Lo scorso ottobre il New York Times ha reso noto che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti hanno finalmente ammesso che il governo ucraino aveva autorizzato l’assassinio di Darya Dugina, la figlia del teorico politico russo Aleksandr Dugin. Questa ammissione è giunta un mese dopo l’attentato, avvenuto alle porte di Mosca, che ha causato la morte della giovane giornalista di 29 anni. Le Nazioni Unite hanno chiesto un’indagine sull’omicidio, che è stato causato da un ordigno esplosivo piazzato nell’auto del padre di Dugina.
Il Servizio federale di sicurezza (FSB) della Russia aveva già condotto la propria indagine, ed aveva trovato tracce del Servizio di sicurezza dell’Ucraina (SBU) sull’omicidio avvenuto nell’agosto, di cui molti ipotizzano che il signor Dugin fosse l’obiettivo. Si è anche notato che il sito web dell’elenco dei nemici del governo ucraino Myrotvorets (“Pacificatore”), che includeva la famiglia Dugin, ha sede nella stessa città della sede della CIA.
Il filosofo russo Dugin è stato descritto come il “cervello di Putin” dalla intelligentsia occidentale, ma questa rappresentazione è esagerata e priva di prove. Non ha alcuna autorità sulla guerra né coinvolgimento nel governo russo. Questa narrativa ha permesso alla stampa gialla di diffamare sua figlia assassinata, dipingendola come un’agente di disinformazione invece della scrittrice e attivista che era. La morte di Darya Dugina è stata una violazione del diritto internazionale e un’ingiustizia per una vittima innocente e non combattente.
È sorprendente che, nonostante siano passati ormai alcuni mesi, la suddetta rivelazione abbia avuto così scarsa eco mediatica. Allo stesso modo, è altrettanto sorprendente che il linguaggio della leadership occidentale riveli che non si è fatta alcuna riflessione sull’efferato delitto, il quale si configura palesemente come un atto di terrorismo ad opera di uno stato che aspira ad entrare nella UE e nella NATO.