Cari amici di Duc in altum, lasciatemi dire che la testimonianza che oggi vi propongo è di eccezionale importanza. L’autore è lo stesso giovane prete, ancora piuttosto fresco di seminario, che giorni fa mi ha inviato la lettera che ho intitolato Ecco perché il popolo non si riconosce più nei pastori.
Con la stessa lucidità, oggi il sacerdote affronta un tema cruciale: la formazione che si riceve nei seminari.
Vi invito a leggere la sua testimonianza con attenzione, perché il racconto fa capire i motivi per cui questa nostra Chiesa ci appare spesso allo sbando, priva di punti di riferimento, in balia di ogni vento di dottrina e con un perenne complesso di inferiorità verso ogni tipo di pensiero non cristiano e non cattolico.
Alle radici della crisi c’è il modo, sotto molti aspetti incredibile, in cui i futuri preti vengono formati.
Buona lettura.
A.M.V.
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Alle radici della crisi del sacerdozio: la formazione teologica nei seminari
Caro Aldo Maria, torno a scriverle per affrontare un argomento di cui non si parla mai, o quasi, ma credo sia importante perché si tratta del brodo di coltura dal quale escono poi tutte le sciocchezze, le bizzarrie, gli abusi e le profanazioni che lei instancabilmente denuncia, specie nella sua rubrica Uomini giusti al posto giusto.
Di che cosa sto parlando? Ma del seminario! È proprio lì, infatti, che vengono piantati quei semi che poi producono certe piante infestanti.
Ciò che racconterò è un insieme di episodi che ho vissuto in prima persona o che mi sono stati raccontati da confratelli sparsi in varie diocesi italiane.
Prima di entrare nel racconto vorrei però fare alcune considerazioni generali.
1 – Il modello di sacerdote diocesano
A molti di noi seminaristi è apparso chiaro come da parte dei formatori non ci sia la minima idea di quale tipo di sacerdote si voglia formare. Questo è il cuore di tutti i problemi. Mi hanno raccontato addirittura che nella diocesi più importante del centro Italia i superiori hanno chiamato i seminaristi ammettendo pubblicamente: “Noi non sappiamo quale formazione darvi”. Che liberazione! Certo, sapere che coloro a cui affidi la tua vocazione hanno le idee così chiare dev’essere stato veramente consolatorio e avrà sicuramente riempito di entusiasmo il cuore di quei seminaristi. Meglio non pensare alle parole di Gesù: “Quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso” (Mt 15,14).
Ma da dove nasce questa confusione? Da dove arriva questa perdita di direzione? A me sembra che tutto prenda le mosse dal rifiuto di considerare il sacerdote un uomo che ha a che fare con il sacro, e questo non è casuale, ma ha una spiegazione teologica precisa. Il problema sta nella corrente teologica, i cui esiti sono ben visibili nella liturgia e nell’arte sacra, secondo la quale, poiché prima di Gesù c’era la distinzione sacro-profano ma dopo l’Incarnazione tutto diviene sacro, siamo di fatto alla “fine del sacro”. Tradotto nella prassi: se tutto è sacro, nulla lo è veramente. Questo spiega la fine della percezione della chiesa stessa come luogo sacro e perché oggi si entri in chiesa senza avvertire di entrare in uno spazio che è “altro” rispetto a ciò che sta fuori. Invano Benedetto XVI ci ha insegnato che anche in questo campo Gesù è “venuto a portare a compimento” e che quindi non ha distrutto il sacro, ma lo ha reso perfetto.
Comunque stiano le cose, quello che è certo è che oggi i formatori non guardano di buon occhio la figura del sacerdote in quanto tale, come evidenzia la scomparsa della parola latina “sacer-dote”, sostituita con la parola greca “presbitero”, e dell’espressione “ordinazione sacerdotale”, sostituita con “ordinazione presbiterale”. Come a dire: ma tu chi credi di essere? Al massimo, sei solo il “presidente” dell’assemblea celebrante.
Capite bene come questa visione indebolisca alla radice l’identità profonda del futuro sacerdote e sminuisca la sua tensione alla santità. E pensare che l’ha capito perfino lo Zio Ben dell’Uomo Ragno: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”. Se davanti ha la dimensione altissima dell’alter Christus(altra formula disprezzata dai formatori, anche se resta un mistero se a infastidirli di più sia l’aggettivo o il sostantivo), il prete cercherà di condurre una vita che vi assomigli; se invece tutto quello a cui può aspirare è la presidenza di una comunità, beh, in fondo in fondo, basta non scandalizzarla e il gioco è fatto. Purtroppo, però, così crescono le probabilità che il sacerdote (pardon, il presbitero) passi la sua vita ordinaria nella mediocrità e nella tristezza, come avviene in effetti in molte vite sacerdotali, di fronte alle quali non si può non provare una grande tristezza. Dico questo per esperienza personale, perché nei momenti di maggior fatica pastorale mi accorgo quanto sia salutare ricordarmi lo splendore del sacerdozio.
2 – La vita di preghiera in seminario
La vita in seminario non è in realtà pensata per sacerdoti, ma per comunità di laici impegnati. Non deve sorprenderci: non è che la conseguenza del punto 1. Non avere idea di quale sia l’identità del sacerdote porta a non calibrare il “dosaggio” della preghiera e di tutto ciò che alimenta la vita interiore e spirituale.
Mi ha sempre colpito un fatto: i superiori guardano con autentico terrore ogni comportamento che nel cammino seminaristico sveli una certa attrazione per ciò che è propriamente sacerdotale, come se fosse sinonimo di “fissazione clericale” o frutto di una personalità problematica. Faccio un esempio banale: se un giovane appassionato di calcio vedesse da lontano un suo idolo, come si comporterebbe? Beh, probabilmente gli correrebbe incontro per stringergli la mano, farsi fare un autografo o una foto. Bene, con Dio questo non vale. Se lo ami e credi di essere chiamato a servirlo come sacerdote, non devi fare nulla che vada in questa direzione “prima dell’ordinazione”! Mi spiego meglio: voi credereste mai che si diventa sacerdoti senza avere fatto prima alcuna “prova pratica” di come si celebra la Santa Messa? Eppure è così! Al massimo uno o due giorni prima dell’ordinazione il direttore spirituale ti fa vedere una volta e lentamente come si fa. Ma si può? Quello che è il centro della vita che ti attende è trattato come zona impenetrabile. E poi ci si meraviglia che ci siano preti che celebrano male, che abusano del loro ruolo e che dimostrano di non conoscere la liturgia! Per forza, la liturgia pratica (e ahimè, anche quella teologica) negli anni di seminario è un campo non calpestabile.
Apro una parentesi: quando racconto episodi simili ai laici, noto che restano senza parole, perché hanno l’idea (normale) che i sacerdoti siano preparati ai loro compiti specifici (Messa, sacramenti, processioni eccetera). Invece non è così, perché in seminario siamo trattati come laici fino al giorno dell’ordinazione sacerdotale (l’anno di diaconato è un tempo di passaggio, in cui l’unica cosa che cambia consiste nell’iniziare a curare la predicazione).
Fatte queste premesse, possiamo ora immergerci in quello che è l’oggetto specifico della mia testimonianza: la qualità del percorso di formazione che dura ben sei anni (i primi due di filosofia e gli altri quattro di teologia).
Che cosa dire? Credo di poter confermare in parte ciò che disse una volta Jean Guitton: “Nei seminari Freud, Marx e Lutero hanno sostituito Tommaso, Ambrogio e Agostino”. Dico in parte perché se continuano a non essere insegnati i grandi autori cattolici, e resta pur sempre Lutero, i poveri Freud e Marx hanno perso il loro fascino, sostituiti con Heidegger, il pensiero debole e l’immancabile Zygmunt Bauman.
In generale (vale per tutti i corsi) ho notato un grande complesso di inferiorità dei professori nei confronti delle culture laiciste, unito a una certa ignoranza circa autori che dovrebbero invece essere punti di riferimento della formazione cristiana: in sei anni non ho mai sentito nominare un dottore della Chiesa (se non di sfuggita) oppure un Rosmini, un Garrigou-Lagrange, un Fabro, un Del Noce, un Ratzinger, un Balthasar.
Veniamo ora agli aneddoti dei vari corsi.
Filosofia. Irrisoria è stata la parte concessa alla metafisica. In molti Studi teologici la prima frase che gli studenti hanno sentito pronunciare dal professore è stata più o meno questa: “Ragazzi, iniziamo il corso di Metafisica, ma vi dico subito che è morta. Tuttavia, poiché la Chiesa ci dice che dobbiamo comunque farla, eccoci qui”. Si può immaginare quale fascino avrà esercitato quel corso e con quanta veemenza i ragazzi si saranno tuffati ad affrontare le grandi questioni metafisiche. Il minimo che può essere capitato è pensare che la Chiesa sia un po’ necrofila, perché gode nell’insegnare cose morte che nulla hanno a che vedere con la vita. Tra l’altro quest’errore è macroscopico se si pensa che “chi sbaglia filosofia, sbaglia teologia”. Emblematico è il fatto che, al termine del percorso di studio, in molti scelgono di fare la tesina su qualche vescovo o comunque prendono la strada della biografia, mentre è molto raro il caso di lavori strettamente teologici. In assenza di una buona filosofia, manca del tutto la capacità di strutturare un pensiero teologico.
Mariologia. La mia professoressa per l’intero corso non ha fatto altro che criticare la Madonna in tutti i suoi aspetti divini. Inoltre ha messo in dubbio, con sottili allusioni, la verginità di Maria: “Sapete, Gesù aveva dei fratelli…”. E ogni dogma non è stato mai spiegato e giustificato sotto il profilo teologico, ma sempre e solo dal punto di vista socio-politico. Con un esito molto curioso, per esempio, circa il dogma dell’Assunzione: Pio XII l’avrebbe infatti stabilito perché in un mondo lacerato dalla seconda guerra mondiale, con i corpi squarciati dalle bombe, c’era bisogno di ridare dignità al corpo umano… Per carità, sarà anche stata una causa remota ma, accidenti, molto remota!
Introduzione alla Storia delle religioni. Il professore (molto quotato a livello nazionale nel dialogo interreligioso) non ha fatto che criticare il cattolicesimo a scapito di una esaltazione francamente inconcepibile dell’islam e dell’ebraismo. Dopo ore di sopportazione, un giorno non ce l’ho più fatta e gli ho detto: “Insomma professore, diciamoci la verità, sarebbe stato molto meglio che Gesù non fosse mai venuto”. Al che il professore, dopo un attimo di sorpresa, ha allargato le braccia sospirando, come a dire: “Eh sì, sarebbe stato meglio”. E tutto questo in uno Studio teologico cattolico!!!
Introduzione alle Sacre Scritture. Il professore ci insegna che la storia dell’Antico Testamento non è provata, ma appartiene alla narrazione mitica con cui il popolo ha cercato di darsi un passato e un’identità. Poi, qualche lezione dopo, salta fuori con la Dominus Iesus, sostenendo che è un documento che sarebbe stato meglio non pubblicare perché “divisivo” in quanto nega la salvezza parallela per gli ebrei. Al che rivolgo al docente questa domanda: “Scusi professore, quindi gli ebrei si salverebbero obbedendo all’Antico Testamento che in sostanza è una favola?”. Silenzio di tomba. Panico. Parliamo d’altro. Sì, è meglio.
Patrologia. Il professore utilizzava il corso per parlare male del Catechismo (sia quello nuovo sia quello di san Pio X) e di papa Benedetto. Le perle arrivavano quando insisteva nel dire che il Concilio aveva abolito parole come “peccato”, “redenzione”, “salvezza”. Noi la lezione dopo gli facevano notare tutti i passi dei documenti conciliari in cui quelle parole in realtà ci sono, ma niente da fare: diceva che avevano dovuto metterle per compiacere i conservatori, ma lo spirito del testo era chiaramente volto a superarle.
Teologia del XX secolo. Il corso è stato fatto interamente su teologi protestanti. Neanche un cattolico, neanche un autore della Nouvelle Theologie, neppure Rahner!
Mistica. Il corso è stato condotto su due monografie, Meister Eckhart e un vescovo giansenista. Ma possibile che in tutta la storia della Chiesa cattolica non si riesca a proporre un autore che le appartenga chiaramente?
Ermeneutica biblica. L’inerranza biblica riguarda ciò che è utile alla fede, non importa se quelle parole e azioni di Gesù siano davvero avvenute o meno (d’altra parte all’epoca di Gesù non c’era il registratrore, come ha spiegato il capo dei gesuiti).
Storia della Chiesa contemporanea. Impostato secondo la linea laicista, il corso ha il suo momento magico quando il professore arriva a dire che il modernismo non è mai esistito, se non nella testa di Pio X.
Cristologia. La professoressa a un certo punto dice che la Chiesa deve ringraziare il sionista Jules Isaac, perché è grazie a lui che ha capito come si legge la Lettera ai romani e quindi ha potuto aprirsi al dialogo con l’ebraismo. Insomma, prima di Isaac la Chiesa non sapeva leggere san Paolo.
Potrei andare avanti ancora per pagine, parlando delle omissioni negli insegnamenti morali, della denigrazione del Magistero che impedisce lo sviluppo della teologia, del Catechismo visto in opposizione allo Spirito Santo che continua a operare nella Chiesa, della derisione di chi, facendo teologia in obbedienza al Magistero, è visto come un “bigotto che fa teologia con il Denzinger”. Su tutti questi aspetti potrei ironizzare parafrasando le parole della conclusione del Vangelo di san Giovanni: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da questi professori, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”.
Ma non posso non concludere rispondendo a un’ultima domanda: qual è il frutto di questi sei anni?
È uno solo: creare un sacerdote fragilissimo, pieno di dubbi e con una grande confusione nella testa e nel cuore, perché, a causa di questa formazione frammentaria e superficiale, non riesce ad avere un quadro sicuro della dottrina e della morale cristiana.
Dopo aver ripercorso, sia pure a grandi linee, l’esperienza formativa, credo siano più chiare le ragioni profonde delle crisi sacerdotali, ma anche i motivi per cui un vescovo un giorno sa darti gioia nel suo insegnamento e il giorno dopo ti fa piombare nello sconforto. È l’esito di una formazione, disarticolata e incompleta, che anche i vescovi, come noi, hanno ricevuto nel corso degli anni, perché siamo tutti figli del post-concilio.
Urge quindi un lavoro di riscoperta delle colonne della fede e della cultura cattolica, per ritrovare la ragione della speranza del nostro Credo e della bellezza di far parte della Chiesa di Cristo, perché “una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (san Giovanni Paolo II).
Come può infatti un sacerdote basare tutta la sua vita su Cristo se gli viene insegnato che la risurrezione non è un fatto storico ma meta-storico, instillando così il germe del dubbio proprio a proposito dell’evento cardine su cui si basa tutta la nostra fede? Infatti “se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede (…) Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini” (1Cor 15,19).