Storie siriane 2018 (5)
raccolte da Marinella Correggia
«La nostra storia millenaria ci aiuterà». Fra mosaici da primato, beni archeologici da restaurare, energia fotovoltaicaper la ricostruzione, e l’agricoltura che chiede pace
Trovare posto nel Guinness per aver realizzato il mosaico murale più grande al mondo con materiali di recupero merita vivi complimenti eco-artistici. Ma ecco il vero primato mondiale: gli artefici siriani di questa opera di 720 metri quadrati nel quartiere di al Mezzeh a Damasco hanno fatto tutto in piena guerra. Nelle strade damascene, dopo il 2013, fra tante esplosioni belliche sono nati sette lunghi mosaici, un caleidoscopio di colori, fantasia e speranza. Pezzi di piastrelle, tazzine rotte, bottiglie, tubi, ruote di bicicletta, pezzi metallici elettronici, chiavi e chiodi: scovati qui e là e portati in dono di cittadini. Arte partecipata.
«Nelle difficili condizioni in cui versava la città, abbiamo voluto offrire un sorriso e mostrare l’amore dei siriani per la vita, la creatività e l’arte. L’opera è iniziata nell’ottobre 2013 e a gennaio 2014 avevamo finito» spiega l’artista Moaffak Makhoul, coordinatore del lavoro. Maglietta e pantaloni neri, fa da guida nella biblioteca del museo di Damasco per l’educazione a sua volta ricca di pitture murali e arredata all’insegna del recupero. Anche bellico, in un certo senso: «In questi scaffali hanno trovato accoglienza libri profughi dalle scuole che sono state evacuate prima dell’arrivo di gruppi armati che le occuparono, a Muhadamya, Ghouta, Daraya».
Fuori dal silenzio bibliotecario, il traffico rumoroso e intenso provoca la una domanda: Come fanno i siriani a mantenersi l’automobile, dopo sette anni di guerra che hanno provocato inflazione e impoverimento? La giovane agronoma Dima Hassan – un po’ il nostro Viriglio, in Siria… – non ha l’auto e vive modestamente con il suo salario che con la svalutazione della lira siriana equivale a 30 euro, ma tenta questa risposta: «O hanno parenti all’estero, o fanno tre lavori, una situazione ormai comune qui, o stanno dando fondo ai risparmi di prima della guerra».Chi si esaspera per gli ingorghi pensa al progetto di metropolitana: «E’ vecchio di venti anni; è così difficile scavare? Si potrebbe affidare l’opera a Jaysh al Islam e agli altri mercenari che in pochi anni, trincerati nell’area di Ghouta orientale hanno scavato chilometri di tunnel per assicurarsi gli approvvigionamenti in armi e materiali!»
Davanti alla scuola d’arte Abdel Hader, vicina alla biblioteca, le due sorelle artiste Rajab e Safa Wabi siedono davanti a un alto muro decorato in rilievo. «Abbiamo iniziato, con diversi allievi, l’arte di strada nel 2011, contemporaneamente alla crisi poi sfociata nella guerra. E non abbiamo smesso nemmeno sulla testa del quartiere piovevano colpi di mortaio che provenivano provenienti dalle aree fuori Damasco in mano ai gruppi armati» spiega la sorella più giovane, mentre l’altra prosegue, allungando il braccio verso un vicino edificio: «Ecco, là cadde un missile. Lavorando per strada, non avevamo proprio nessun riparo! Ma il nostro lavoro attirava magneticamente tante persone, adulti e bambini, e questo ci era d’aiuto».
Si avvicinano zampettando due tortorelle, o forse sono, in piccolo e in marrone screziato di bordeaux, la versione damascena dei nostri piccioni. Le artiste indicano le colombe di sabbia e cemento posate sulla cima del muro: «Le abbiamo messe come simbolo di pace».
Una pace che non c’è ancora in Siria, dove tanti fronti si sono chiusi ma altri si sono riaperti. Di certo nelle aree maggiormente colpite dal conflitto, invece dei mosaici ci sono macerie. Per la ricostruzione post-bellica, un’opera titanica, si stima un costo di 470 miliardi di dollari. La macchina si è già messa in moto con la riabilitazione di edifici di pubblica utilità e di spazi privati, preceduta dalla rimozione delle macerie. La fondazione dell’Aga Khan sta già sostenendo il ripristino del patrimonio storico architettonico, a cominciare dall’enorme suq di Aleppo e di altri monumenti della Città vecchia.
Una buona notizia è che l’immensa quantità di macerie sarà in parte destinata al riciclo («sono già al lavoro, oltre alla macchina governativa siriana, i cinesi», assicura Mohamed Merie, traduttore siriano che viveva in Spagna e che decise di tornare nel suo paese nel 2014, nel pieno della crisi).
Un riutilizzo che fa il paio con un piccolo ma significativo progetto ad Aleppo. Il gruppo di volontari cristiani Maristi blu, fra i tanti progetti di riabilitazione ne ha uno chiamato Heart Made, che pratica l’up cycling senza chiamarlo così, come spiega uno dei responsabili del progetto, Leyla Antaki: «Ricorriamo a stock di magazzino rimasti invenduti nel tempo e li trasformiamo dando loro una seconda vita. I modelli li prendiamo su internet, adattandoli poi ai gusti locali. Poi con i ritagli, le maniche, i jeans facciamo borse grandi e piccole, sacchetti che decoriamo. In sintesi si tratta di evitare le spreco tessile, imparare la perfezione nel lavoro e realizzare cose belle».
Sulla ricostruzione, la domanda è: chi pagherà per rimettere in piedi il paese? Chi ci guadagnerà? E’ drastico Juan, giovane artista di Damasco il cui padre è originario della zona di Afrin, colpita dai bombardamenti dei turchi: «Spero proprio che non diventi un business per i soliti che prima portano rovina e poi ci guadagnano… Io dico che i paesi occidentali, la Turchia, i monarchi del Golfo dovrebbero risarcire il popolo siriano! Hanno fomentato per dolo o per stupidità una guerra per procura, hanno sostenuto mercenari jihadisti… ». I danni peraltro sono molto superiori alla cifra stimata per ricostruire. Perché la perdita di vite umane e di parte del patrimonio storico architettonico e archeologico sono senza prezzo.
La guerra ha sconvolto il metodico e spesso oscuro lavoro di archeologi, restauratori e funzionari. Siti occupati, magazzini di reperti saccheggiati, musei danneggiati, personale che rischiava la vita. In una delle grandi stanze laboratorio del museo archeologico nazionale di Damasco, ingombro di casse di reperti, Rima Hawan, direttrice del dipartimento restauro, indica pezzi di statua provenienti da Palmira (Tadmor), sito patrimonio dell’umanità che per dieci mesi a cavallo fra il 2015 e il 2016 fu assediata dal sedicente Stato islamico (Isis, che nel mondo arabo musulmano non integralista è chiamato Daesh, in senso spregiativo): «La situazione era di assoluta emergenza». Si temeva la distruzione totale del sito, di fronte alle immagini orgogliosamente diffuse da Daesh, con le decapitazioni di statue e non solo: l’archeologo Khaled al Asaad, dopo una vita a Palmira a occuparsi del sito, pagò con la vita – sgozzato il 18 agosto 2015 a 83 anni – il rifiuto di rivelare i nascondigli dei reperti.
Il direttore del museo di Palmira Khalil al Hariri riuscì a fuggire all’ultimo momento, ma perse un fratello e un cugino oltre a vari amici. Si trova al museo di Damasco per seguire i progetti di restauro di alcune statue portate via in tempo e in modo fortunoso: «Ci colsero di sorpresa con la loro avanzata. Tutto sembravaessere più forte di noi, in quei giorni. Oltre al terrore, avevamo ben presente il saccheggio del patrimonio storico iracheno nel 2003…Ma siamo riusciti con fatica e pericoli a evacuare numerosi reperti, una specie di mission impossible» prima dell’arrivo dei moderni unni.
Alcune addette sono impegnate, su grandi registri e al computer, nella verifica minuziosa dei reperti. Najma è fra i restauratori chehanno lavorato a Palmira dopo la fuga di Daesh: «Ci sono opere totalmente distrutte, altre che stiamo cercando di recuperare, qui lavoriamo soprattutto sui volti.» Kawtar e Hiba spennellano una statua monca. Chi vi ha aiutati in questi anni di isolamento, e avete sempre a disposizione i materiali necessari? Rima sorride cautamente: «Gli archeologi sono una comunità mondiale. Gli esperti con i quali lavoravamo per studiare l’immenso patrimonio siriano, ci sono stati concretamente vicini Sempre».
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@ foto Malatius Jaghnoon |
Fra le aree di crisi c’è stato per anni il Museo nazionale di Aleppo, quello che sembra custodito dalle enormi statue ittite di scuro basalto, gli occhi spiritati. Nel luglio 2016, quando fu colpito da numerosi missili e colpi di mortaio lanciati dai gruppi armati che controllavano parte della città, la maggior parte della collezione era già al sicuro. Nell’emergenza di questi anni con il paese suddiviso in aree di influenza fra gruppi armati, precisa Hariri, «il Direttorato per le antichità ha perso contatto con due realtà: Idlib, tuttora controllata da gruppi qaedisti; e Raqqa».
Raqqa:un toponimo che per anni ha evocato il terrore da quando, nel 2014, la città diventò la «capitale del califfato» del sedicente Stato islamico. Il museo cittadino era ricco di reperti di varie epoche, fino alla preistoria. Il Direttorato aveva immagazzinato la maggioranza delle collezioni in una serie di edifici vicino alla fortificazione del periodo Abbaside a Heraqla, a 7,5 chilometri al museo. Ma già nel marzo 2013 il califfato saccheggiò i magazzini e molti pezzi, mosaici, terrecotte, gessi, risultato di decenni di missioni di scavi, uscirono dal paese attraverso la complice Turchia, destinazione il mercato internazionale dei reperti. Del resto, pezzi provenienti da Palmira sono stati trovati in vendita a Londra, uno dei più importanti mercati di antichità… Gli addetti erano riusciti a evacuare o nascondere una parte dei materiali trasportabili, e in seguito a recuperare tre casse piene, ritrovate a Tabqa. Durante l’offensiva antiDaesh da parte degli Usa e delle Syrian Democratic Forces, l’Isis arrivò a piazzare cariche esplosive in prossimità del museo. Dalle foto scattate una volta sfrattato l’emiro, l’edificio non è distrutto ma crivellato di colpi; l’interno è pieno di detriti e molti reperti sono scomparsi.
Un destino comune a circa 300 siti di rilevanza storica. La guerra è davvero un elefante infuriato in un negozio di cristalli.
Torniamo al museo archeologico di Damasco. Nel cortile, fra reperti e alberi, un gruppetto di operai con giubbetto arancione e casco installa una lampada fotovoltaica. Interessante connubio fra passato e moderno. Normale oltre che auspicabile, per Mahmoud Alawadi, titolare della ditta Htm Power solution: «Il fotovoltaico e il patrimonio archeologico sono entrambi elementi chiave del nostro futuro. I millenni di storia ci aiuteranno a ricostruire. Penso che alla civiltà della forza che hanno messo in scena certi Stati sulla nostra pelle si debba opporre la forza della civiltà.» Del resto, la sua vicedirettrice della ditta è Slava Abdo, studi di archeologia ed entusiasmo futuribile: «La Siria è la signora del Sole, il nome stesso di quest’area del Mediterraneo, Sham, ha assonanza con il termine arabo che indica il sole, shams. Il sole c’è sempre, l’energia solare è il nostro futuro e deve avere la massima attenzione». E il solare termico e fotovoltaico in giro si vedono. Qui e là, sui tetti di Aleppo e perfino a Kafarbatna nella Ghouta orientale sui palazzi rimasti in piedi, e nelle strade urbane ed extraurbane per far funzionare semafori, lampioni, antenne; fino alle torce distribuite nei centri per gli sfollati. Con la guerra, l’approvvigionamento in energia elettrica e di conseguenza la stessa fornitura di acqua sono diventati un problema. Le energie rinnovabili rappresentano una soluzione, solo parzialmente sperimentata, eppure «Se si calcolano le spese per un generatore diesel che supplisce alla mancanza di energia elettrica da centrali termiche, e le confrontiamo con quelle di pannelli che poi lavorano per 24 anni…»
I costi d’impianto possono disincentivare, ma la ricostruzione può essere una buona occasione, prosegue Slava: «Il fotovoltaico serve dovunque, nelle case, nelle strade, nelle fattorie, nelle industrie…Non solo se ne possono dotare gli edifici ricostruiti, ma può essere una grande risorsa nella stessa opera di rifacimento.» E la produzione made in Syria dei pannelli, che era stata avviata prima della guerra? «Attualmente il rapporto costi-benefici ci fa preferire l’import dalla Cina, ma fra due anni contiamo di avere una fabbrica nostra, qui» conclude Slava mentre appoggia il piede su una pedana che si illumina. Alawadi mostra con orgoglio il funzionamento delle pompe d’acqua fotovoltaiche, utilissime in agricoltura.
Anche quest’ultima, nella terra della Mezzaluna fertile, ha alle spalle una storia di molti millenni. Ne sa qualcosa il genetista italiano Salvatore Ceccarelli, che con l’organizzazione internazionale Icarda – Istituto internazionale per la ricerca agricola nelle zone aride – ha lavorato a lungo nel paese con gli agricoltori, migliorando in modo partecipativo i cereali tradizionali (quelli coltivati da secoli e secoli), tanto da ottenere miscugli di varietà in grado di rispondere alle crisi ambientali e idriche. Miscugli ora coltivati in vari paesi compresa l’Italia. E in Siria?
Nel paese mediorientale, dopo la siccità che ha colpito duramente dal 2008, sette anni di guerra hanno nuociuto gravemente alla produzione alimentare, per via degli spostamenti di popolazione e degli scontri che hanno coinvolto anche aree rurali e scombinato le filiere e i trasporti.
Per questo è un piccolo miracolo vedere il bel colore delle albicocche spuntare da una cassetta sulla bici di un contadino a Mleha, Est Ghouta, regione alle porte di Damasco che è stata nell’occhio del ciclone bellico. I frutti costano 300 lire siriane al chilogrammo: un tempo alla portata di tutti, ora per pochi visto l’abbassamento dei salari. Squisiti, un insieme di sapori delicati. L’albicocco, originario della Cina, sembra aver trovato la patria elettiva in Siria e Turchia. Kobol el arb, gli abitanti della capitale andavano in gita alla Ghouta al tempo della fioritura. E attendevano con ansia la breve stagione dell’albicocca, espressione che è anche un modo di dire per indicare qualcosa di fugace. Al tempo dei mamelucchi, a sentire il viaggiatore egiziano El Badri gli studiosi si mettevano in…ferie lasciando cattedre e libri per andare a rimpinzarsi del frutto. Che in Siria ha ispirato una vera arte della conservazione e della trasformazione. «Del resto da noi in Argentina le albicocche si chiamano Damasco e adesso capisco perché» dice l’attrice Susana Oviedo, in visita in Siria.
Quale posto avrà il settore primario nella ricostruzione del paese? E funzionerà davvero l’annunciato piano per le donne rurali?
Ecco una potenziale destinataria. Una produttrice di Katana, cappello giallo, foulard blu vivace, abito bordò arriva ogni giorno con il pulmino da Katana nella capitale per vendere i suoi cibi. Il suo posto è sotto uno dei mosaici. Cultura e coltura.
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