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La vendetta dei sauditi (benedetta da Trump): verso l’occupazione militare del Qatar

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L’Arabia saudita ed i Paesi arabi gravitanti nella sua orbita hanno sorpreso il mondo con la decisione di isolare per terra, aria e mare, l’emirato del Qatar: il blocco totale è il preludio di un’invasione militare o di una deposizione “morbida” dei regnanti. Si consuma così il primo “colpo di scena” in politica estera dall’insediamento di Donald Trump: alla rivoluzione permanente della coppia Obama-Clinton, fatta di rivoluzioni colorate, ammiccamenti alla Fratellanza Mussulmana e aperture interessate all’Iran, subentra la svolta “reazionaria” della nuova amministrazione. I sauditi prendono la loro vendetta sulla piccola monarchia che cavalcò la Primavera Araba, seminando il caos in Tunisia, Libia, Egitto e Siria con il placet dell’establishment liberal.

Dopo la rivoluzione, la reazione

Lunedì 5 giugno, un fulmine ha attraversato il panorama internazionale: dopo due settimane di crescenti tensioni, l’Arabia Saudita e la variegata galassia di Paesi mussulmani che dipendono dai suoi petrodollari e/o dalla sua influenza politica (Bahrein, Emirati Arabi uniti, Egitto, Yemen, Maldive, Kuwait, Oman e governo laico-nazionalista libico) hanno annunciato un isolamento totale del Qatar, reo di “finanziare il terrorismo nella regione”. È un blocco a 360 gradi, diplomatico e commerciale: espulsi i diplomatici, chiuse le frontiere terrestri, sospesi i voli aerei, interrotto il traffico marittimo per l’esportazione di gas liquido e l’importazione di beni di prima necessità.

Per il minuscolo, ma opulento, emirato del Qatar (piccola protuberanza della Penisola Arabica, abitata da 2 milioni di persone, di cui il 90% lavoratori stranieri) significa la morte certa: lo strangolamento economico di Doha è il preludio della defenestrazione della famiglia regnante o, nel caso in cui questa opponesse resistenza, di una veloce occupazione militare da parte dei sauditi, sulla falsariga dell’intervento del 2011 in Bahrein. Le speranze qatariote di un soccorso esterno, da parte di qualcuno di quei Paesi occidentali dove la piccola monarchia ha riversato miliardi di petrodollari nell’ultimo decennio, sono vane: taceranno gli inglesi, gireranno lo sguardo i francesi, si tapperanno le orecchie i tedeschi.

Il soffocamento della monarchia qatariota è, infatti, una manovra saudita, ma ha ricevuto il previo avvallo di una potenza che nessuna cancelleria europea è in grado di contestare su questo campo: gli Stati Uniti d’America. Si avvera così, a distanza di sei mesi scarsi dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, almeno una delle previsioni formulate dopo la vittoria del candidato “populista” (diversamente disattese, purtroppo): la caduta in disgrazia del Qatar che, durante gli otto anni dell’amministrazione Obama, aveva scalato il rango delle potenze mediorientali, quasi come se l’intera politica della regione si decidesse nella microscopica penisola che affaccia sul Golfo Persico. Si notino le date: il 21 maggio Trump annuncia a Riad, ospite del Consiglio di Cooperazion del Golfo, l’impegno a garantire “la stabilità” della regione, dopo le Primavere Arabe che hanno coinciso con l’amministrazione Obama; tra il 21 maggio ed il 5 giugno, i rapporti tra il Qatar ed i vicini sauditi si deteriorano velocemente e Doha è vittima di un presunto attacco informatico che viola l’agenzia di stampa governativa, pubblicando dichiarazioni pro-Iran e pro-Hezbollah; il 5 giugno, infine, Riad ed i Paesi arabi alleati annunciano il blocco totale della piccola monarchia.

Un simile esito, dopo la sconfitta alle presidenziali di novembre di Hillary Clinton (Segretario di Stato ai tempi della Primavera Araba che sconquassò il Medio Oriente nel 2011), era facilmente prevedibile: durante l’amministrazione democratica, il piccolo, ma ambizioso, Qatar lavora sodo per affermarsi come potenza regionale di primo piano, cavalcando la “rivoluzione permanente” che l’establishment liberal ha in serbo per il Medio Oriente. Rovesciare i vecchi regimi laici-nazionalisti, sprigionare il demone della Fratellanza Mussulmana, aprire diplomaticamente all’Iran da un lato e fomentare la guerra di religione tra sunniti e sciiti dall’altro: non c’è un singolo dossier caldo in cui non compaia il nome del Qatar, spesso unito alla Turchia di Recep Erdogan.

È il Qatar che invia corpi speciali in Libia per rovesciare Muammur Gheddafi1; è il Qatar che elargisce donazioni milionarie al partito islamista Ennahda che domina la Tunisia post-Ben Ali2; è il Qatar che inietta 8 $mld nell’Egitto della Fratellanza Mussulmana, dove il presidente Mohammed Morsi ha conquistato il potere dopo la rivoluzione colorata che defenestrato Hosni Mubarack3; è il Qatar che, nel’agosto del 2014, sostiene la giunta militare islamista che si installa a Tripoli, obbligando il legittimo governo laico a fuggire a Tobruk; è il Qatar che, all’indomani della vittoria di Trump, conferma il suo sostegno all’insurrezione islamista in Siria anche nel caso in cui venisse meno l’impegno americano4.

Potendo contare sul suo relativo isolamento geografico dalle zone calde del Medio Oriente e su immense risorse finanziarie con cui è facile comprare gli sparuti sudditi, il Qatar asseconda dal 2011 in avanti il piano dell’amministrazione Obama di “ridisegnare” il Medio Oriente, puntando sul cavallo dell’islam politico (la Fratellanza Mussulmana) che nella Turchia di Recep Erdogan ha già dato discreti risultati: è un piano, quello dell’oligarchia atlantica, che incontra ovviamente forti resistenze persino tra gli stessi alleati arabi, in primis quelli più “reazionari”. L’Arabia Saudita, in particolare, è allergica alla Fratellanza Mussulmana per due motivi: il carattere “universalista” dei partiti islamici è inconciliabile con la sua natura di Stato tribale e le loro pretese di “democraticità” non sono digeribili da una monarchia assoluta. I Saud, già preoccupati dal mantenimento dell’ordine dentro il proprio regno in rapida crescita demografica (31 milioni di abitanti di cui il 27% sotto i 14 anni), amano la stabilità: la caduta di vecchi amici come il tunisino Ben Ali e l’egiziano Hosni Mubarack, abbandonati da un giorno all’altro dagli americani, è per loro un vero e proprio affronto.

Quando l’esercito egiziano, di fronte al precipitare delle situazione interna, organizza il golpe che depone Mohammed Morsi ed incorona il feldmaresciallo Abd Al-Sisi, l’Arabia Saudita è la prima a esultare, iniettando decine di miliardi di dollari nel malconcio Paese arabo5. Se Riad gioisce, ovviamente Doha piange: “Fall of Egypt’s Mohamed Morsi is blow to Qatari leadership” scrive il Financial Times nel 2013, notando come la repressione della Fratellanza Mussulmana sia un duro colpo per le ambizioni geopolitiche di Doha. Quello che il quotidiano della City non dice è che il termidoro egiziano è anche una debacle per lo stesso establishment atlantico, costretto a subire la reazione delle forze laico-nazionaliste arabe: sin dal 2014 è avviata, infatti, la manovra per minare la presidenza di Al-Sisi. Insurrezione dell’ISIS nella penisola del Sinai, attentati contro la comunità coopta, isolamento diplomatico sull’onda dell’omicidio Regeni. È difficile che l’oligarchia atlantica, qualora Hillary Clinton avesse conquistato la Casa Bianca, si sarebbe “accontentata” di spodestare Al-Sisi: più facile, invece, che avrebbe giocato fino in fondo la partita, destabilizzando la stessa Arabia Saudita, “retrograda”, “illiberale” e “oppressiva”.

Contro qualsiasi previsione, Donald Trump è però emerso vincente dalla sfida elettorale e, nonostante qualche frecciata lanciata durante la campagna elettorale come la minaccia di bloccare l’import di petrolio saudita, il neo-presidente si è avvicinato rapidamente a Riad, vista come “il campione della reazione”, indispensabile per mantenere la stabilità nella regione: il primo viaggio di Trump all’estero coincide con la visita in Arabia Saudita, dove il presidente ribadisce l’impegno americano nella regione, sigla accordi militari per 110 $mld e vagheggia la nascita di una “NATO araba” per lottare contro il terrorismo e contenere l’Iran. Se la potenza della reazione, Riad, è sugli scudi, quella della “rivoluzione” cade velocemente in disgrazia: trascorreranno meno di due settimane prima che parta la manovra per “strangolare” definitivamente l’emirato del Qatar.

Annusando l’imminente termidoro egiziano con cui i militari egiziani soppressero la Fratellanza Mussulmana, il Qatar corse allora ai ripari: con una mossa a sorpresa, dieci giorni prima che cadesse Mohammed Morsi, l’emiro Hamad ben Khalifa Al Thani abdicò nel giugno 2013 in favore del figlio 33enne. Fu una scelta accorta, che permise alla monarchia qatariota di scongiurare la vendetta saudita. Il contesto è però oggi cambiato: l’establishment liberal ha perso la Casa Bianca, le forze della reazione sono alla ribalta e la pazienza di Riad, già alle prese con il proprio Vietnam nel vicino Yemen, è terminata: un simile miracolo non è più possibile e niente può più salvare la monarchia del Qatar. Nel futuro c’è soltanto la deposizione o l’invasione militare.

C’è chi legge lo scontro tra Riad e Doha come un capitolo del più ampio conflitto tra sunniti e sciiti: il piccolo Qatar, secondo quest’interpretazione, pagherebbe a caro prezzo le sue timide (ed interessate) aperture al vicino Iran. In realtà, il braccio di ferro tra le due monarchie è leggibile come un duello tra reazione e rivoluzione, tra assolutismo e islam politico, tra conservazione e destabilizzazione. Grazie a Trump, la “reazione saudita” ha avuto la meglio sulla “rivoluzione qatariota”: è uno scenario tutto sommato positivo, soprattutto per quei Paesi, come l’Italia, che trarrebbero grandi vantaggi dalla stabilizzazione della regione. Pensiamo in particolare alla Libia dove, come analizzeremo nel prossimo articolo, la caduta della monarchia qatariota faciliterebbe la definitiva riappacificazione dello Stato, grazie alla soppressione degli islamisti e l’avanzata del generale Khalifa Haftar.

Gli ultimi giorni della monarchia qatariota si avvicinano: addio, piccola, infida, Doha!

Ti credevi la regina dello scacchiere mediorientale ed eri, invece, solo uno dei tanti pedoni.

1https://www.theguardian.com/world/2011/oct/26/qatar-troops-libya-rebels-support

2http://www.middle-east-online.com/english/?id=62816

3https://www.ft.com/content/af5d068a-e3ef-11e2-b35b-00144feabdc0

4http://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-syria-qatar-idUSKBN13L0X7

5http://www.reuters.com/article/us-saudi-egypt-finance-idUSKCN0X20Q0

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fonte: Federico Fezzani blog

Patrizio Ricci

Con esperienza in testate come il Sussidiario, Cultura Cattolica, la Croce, LPLNews e con un passato da militare di carriera, mi dedico alla politica internazionale, concentrandomi sui conflitti globali. Ho contribuito significativamente all'associazione di blogger cristiani Samizdatonline e sono socio fondatore del "Coordinamento per la pace in Siria", un'entità che promuove la pace nella regione attraverso azioni di sensibilizzazione e giudizio ed anche iniziative politiche e aiuti diretti.

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