La legge del più ricco – Come i ricchi pensano di abbandonarci al nostro destino

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Douglas Rushkoff, uno dei massimi esperti di media e tecnologie digitali, affronta qui il tema molto sentito e attuale della relazione tra umanità e tecnologia, e in senso lato tra uomo e  scienza, nell’era digitale. L’avvento della rivoluzione digitale, solo un paio di decenni fa, sembrava promettere nuovi orizzonti di libertà e di dignità diffusa, poiché aumentando la produttività individuale a livelli prima sconosciuti si pensava che avrebbe lasciato spazio e tempo alla creatività e alle aspirazioni personali. Ma ben presto ci si è resi conto che il suo effetto principale è stata l’intensificazione delle stesse logiche capitalistiche predatorie e di sfruttamento che si volevano superare. Ogni innovazione tecnologica è divenuta rilevante solo finché la si poteva considerare qualcosa di facilmente monetizzabile secondo i criteri speculativi dei mercati azionari. Il risultato è una visione nichilistica, pessimista ed apocalittica del futuro dell’umanità, che pervade tutta la società ma è caratteristica soprattutto delle élite. Una logica che però non è per nulla inevitabile, e può essere superata con un ritorno ai valori dell’umanità.

Di Douglas Rushkoff, 5 luglio 2018

L’anno scorso fui invitato in un resort privato di extra-lusso a tenere una presentazione per un pubblico che presumevo essere composto da un centinaio di banchieri d’investimento. Si trattava del compenso di gran lunga più generoso che mi fosse mai stato offerto per un evento del genere – circa la metà del mio stipendio annuale di professore universitario – il tutto per contribuire con alcune mie riflessioni sul tema “Il futuro della tecnologia“.

Non mi è mai piaciuto parlare del futuro. Le sessioni di domande e risposte finiscono sempre per assomigliare a giochi da salotto, dove tutti si aspettano che io esprima giudizi sugli ultimi neologismi tecnologici come se fossero i codici alfa di potenziali investimenti azionari: blockchain, stampanti 3D, CRISPR. Raramente il pubblico è interessato a conoscere davvero queste tecnologie o il loro impatto potenziale, al di là della scelta binaria se investirci o no. Ma erano tanti soldi, quindi ho accettato l’invito.

Al mio arrivo, fui accompagnato in quello che pensavo fosse il mio camerino. Ma invece di essere microfonato o accompagnato su un palco, fui fatto accomodare lì ad un semplice tavolo rotondo mentre il mio pubblico mi veniva presentato: cinque signori estremamente facoltosi – sì, tutti uomini – provenienti dai massimi vertici del mondo dell’hedge fund. Dopo alcuni convenevoli, capì che non avevano alcun interesse per le note che avevo preparato sul futuro della tecnologia. Erano venuti già preparati con le loro domande.

All’inizio tutto sembrava abbastanza innocente. Ethereum o bitcoin? L’informatica quantistica è una cosa di cui vale la pena occuparsi? Man mano però che andavamo avanti, le domande si addentravano negli argomenti per loro di reale interesse.

Quale regione sarà meno colpita dalla prossima crisi climatica: la Nuova Zelanda o l’Alaska? È vero che Google sta progettando un modo per salvare su hard disk il cervello di Ray Kurzweil, e, in questo caso, rimarrà cosciente durante la fase di transizione, oppure morirà e rinascerà nuovamente? Alla fine, l’amministratore delegato di una brokerage house mi spiegò come avesse quasi completato la costruzione del proprio sistema di bunker sotterranei e mi chiese: “Qual è il modo migliore per mantenere sotto controllo le mie guardie del corpo dopo l’evento?”

L’evento. Era questo il loro eufemismo per un collasso ambientale, un’ondata di disordini sociali, un’esplosione nucleare, un virus inarrestabile, o un fantomatico crash informatico che elimini tutti i dati elettronici.

Questo era anche l’unico argomento che ci tenne occupati tutto il resto del tempo. Erano tutti già convinti di avere bisogno di guardie armate per proteggere le loro residenze recintate dalle folle inferocite. Ma come avrebbero potuto pagarle una volta che il denaro avesse perso tutto il suo valore? Cosa avrebbe impedito alle guardie di scegliersi un proprio leader? I miliardari avevano preso in considerazione l’utilizzo di speciali lucchetti con una combinazione nota soltanto a loro per le scorte alimentari. O, in alternativa, c’era l’ipotesi di fare indossare alle guardie una sorta di collare disciplinare in cambio della loro sopravvivenza. O, meglio ancora, costruire dei robot capaci di agire da guardie e servitori – sempre che la tecnologia potesse essere sviluppata in tempo.

E lì, finalmente, ho capito: nelle intenzioni di quei signori, questo era veramente un incontro sul futuro della tecnologia. Così come Elon Musk pensa di colonizzare Marte, Peter Thiel prova a invertire il processo di invecchiamento, o Sam Altman e Ray Kurzweil progettano di caricare i loro cervelli su un supercomputer, i cinque signori pensavano di prepararsi per il futuro digitale, un futuro che ha molto meno a che fare con l’aspirazione a rendere il mondo un posto migliore di quanto ne abbia con il desiderio di trascendere completamente la condizione umana e isolarsi da quello che percepivano come una catastrofe reale e imminente, che avrebbe potuto manifestarsi sotto forma di cambiamenti climatici, innalzamento del livello del mare, migrazioni di massa, pandemie globali, disordini sociali ed esaurimento delle risorse. Per loro, il futuro della tecnologia ha un solo scopo: la fuga.

Un’esagerata fiducia nei possibili vantaggi della tecnologia per l’umanità non è, di per sé, qualcosa di intrinsecamente negativo. Ma le attuali tendenze verso un’utopia post-umanista si situano su tutto un altro piano. Non si tratta tanto di una visione di totale trasferimento dell’umanità verso un nuovo stato dell’essere, quanto di un tentativo di trascendere tutto ciò che è umano: il corpo, l’interdipendenza, la compassione, la vulnerabilità e la complessità. Come da anni sottolineano i filosofi della tecnologia, la visione transumanista riduce troppo facilmente tutta la realtà a semplici dati, fino a concludere che “gli esseri umani non sono altro che oggetti di elaborazione delle informazioni“.

È la riduzione dell’evoluzione umana a un videogioco in cui si vince se si trova una via di fuga attraverso la quale sfuggire, magari insieme a un paio di amici stretti. Chi sarà il vincitore: Musk, Bezos, Thiel… Zuckerberg? Sono questi miliardari i vincitori apparenti dell’economia digitale – almeno se li si pone nello stesso habitat da legge della giungla che alimenta la maggior parte di queste speculazioni.

Eppure, non è sempre stato così. C’è stato un breve periodo, all’inizio degli anni ’90, in cui il futuro digitale sembrava un orizzonte libero e aperto all’innovazione personale. La tecnologia stava diventando il terreno di gioco per la controcultura, che vedeva in essa l’opportunità di creare un futuro più inclusivo, diffusamente a favore dell’umanità. Ma gli interessi corporativi consolidati vedevano in essa solo nuovi ambiti potenziali per le stesse vecchie logiche estrattive, e troppi scienziati si sono lasciati sedurre da improbabili OPA. Gli scenari di “futuro digitale” sono stati interpretati più come futures azionari o futures sul cotone: qualcosa da prevedere e su cui scommettere. Quindi qualsiasi discorso, articolo, studio, documentario o white paper era considerato rilevante solo nella misura in cui contribuiva a identificare un codice azionario alfa. Più che essere qualcosa da creare quotidianamente attraverso le nostre scelte e speranze per il genere umano, il futuro è diventato uno scenario predestinato, su cui si può scommettere se si dispone di sufficiente capitale di rischio, ma da subire comunque passivamente.

Ciò ha liberato tutti dalle implicazioni morali delle proprie azioni. Lo sviluppo della tecnologia è diventato non più una questione di prosperità collettiva, ma di sopravvivenza individuale. Ma ciò che è ancor peggio è che, come ho dovuto imparare a mie spese, il solo fatto di richiamare l’attenzione su tutto ciò comportava essere additati come nemici del mercato o ciarlatani antiscientifici.

Per questo motivo, anziché affrontare le questioni etiche pratiche dell’impoverimento e dello sfruttamento dei molti in nome di pochi, la maggior parte degli accademici, dei giornalisti e degli scrittori di fantascienza hanno invece preferito trastullarsi con le domande più astratte e fantasiose: È giusto che un operatore di borsa usi droghe intelligenti? E se impiantassimo sui bambini dei dispositivi per l’apprendimento delle lingue straniere? Se si tratta di salvare la vita, i veicoli autonomi devono dare la priorità ai pedoni o ai passeggeri? Le prime colonie su Marte dovrebbero essere organizzate come democrazie? Modificare il DNA ha degli effetti sulla personalità? I robot dovrebbero avere diritti?

Porsi questo genere di domande, per quanto filosoficamente dilettevole, è solo il triste surrogato di un’autentica lotta con i veri dilemmi morali associati ad uno sviluppo tecnologico sfrenato in nome del capitalismo corporativo. Le piattaforme digitali hanno trasformato un mercato già basato su logiche di sfruttamento ed estrazione di valore (si pensi a Walmart) in una realtà ancora più disumanizzante (si pensi ad Amazon). Per la maggior parte di noi questi svantaggi si sono materializzati sotto forma di lavori automatizzati, di “gig economy”, e nella chiusura dei piccoli negozi locali.

Ma gli impatti più devastanti di questo capitalismo digitale al testosterone ricadono sull’ambiente e sui più poveri del pianeta. La fabbricazione di alcuni dei nostri computer e smartphone utilizza ancora reti di lavoro schiavistiche. Queste pratiche sono così profondamente radicate che una società chiamata Fairphone, fondata appositamente allo scopo di creare e commercializzare telefoni etici, ha dovuto arrendersi al fatto che era impossibile. Il fondatore della società oggi tristemente definisce i suoi prodotti come telefoni “fairer“(“più etici”, ndt).

Allo stesso tempo, l’estrazione di metalli rari e lo smaltimento delle tecnologie altamente digitali distrugge habitat umani, sostituendoli con discariche di rifiuti tossici, che vengono poi raccolti da bambini poveri e dalle loro famiglie per rivendere i materiali riutilizzabili ai produttori.
Per far scomparire questa esternalizzazione “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” della povertà e dei rifiuti velenosi non basta coprirsi gli occhi con gli occhiali da realtà virtuale e immergersi in una dimensione alternativa. Anzi, più le ripercussioni sociali, economiche ed ambientali vengono volutamente ignorate, più diventano problematiche. A sua volta, tutto questo giustifica ancora di più la rinuncia, l’isolamento e le fantasie apocalittiche – con le relative tecnologie e strategie di business più disperate. E il ciclo si autoalimenta.

Più ci si immedesima in questa visione del mondo, più si arriva a vedere gli esseri umani come il problema e la scienza come la soluzione. L’essenza stessa di tutto ciò che significa “essere umani” viene trattata più come come un bug che come una qualità. A prescindere dalle ideologie sottostanti, le tecnologie sono sempre dichiarate neutrali. Qualsiasi comportamento abusivo da esse indotto è solo un riflesso del nostro stesso nucleo corrotto. È come se tutti i problemi del mondo fossero da addebitare ad un’innata ferocia umana. Proprio come l’inefficienza di un servizio locale di taxi può essere “risolta” con un’app che in cambio getta sul lastrico i tassisti umani, le irritanti incoerenze della psiche umana possono essere corrette con un aggiornamento digitale o genetico.

In definitiva, secondo l’ortodossia tecnosoluzionista, il futuro umano culmina con il caricamento della coscienza su un computer o, forse meglio, accettando il fatto che la tecnologia stessa è il nostro erede evolutivo. Come membri di una setta gnostica, desideriamo ardentemente entrare nella prossima fase trascendente del nostro sviluppo, liberandoci dei nostri corpi e lasciandoli indietro, insieme ai nostri peccati e problemi.

I film e i programmi televisivi reiterano e rafforzano queste fantasie. Le storie di zombi offrono la rappresentazione di una post-apocalisse in cui gli umani non sono migliori dei morti viventi – e sembrano perfettamente consci di esserlo. Per di più, queste serie portano gli spettatori a immaginare il futuro come una battaglia a somma zero tra gli umani superstiti, in cui la sopravvivenza di un gruppo dipende dalla morte di un altro. Anche in Westworld: dove tutto è concesso – basato su un romanzo di fantascienza in cui i robot prendono il sopravvento – la seconda stagione si conclude con una rivelazione finale: gli esseri umani sono più semplici e più prevedibili delle intelligenze artificiali create dall’uomo. I robot apprendono che ognuno di noi può essere ridotto a poche stringhe di codice, e che in ultima analisi non siamo in grado di fare alcuna scelta volontaria. Persino i robot in quella serie vorrebbero sfuggire ai confini dei loro corpi e passare il resto della loro vita in una simulazione al computer!

Le acrobazie mentali necessarie per un così profondo rovesciamento dei ruoli tra uomo e macchina discendono tutte dal presupposto di base che gli esseri umani sono ributtanti. O li si cambia, oppure è meglio separarsene, per sempre.

E così ci ritroviamo miliardari di industrie hi-tech che lanciano auto elettriche nello spazio – come se questo simboleggiasse qualcosa di più della capacità di un miliardario di promuovere la sua azienda. E se alcune persone riuscissero davvero a raggiungere la velocità di fuga e in qualche modo a sopravvivere in una bolla su Marte – nonostante nessuno degli esperimenti multimiliardari di biosfera finora condotti anche qui sulla Terra sia mai riuscito a mantenere in funzione una bolla del genere – il risultato sarebbe più assimilabile a una zattera di naufraghi per le élite, che non alla continuazione della diaspora umana.

Quando i cinque banchieri mi hanno chiesto quale fosse il modo migliore per mantenere l’autorità sulle loro forze di sicurezza dopo “l’evento”, ho suggerito loro che sarebbe stato meglio per loro se avessero iniziato fin da subito a trattare meglio queste persone. Che sarebbe stato opportuno relazionarsi con il loro staff di sicurezza considerandoli come membri della loro stessa famiglia. E che se fossero riusciti ad espandere questo ethos di inclusività al resto delle loro pratiche commerciali, nella gestione della supply chain, nell’impegno per la sostenibilità e nella distribuzione della ricchezza, con molta probabilità un simile “evento” non si sarebbe mai verificato. Tutta la strabiliante tecnologia esistente avrebbe potuto essere applicata a interessi forse meno romantici, ma sicuramente più universali, a partire da quello stesso momento.

Mi sembravano divertiti dal mio ottimismo, ma non mi hanno preso sul serio. Nessuno di loro era davvero interessato ad evitare l’insorgenza di una calamità; erano convinti che ormai fosse stato superato il limite. Nonostante tutta la loro ricchezza e il loro potere, le élite non credono di poter influenzare il futuro. Hanno semplicemente accettato il più oscuro di tutti gli scenari e pensano solo a come impiegare tutto il denaro e la tecnologia di cui dispongono per isolarsi – specialmente nel caso in cui non riescano a trovare un posto su quel famoso razzo per Marte.

Fortunatamente, noi che non disponiamo dei mezzi per prendere in considerazione l’ipotesi di rinnegare la nostra umanità abbiamo davanti opzioni decisamente migliori. Nessuno ci obbliga ad usare la tecnologia in modo antisociale e atomizzante. Possiamo scegliere se diventare gli individui consumatori standardizzati e profilati che i nostri dispositivi e le nostre piattaforme desidererebbero, oppure possiamo ricordare a noi stessi che l’uomo veramente evoluto non agisce mai da solo.

Essere umani non riguarda la sopravvivenza o la fuga individuale. È uno sport di squadra. Qualunque sia il futuro degli umani, sarà di tutti insieme.

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