La libertà, per il cristiano, non è fare quel che si vuole, ma ciò che piace a Dio, perché è giusto davanti a Lui. Dunque, non esiste il diritto alla libertà di rifiutare Dio: il vero Dio, cioè il Dio annunciato da Gesù Cristo, e che è Dio Egli stesso, se conosciuto, non può che essere accolto; se non lo accoglie, l’uomo si macchia del peccato più grave: quello della creatura che non vuole adorare e servire il suo Creatore.
06 Settembre 2019 di Francesco Lamendola
La Chiesa deve predicare una teologia della responsabilità o una teologia della misericordia? È più importante sottolineare la responsabilità dell’uomo nell’operare le sue scelte di fronte a Dio, o la misericordia di Dio nei confronti dell’uomo fragile e peccatore? Posta la questione in questi termini, verrebbe spontaneo rispondere: vanno predicate entrambe le cose, sia la responsabilità dell’uomo che la misericordia di Dio. In pratica, considerata sia la divina Tradizione cui si riallaccia, oltre che alle Scritture, il Magistero, sia il momento storico che stiamo vivendo, una simile risposta sarebbe un po’ troppo salomonica, per non dire pilatesca: avrebbe cioè il torto d’ignorare che la Chiesa predica il Vangelo a uomini concreti, in una storia concreta, però alla luce di una Verità perenne e indefettibile, non già di una “verità” storica, e quindi relativa, soggetta a mutamenti anche considerevoli nel corso del tempo.
Sappiamo e vediamo fin troppo bene che la Chiesa, da alcuni decenni, predica quasi esclusivamente e in maniera sempre più convinta e unilaterale la teologia della misericordia, fino a riempire le chiese con le immagini del Padre misericordioso che accoglie a braccia spalancate il figlio prodigo. Il guaio è che ha smesso, o quasi, di parlare dell’altra faccia della vera teologia cattolica, quella incentrata sul concetto della responsabilità personale. L’uomo, creatura razionale e dotata di libero arbitrio, è chiamata a rispondere affermativamente all’invito di Cristo, che è l’invito alla propria Redenzione: e va da sé che, se l’uomo ha bisogno della Redenzione, è perché la sua natura è peccatrice, quale conseguenza del Peccato originale. Ma è appunto questo il dato antropologico sul quale molti, troppi teologi moderni vogliono sorvolare: tanto è vero che perfino in diversi documenti recenti del Magistero (come Amoris laetitia) si parla genericamente delle fragilità umane e non del peccato, in maniera chiara e inequivocabile; e questo perché si vuol suggerire che l’uomo è fragile, ma non è irrimediabilmente inclinato al peccato, e inoltre che la misericordia di Dio è talmente larga e generosa da accogliere a braccia aperte anche l’umanità che non si pente né domanda perdono, il che oltretutto contraddice frontalmente il racconto evangelico della parabola del figlio prodigo (Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non son più degno di essere chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi servi).
Tutto questo nasce da quella perversione della vera teologia cattolica che è iniziata col modernismo, è proseguita con la nouvelle théologie ed è culminata nella svolta antropologica di Karl Rahner: perversione, perché pone al centro della riflessione l’uomo e non Dio, e quindi capovolge la giusta prospettiva e mette l’eterno in subordine rispetto al temporale, l’assoluto di fronte al relativo, l’immutabile di fronte al transeunte. In fondo, è una nuova versione dell’umanesimo cristiano: contraddizione in termini, perché nessun umanesimo può essere cristiano: o si è cristiani, o si è umanisti; o si pone Dio al centro di tutto, o vi si pone l’uomo, e lo si assolutizza.
Ma assolutizzare l’uomo è appunto la colpa originaria: la colpa di Adamo ed Eva, i quali disobbedirono a Dio per superbia, ossia perché non vollero accettare la loro condizione creaturale e, in particolare, non accettarono la loro mortalità. Ora la superbia umana si prende la rivincita, penetrando fin nel cuore della teologia “cattolica” (fra virgolette, perché non è più tale, anche se viene venduta come se lo fosse) e ribadisce che l’uomo sceglie liberamente se dire di sì alla Redenzione, oppure di no: il che è una perversione del vero concetto cristiano della libertà.
La libertà, per il cristiano, non è fare quel che si vuole, ma ciò che piace a Dio, perché è giusto davanti a Lui. Dunque, non esiste il diritto alla libertà di rifiutare Dio: il vero Dio, cioè il Dio annunciato da Gesù Cristo, e che è Dio Egli stesso, se conosciuto, non può che essere accolto; se non lo accoglie, l’uomo si macchia del peccato più grave: quello della creatura che non vuole adorare e servire il suo Creatore. E già da questo si vede come l’eresia si è affermata vittoriosamente nella Chiesa fin dal Concilio Vaticano II, perché la dichiarazione Dignitatis humane del 7 dicembre 1965 (approvata con 2.308 voti favorevoli e solo 70 contrari) stabilisce, appunto, il principio della libertà religiosa: lo fa in modo velato e volutamente ambiguo, ma lo fa. Da lì, e naturalmente dalla dichiarazione Nostra aetate del 28 ottobre 1965, prendono le mosse il falso ecumenismo e il falso dialogo interreligioso, che stanno ora culminando nella suprema apostasia: il documento di Abud Dhabi del 4 febbraio 2019, nel quale testualmente si afferma che
La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano.
A sua volta, la falsa teologia della svolta antropologica e la falsa teologia della misericordia, dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, cavallo di Troia per introdurre il relativismo, l’indifferentismo e il soggettivismo religioso nella dottrina cattolica, sono frutto di un altro errore esiziale: il giudizio circa il “mondo” e circa la relazione che sussiste fra Cristo e il mondo, e perciò fra il Vangelo e coloro che lo seguono e lo annunciano, da una parte, e il mondo dall’altra. Per millenovecento anni la Chiesa non ha avuto esitazioni o incertezze in proposito: il mondo non è malvagio in se stesso, ma lo è quando rifiuta scientemente e deliberatamente Gesù Cristo, unico Redentore e portatore di Salvezza. E questa non è una interpretazione soggettiva, ma la sola interpretazione possibile che emerge dalle Scritture, e particolarmente dal Vangelo “teologico” per eccellenza, il quarto. In esso, specialmente durante i discorsi di commiato, Gesù chiarisce in maniera nettissima, inequivocabile, la giusta relazione che esiste fra Lui e il mondo, e quindi sulla relazione che deve sussistere fra i suoi discepoli e il mondo. Il mondo non è condannato in se stesso, anzi, Cristo è venuto nel mondo per salvarlo; ma il mondo non lo ha accolto, bensì lo ha rifiutato, lo ha voluto mettere a morte; gli uomini hanno fatto come i vignaioli omicidi: assassinando il figlio del padrone del vigneto, hanno ritenuto di potersi impossessare per sempre della vigna. Così fanno gli uomini che rifiutano Cristo: è come se volessero impadronirsi della creazione e farsi, loro, gli dei di se stessi. A questa umanità, che rappresenta il “mondo” nell’accezione giovannea della parola, Gesù non si rivolge e addirittura si rifiuta di pregare il Padre per esso. La condanna non è per il mondo in sé, e dunque neppure per chi si trova nel mondo, bensì per quelli che vi stanno come se il mondo fosse tutto, come se fosse la realtà assoluta, ad esclusione del Creatore e nel rifiuto deliberato dell’amore di Dio. Per questa umanità, il giudizio è già stato pronunciato: non c’è bisogno che Cristo lo condanni e lo giudichi; il mondo si è giudicato e condannato a se stesso, con le proprie opere.
Ci affidiamo all’esegesi di un fine teologo, il sacerdote Josef Ernst (1926-2012), per molti anni professore di teologia a Paderborn, in uno dei suoi libri più autorevoli, Giovanni. Un ritratto teologico (titolo originale: Johannes. Ein Theolgische Portrait, Düsseldorf, Patmos Verlag, 1991; traduzione dal tedesco di Bruno e Margherita Dequal, Brescia, Morcelliana, 1994, pp. 65-68):
Nei discorsi e nelle preghiere di commiato, il concetto di mondo è menzionato in trentanove punti; talvolta la parola viene usata in modo neutro, nella maggioranza dei casi, tuttavia, essa contiene un’accezione negativa e pessimistica. L’analisi di una serie di passi può chiarire meglio questo concetto. Alla fine del primo discorso di commiato, Gesù parla della venuta del principe di questo mondo. Anche se costui non ha alcun potere su di lui, il mondo deve sapere che egli è unito al Padre nell’amore e che agirà secondo la volontà del Padre (14, 30s.). Lo sfondo scenico è costituito dall’uscita della sala del’ultima Cena per affrontare la cattura e la Passione. Ai fini della comprensione teologica si deve tener conto del conflitto, inerente alla storia della salvezza, fra il Rivelatore di Dio e Satana. Che il grande avversario del Salvatore venga qui chiamato “principe del mondo” evidenzia una massiccia critica del mondo da parte dell’evangelista. Il mondo non è in grado di accogliere lo Spirito di verità perché non lo riconosce e non lo comprende (14,17). Al non-comprendere corrisponde l’odio di cui si parla in un passaggio oscuro del secondo discorso di commiato:“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (15,18s.). Possiamo qui supporre che il discorso si rivolga alla comunità perseguitata dell’ambiente dell’evangelista (16,33: “voi avrete tribolazioni nel mondo”; 17,14: “e il mondo li ha odiati”). Per incoraggiare i discepoli, l’evangelista ricorda il rifiuto che Gesù stesso ha sperimentato durante la sua attività terrena. Per Giovanni, il mondo non sta sotto il segno dell’amore, bensì dell’odio (7,7; 15,23.24.25).
La motivazione di quest’odio del mondo riconducibile all’estraneità dei discepoli in questo mondo, che viene giustificata nella sua radice esistenziale con l’immagine della discendenza e provenienza: “Non essere del mondo” (cfr 17,14-16) ed essere “scelti dal mondo” non sono pertanto delle contraddizioni, dato che all’autore non interessa tanto la discendenza fisica, quanto l’appartenenza a Dio in virtù dell’”elezione”, della “nascita dall’alto” (3,3.7) e della “nascita dallo Spirito” (3,6). Nel grande contrasto col mondo, i discepoli, alla fine, manterranno il sopravvento. Nelle considerazioni riguardanti la confutazione del mondo in fatto di peccato, di giustizia e di giudizio da parte del Paraclito-Sostenitore, emerge una frase trionfale che dice: “Il principe di questo mondo è stato giudicato” (16,11). Affermazioni simili si trovano anche al di fuori dei discorsi di commiato, per esempio nell’ultimo discorso pubblico di Gesù a Gerusalemme, dove Egli – in vista dell’ora della morte (13,1) – parla del giudizio presente e della cacciata del principe di questo modo (12,31). Lo spiccato dualismo porta alla conclusione che si tratta di una contrapposizione diametralmente opposta circa la concezione del mondo, con dimensioni cosmiche e con conseguenze antropologiche. Chi collega la concezione giovannea della redenzione al mito gnostico dell’originario uomo salvatore, deve naturalmente partire (…) dalla contrapposizione fra il male assoluto (il mondo) e il bene (il mondo superiore = il cielo), nei quali l’uomo è irretito. Tuttavia i presupposti per una tale concezione del mondo sono sommariamente discutibili. Indipendentemente dai collegamenti storico-religiosi con la mitologia gnostica, è lecito tuttavia affermare che, nella sua descrizione del mondo, Giovanni ha inserito con vigore le decisioni storiche personali, oggetto della responsabilità umana. “Non l’essere nel mondo è dunque male, bensì l’essere ‘del mondo’, e cioè l’essere determinati dal mondo: “Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo” (15,19a) (W. G. Kümmel, “Theologie”, p. 257). Per Giovanni, “l’essere nel mondo” è in qualche modo in relazione col “fare il male” (1 Gv 2,16; Gv 7,7; 17, 15b). La motivazione decisiva andrebbe tuttavia cercata nel rifiuto per principio dell’offerta divina di salvezza nel Logos, di cui si dice nel prologo: “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (1,10). A questo non-riconoscere corrisponde il non-credere del mondo (16,9). Questo mondo è profondamente nemico di Dio per il fatto che gli uomini, i quali gli appartengono, perseverano nel rifiuto dell’offerta divina di salvezza che è stata proclamata in Gesù Cristo. Nonostante la durezza del discorso e uno sviluppo del pensiero non privo di tracce di determinismo nei riguardi dl male, non si può tuttavia prescindere dalla presenza della nota dominante, quella di una teologia della responsabilità, quale si percepisce nel colloquio con Nicodemo circa l’amore di Dio per il mondo e il sacrificio del Figlio suo per esso (13, 16s.). Gli uomini non pervengono dunque all’identificazione col mondo, nemico di Dio, a seguito di una predestinazione, bensì’ a seguito di un rifiuto e rigetto del Figlio di Dio!
È una gravissima responsabilità, pertanto, quella che si assumono quanti minimizzano l’elemento della responsabilità e assolutizzano quello della misericordia divina. Di fatto, essi operano per alterare la vera dottrina e deresponsabilizzare l’uomo, esponendolo ai rischi tremendi di una libertà assoluta e indeterminata che prescinde dalla Verità. Non esiste libertà fuori della Verità, dunque non esiste nulla che sia interamente vero, giusto e buono al di fuori del Vangelo di Gesù Cristo. Chi crede questo è cattolico; chi non lo crede, non lo è. Che nessuno si azzardi a confondere le acque su un punto di così capitale importanza: o si è del mondo o si è di Cristo. Il mondo riconosce e loda i suoi. Infatti, esso loda questa chiesa eretica e apostatica; ma non la riconosce il Signore Gesù Cristo.
fonte: Accademia Nuova Italia