La libertà religiosa per il bene di tutti. Le venature storicistiche del documento della CTI

A proposito del recente documento della Commissione Teologica Internazionale La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee il nostro Osservatorio è già intervenuto:

Stefano Fontana, Libertà religiosa: il documento della CTI non chiude il problema. Leggi qui

Silvio Brachetta, Libertà di religione. Nel documento della CTI una visione secolarizzata della religione.  Leggi qui

Ospitiamo ora un terzo intervento sul tema di Fabio Trevisan, della Redazione dell’Osservatorio.

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Il documento della Commissione Teologica Internazionale (CTI) sul tema: “La libertà religiosa per il bene di tutti” , oltre al giudizio entusiasta ed enfatico sulla dichiarazione conciliare Dignitatis humanae,  presenta sin dall’approccio teologico alle sfide contemporanee una critica rimarcata al Magistero precedente il Concilio Vaticano II: “Il contributo del Concilio, che possiamo ben definire profetico, ha offerto alla Chiesa un orizzonte di credibilità e apprezzamento…”. Forse che prima la Chiesa non fosse credibile e tantomeno apprezzata? Il problema della libertà religiosa è sottoposto, come chiaramente scritto al paragrafo 3, al giudizio del mondo e ad una determinata concezione di cultura politica: “Dovunque nel mondo si ponga oggi il problema della libertà religiosa, questo concetto è discusso in riferimento – positivo o negativo che sia – ad una concezione dei diritti umani e delle libertà civili che è associata alla cultura politica liberale, democratica, pluralistica e secolare”.

Parlare di cultura politica “liberale”, “democratica”, “pluralistica” e “secolare” senza sottolinearne il significato ambiguo e ambivalente comporta non solo una perdita del reale contenuto delle parole ma anche un impoverimento specifico dei contenuti. Il documento appare infatti prolisso e ripetitivo, anche nelle parti più costruttive e accettabili, ma lascia trasparire, oltre a una biasimevole compiacenza, una consegna al linguaggio “politicamente e teologicamente corretto”. Laddove infatti si parla (vedi paragrafo 5) dell’impossibilità della pretesa di una neutralità ideologica e giustamente si denuncia l’esclusione dell’espressione religiosa dalla sfera pubblica, non si ha il coraggio altresì di tutelare la religione vera o di esprimere in modo chiaro in che cosa consista l’approdo a un fanatismo disperato, ateistico o anche teocratico.

Anziché parlare di secolarizzazione e di secolarismo, ossia di un processo di espulsione di Dio e dei Suoi diritti dalla sfera pubblica, il documento assume delle categorie sociologiche che non permettono una lucida analisi del fenomeno: “La progressiva sottrazione post-moderna all’impegno sulla verità e sulla trascendenza, pone certamente in termini nuovi anche il tema politico e giuridico della libertà religiosa” (paragrafo 7).

Il continuo ricorso e il reiterato appello alla coscienza rimane quasi svuotato dei contenuti, in cui la “voce di Dio” che parla ai cuori e alle menti delle persone non si erge quale fonte primaria della coscienza ma viene lasciata piuttosto alla dimensione ermeneutica: “L’evangelizzazione si rivolge oggi alla positiva valorizzazione di un contesto di libertà religiosa e civile della coscienza, che il cristianesimo interpreta come spazio storico, sociale e culturale favorevole ad un appello alla fede” (paragrafo 8).

L’affanno di inseguire le categorie e il linguaggio del mondo è spesso rilanciato a partire dall’esclusiva e acritica piattaforma conciliare e da alcune frasi-simbolo, come i “segni dei tempi”, l’”aggiornamento”, l’”adeguamento” , il “dialogo”, che sono assunti quali presupposti ineludibili alla libertà religiosa: “In riferimento ai “segni dei tempi” a venire, che hanno già incominciato ad accadere, è necessario dotarsi di strumenti adeguati per aggiornare la riflessione cristiana, il dialogo religioso e il confronto civile” (paragrafo 10).

L’intento (discutibile) degli estensori del documento è esplicitato in modo inequivocabile alla fine del paragrafo 12: “La nostra scelta metodologica fondamentale può essere sintetizzata come una riflessione teologico-ermeneutica, in un duplice intento: a) in primo luogo proporre un aggiornamento ragionato della ricezione della Dignitatis humanae; b) in secondo luogo, esplicitare le ragioni di questa integrazione – antropologica e politica – fra l’istanza personale e quella comunitaria della libertà religiosa”.  Più avanti, oltre al metodo, vengono menzionati i principi personalistici, comunitari e cristiani della libertà religiosa senza tuttavia sottolineare in modo chiaro i principi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa né tantomeno enunciare i principi non negoziabili.

Nel secondo capitolo, che riguarda la prospettiva della Dignitatis humanae, oltre al richiamo ad una approfondita intelligenza della fede, si parla della necessità di un progresso nell’esposizione della dottrina (paragrafo 14). Questo grave errore di presentare la necessità di un progresso anziché di uno sviluppo omogeneo nell’esposizione della dottrina mostra palesemente il ricorso a categorie storicistiche che dovrebbero esulare dal contesto di riflessione oggettiva. Affermazioni gravi come quelle che condannano, senza appello, il Magistero della Chiesa pre-conciliare: “Una certa configurazione ideologica dello Stato, che aveva interpretato la modernità della sfera pubblica come emancipazione dalla sfera religiosa, aveva provocato il Magistero di allora alla condanna della libertà di coscienza…” palesano l’avversione e manifestano l’ansia, secondo le categorie moderne, di una Chiesa rinnovata, quasi totalmente altra rispetto a quella di un tempo.

Nella lunga trattazione testuale vengono ripetutamente e giustamente sottolineati i diritti e la dignità della persona, l’impossibilità di separare la libertà interiore dalla sua manifestazione pubblica, il soggetto quale singolo, dotato di intelligenza e volontà, ma anche un essere dotato di apertura e di  relazioni comunitarie e la dimensione trascendente legata alla persona capax Dei. Queste considerazioni positive e oggettive contrastano però con l’accentuazione esagerata e la fiducia un po’ ingenua del valore del dialogo: “Il valore del dialogo è decisivo poiché la verità non s’impone se non in forza della verità stessa, la quale penetra lo spirito soavemente e insieme con vigore” (paragrafo 18); “Nel contesto di oggi il dialogo coinvolge anche le religioni, le quali devono avere atteggiamenti di apertura le une nei confronti delle altre, senza condanne a priori ed evitando polemiche che possano indebitamente offendere gli altri credenti” (paragrafo 23).

Il documento si sofferma poi correttamente sul concetto di “laicità positiva” o di “sana laicità” che le istituzioni statali dovrebbero intrattenere riguardo l’educazione religiosa, sottolineando come il bene della persona e il bene della comunità non possano intendersi come contrapposti. A questa enunciazione legittima, ossia conforme alla legge naturale, avrebbe dovuto far seguito uno sviluppo critico attraverso gli strumenti della filosofia e della metafisica, anziché puntare esclusivamente sulle possibilità del dialogo: “Il dialogo sulla verità da tutti cercata e sul bene da tutti desiderato, nell’orizzonte della convivenza sociale, ci impegna conseguentemente a sviluppare le condizioni migliori per pensare e praticare la verità sull’antropologia e sui diritti della persona nel dialogo” (paragrafo 30).

Se da una parte vi è nel documento la convinzione che dal dialogo possano scaturire elementi importanti e condivisibili, dall’altra vi è l’apertura alle scienze moderne quali promotrici indispensabili e costruttive della struttura della persona: “La filosofia, la scienza, l’antropologia sociale della modernità…hanno dato vigoroso impulso alle strutture dell’essere personale – segnatamente, coscienza e libertà – individuandole come dimensioni costitutive della persona umana. In questa valorizzazione moderna della singolarità umana, hanno preso inedito rilievo, rispetto alla tradizione precedente, la dimensione della storicità e della prassi” (paragrafi 35 e 36). Queste ultime frasi, unitamente a tante altre disseminate nel lungo documento della CTI, fanno dipendere una visione del mondo da filosofie e procedimenti dialettici estranei alla tradizione teologico-filosofica della Chiesa. Si parla infatti di dignità della persona umana, ma anziché riferirla alla dimensione trascendente e quindi oggettiva e legata alla legge naturale, la si trasferisce sul piano della libertà (vedi paragrafo 42).

Il testo si dilunga nell’esposizione e nella proposta di un’ecologia integrale che comprenda le dimensioni umane e sociali di ogni persona e dei doveri, in merito alla libertà religiosa, che ogni persona, ogni singolo Stato e ogni confessione religiosa dovrebbero assumere reciprocamente, rilevando giustamente tutte le ambiguità di uno Stato moralmente neutro o indifferente ai contenuti delle diverse religioni. Il testo invoca legittimamente un giusto discernimento della libertà religiosa, segnalando obiettivamente come non tutte le forme dell’esperienza religiosa siano riconoscibili quali apportatrici di valori condivisi.

Al paragrafo 72 inoltre viene sollevata la questione importante dell’obiezione di coscienza: “Vivere la fede può alle volte richiedere l’obiezione di coscienza. In effetti le leggi civili non obbligano in coscienza quando contraddicono l’etica naturale e perciò lo Stato deve riconoscere il diritto delle persone all’obiezione di coscienza”. Purtroppo a queste giuste osservazioni si alternano frasi che contraddicono il valore salvifico della Chiesa e della redenzione di Cristo, condensabile in quel Extra ecclesiam nulla salus, inopinatamente contrapposto alla frase iniziale del capitolo 83: “Il cristianesimo non chiude la storia della salvezza entro i confini della storia della Chiesa”. Persino le categorie spazio-tempo sono ricondotte, infine, ad una teologia che ha preso le distanze dalla dottrina e dalla filosofia tomistica per approdare a filosofie estranee alla tradizione cattolica (vedi paragrafo 84).

Un documento, in conclusione, con tante luci ma anche con tante ombre che anziché definire la libertà religiosa, nonostante la mole delle pagine, rimanda ad un approccio teologico che fa riferimento a filosofie storicistiche e visioni pluralistiche della modernità.

Fabio Trevisan

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