l’identità del popolo non solo con la violenza, ma tacendo una parte sostanziale della storia che non aveva diritto di esistere, dal momento che non era prevista nei piani delle strutture centraliste, burocratiche e amministrative che hanno guidato l’unità. Un progetto che al Sud arrivò con il prefetto di polizia, il capo dei carabinieri e la tassa sul macinato (il cibo dei ricchi!). Senza dimenticare la coscrizione obbligatoria che, come spesso avviene in Italia per i meccanismi a sorteggio, penalizzò i figli dei poveri e mai i figli dei ricchi.
Tuttavia la Chiesa in questi frangenti non si è tirata indietro e, diversamente da quanto spesso si sostiene, non si è posta in termini reazionari contro la novità dello Stato italiano, ma, anche se condannando duramente la modalità con cui era stata realizzata l’unità, non ha mancato di assumersi pienamente le proprie responsabilità, svolgendo un ruolo decisivo attraverso le sue articolazioni (le parrocchie, le confraternite, le opere sociali ed educative) e attraverso lo sviluppo del Magistero sociale, custodendo la cultura del popolo italiano e contribuendo in maniera decisiva a sviluppare una società più democratica.
La Chiesa cattolica, pur additando sin dall’inizio i limiti gravissimi di questa operazione ideologica, non ha mai trascurato l’educazione. Tant’è che nel fondo del cuore di ogni cattolico e del cuore delle famiglie cristiane essa ha proseguito la sua azione. È proprio grazie all’opera educativa della Chiesa – consentitemi questa affermazione ardita ma rispondente al vero – che il popolo ha sopportato il susseguirsi delle ideologie, senza mai che il suo cuore ne rimanesse totalmente manipolato: né una certa costruzione dello Stato unitario, né il fascismo, né l’azionismo o il marxismo vi sono riusciti. Ecco perché ha saputo affrontare le condizioni sociali e politiche avverse con molta dignità e capacità di sacrificio.
Chi ha educato centinaia di migliaia di soldati cristiani a essere uomini e a morire sui campi di battaglia in guerre pienamente assurde come la Prima guerra mondiale? Chi ha insegnato loro a servire la patria anche per una causa non condivisa? La risposta è semplice: i parroci e quei cappellani che gli sono rimasti accanto e sono morti al loro fianco. L’esempio più chiaro in tal senso è quello del beato don Gnocchi, che ha vissuto in prima linea la terribile tragedia della spedizione italiana in Russia durante la Seconda guerra mondiale. Il fatto è che in tutta la storia umana non si trova una struttura più realista della Chiesa. Essa continua ad educare i propri figli perfino nelle avversità.
L’esistenza di una certa componente ideologica, già tendenzialmente totalitaria, che negava la cultura popolare di allora radicata da secoli nei princìpi del cattolicesimo, determinante nella concezione di Stato sorto a completamento del processo risorgimentale, è un aspetto importante da tenere presente anche perché, nel lungo periodo di questi 150 anni, le ideologie di allora si sono diffuse nel popolo e hanno costituito culture alternative a quella cristiana. (…)
Ma che cosa può fare la Chiesa affinché la sua identità non sia ridotta soltanto a memoria del passato o denigrata come il male assoluto? Deve, oggi come allora, educare i suoi figli a portare nell’esistenza la testimonianza di Cristo – Via, Verità e Vita. Incontrerà così molti più uomini di quanto si possa credere. Incontrerà anche quegli uomini di buona volontà ancora in attesa di un annunzio chiaro, di una certezza e di un’affezione che li accompagni nella solitudine delle masse tele-manipolate. Non so – storicamente parlando – se la Chiesa italiana sarà capace di assumersi fino in fondo questa responsabilità. So, tuttavia, che laddove un Pastore e una comunità ecclesiale riescono a farlo, si genera una società sana, che lentamente cresce ben al di là dei propri limiti.
Per il resto è compito di chiunque riceva questa educazione portarla lietamente nel mondo come la cultura della vita e la cultura di un popolo che sa da dove viene e qual è il senso della sua esistenza. L’unica alternativa – ha affermato Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae – è la cultura della morte: in effetti tra l’umanità dei figli di Dio e coloro che non hanno conosciuto il Mistero (sant’Ambrogio diceva che non sarebbe nemmeno valsa la pena di nascere, se non fosse per essere stati salvati dal Mistero di Cristo) non esistono vie di mezzo.
fonte Identità europea