La verità su Pearl Harbor

Il presidente Roosevelt aveva supervisionato un piano, accuratamente tenuto segreto, e la sua messa a punto per spingere i Giapponesi ad attaccare Pearl Harbor

J. ALFRED POWELL
unz.com

Un operatore radio della Seconda Guerra Mondiale, diventato in seguito giornalista, Robert Stinnett, si trovava nella sede degli Archivi Nazionali a Belmont, in California, alla ricerca di materiale per un libro fotografico su George Bush e i suoi trascorsi militari in tempo di guerra nel Sud Pacifico nella ricognizione aerea della Marina [George Bush: His World War II Years (Washington, D.C., Brassey’s, 1992], quando si era imbattuto in alcuni duplicati non indicizzati di intercettazioni radio [della stazione di ascolto di Pearl Harbor] di trasmissioni in codice della Marina giapponese, prove documentali di ciò che era realmente accaduto a Pearl Harbor e di come si era arrivati a tanto. Dopo otto anni di ulteriori ricerche ed un lungo procedimento legale ai sensi del Freedom of Information Act per ottenere un rilascio parziale di questi documenti, Stinnett aveva pubblicato Day of Deceit (2000). Una traduzione in giapponese era subito comparsa entro l’anno, e la cosa è comprensibile.

Stinnett dimostra, sulla base di ampie ed incontestabili evidenze fattuali e accurate analisi, che il presidente Roosevelt aveva supervisionato un piano, accuratamente tenuto segreto, e la sua messa a punto per spingere i Giapponesi ad attaccare Pearl Harbor, monitorandoli costantemente durante la preparazione e l’effettuazione dell’azione bellica. Stinnett ipotizza che Roosevelt lo abbia fatto per costringere un assai poco volenteroso pubblico americano ad accettare un intervento diretto nella Seconda Guerra Mondiale; in ogni caso qualunque siano stati gli scopi o i motivi, i fatti sono ora abbondantemente chiari. Stinnett definisce e dimostra il suo caso presentando un numero enorme di prove documentali, incluse quarantasette pagine di Appendici [p. 261-308] con riproduzioni fotografiche di importanti documenti ufficiali, con  numerosi altri riprodotti nel corpo del testo, e 65 pagine [309-374] di note di riferimento finemente dettagliate. Questi documenti provano le affermazioni, le argomentazioni e le conclusioni fattuali di Stinnett. I risultati delle sue ricerche e le note sono depositate presso la biblioteca dell’Hoover Institute a Stanford. Day of Deceit è un esempio impeccabile di storiografia documentale. [Stinnett] fornisce sempre le prove materiali su cui basa le proprie analisi e le proprie conclusioni. La validità del testo risulterà evidente ad ogni lettore imparziale. Il libro di Stinnett pone fine e risolve tutte le discussioni e i dibattiti razionali, schietti, onesti, basati sui fatti che riguardano i retroscena dell’attacco a Pearl Harbor.

Come mostra Stinnett, il piano che avrebbe portato all’attacco giapponese su Pearl Harbor aveva preso forma agli inizi di ottobre 1940 sulla base di un “memoriale ad otto punti, datato 7 ottobre 1940 … redatto dal tenente comandante Arthur H. McCollum, a capo dell’ufficio per l’Estremo Oriente del controspionaggio della Marina.” Naturalmente, è improbabile che McCollum lo abbia scritto di sua iniziativa, ma è qui dove inizia il resoconto di Stinnett. “I suoi otto punti erano in pratica un incitamento virtuale per un attacco giapponese contro le forze terrestri, aeree e navali americane nelle Hawaii, così come contro gli avamposti coloniali britannici e olandesi nella regione del Pacifico ...” [p. 6-8; il memorandum è riprodotto alle pagine 261-267]:

A. Stabilire un accordo con la Gran Bretagna per l’utilizzo delle basi britanniche nel Pacifico, in particolare quella di Singapore.
B. Stabilire un accordo con l’Olanda per l’utilizzo delle strutture di base e l’acquisizione di rifornimenti nelle Indie Orientali Olandesi [ora Indonesia].
C. Offrire tutto l’aiuto possibile al governo cinese di Chiang Kai-shek.
D. Inviare una squadra di incrociatori pesanti a lunga autonomia in Oriente, nelle Filippine o a Singapore.
E. Inviare due gruppi di sottomarini in Oriente.
F. Mantenere il nucleo principale della flotta statunitense, ora nel Pacifico, in prossimità delle isole Hawaii.
G. Fare in modo che gli Olandesi non cedano alle richieste giapponesi per indebite concessioni economiche, in particolare il petrolio.
H. Completo embargo su tutti gli scambi con il Giappone, in collaborazione con un simile provvedimento imposto dall’Impero Britannico.

Mentre il piano prendeva forma, il suo sviluppo veniva strettamente monitorato attraverso le intercettazioni decodificate delle comunicazioni radio diplomatiche e navali giapponesi. “McCollum si era assicurato che FDR fosse tenuto al corrente delle intercettazioni dell’intelligence dall’inizio del 1940 al 7 dicembre 1941 e aveva fornito al presidente rapporti riservati sulla strategia militare e diplomatica giapponese. Tutte le comunicazioni militari e diplomatiche giapponesi intercettate e decifrate destinate alla Casa Bianca passavano attraverso la sezione Asia Orientale dell’ONI, che sovrintendeva. La sezione fungeva da centro di smistamento per tutti i tipi di rapporti di intelligence …. Ogni rapporto preparato da McCollum per il presidente si basava su intercettazioni radio raccolte e decodificate da una rete mondiale di crittografi militari ed esperti americani di intercettazione radio … Ben poche persone nel governo o nell’esercito americano conoscevano così bene le attività e le intenzioni del Giappone come McCollum.“[8] L’esistenza del piano era stata gelosamente tenuta segreta, limitata a 13 membri e capi militari dell’amministrazione Roosevelt e a 21 membri dell’intelligence navale e delle operazioni connesse [elencati nell’appendice E 307-308]. Il punto C faceva già parte politica statunitense quando McCollum aveva redatto il suo memo. Il punto F era stato attuato l’8 ottobre, i punti A, B e G, il 16 ottobre 1940, i punti D ed E, il 12 novembre 1940. [Cap. 1 n. 8 p. 311-312; 120 e segg. eccetera.].

Nel frattempo, nell’autunno del 1940, a Boston il 30 ottobre, durante la campagna elettorale per un terzo mandato il presidente Roosevelt aveva proclamato: “L’ho detto prima, ma lo dirò ancora e ancora e ancora: i vostri ragazzi non verranno mandati in nessuna guerra straniera.” Il 1° novembre a Brooklyn aveva affermato “Sto lottando per tenere il nostro popolo fuori dalle guerre degli altri. E continuerò a combattere.” A Rochester, il 2 [novembre], aveva detto “Il vostro governo nazionale … è anche un governo di pace, un governo che intende mantenere la pace per il popolo americano.” Nello stesso giorno, a Buffalo, aveva affermato “Il vostro presidente vi dice che questo paese non sta andando in guerra” e a Cleveland, il giorno seguente, “Il primo scopo della nostra politica estera è quello di tenere il nostro paese fuori dalla guerra.” [William Henry Chamberlin ,“How Franklin Roosevelt Lied America Into War,” in Harry Elmer Barnes, Perpetual War for Perpetual Peace (Caldwell, Idaho, Caxton, 1953), Capitolo otto, p. 485-491].

L’ammiraglio Richardson, comandante della flotta del Pacifico, si era opposto agli ordini di Roosevelt [punto F] di dislocare, mettendola a rischio, la flotta a Pearl Harbor ed era quindi stato sostituito dall’ammiraglio Kimmel, con l’ammiraglio Anderson dell’ONI, terzo nella catena di comando a Pearl Harbor, che aveva l’incarico di supervisionare in loco le operazioni di intercettazione radio, all’insaputa dello stesso Kimmel. [10-14; 33-34] “Anderson ara stato inviato alle Hawaii come responsabile dell’intelligence” [36]. Al suo arrivo, aveva stabilito il suo alloggio personale ben lontano da Pearl Harbor, fuori portata dell’imminente attacco. Sebbene fosse al comando delle sette navi da battaglia che avebbero subito tutto il peso dell’azione bellica, con la perdita di oltre duemila vite, l’ammiraglio Anderson si trovava al sicuro a casa sua, dall’altra parte della montagna, quando si era scatenato l’attacco. [36-37; 244, 247] Nel frattempo, i comandanti delle Hawaii, “l’ammiraglio Husband Kimmel e il tenente generale Walter Short, erano stati tenuti all’oscuro delle informazioni che avrebbe potuto renderli più attenti ai rischi insiti nella politica di Roosevelt, ma avevano obbedito al suo esplicito ordine del 27 e 28 novembre, 1941: Gli Stati Uniti desiderano che il Giappone commetta il primo atto esplicito.‘” [6-8] Successivamente, erano stati loro i capri espiatori.

Ai primi di gennaio del 1941 i Giapponesi avevano deciso che, in caso di ostilità con gli Stati Uniti, avrebbero iniziato con un attacco a sorpresa a Pearl Harbor. L’intelligence americana era venuta a conoscenza di questo piano il 27 gennaio [30-32]. Il 21 luglio 1941 il punto H del luogotenente McCollum aveva acceso la miccia. Fino alla fine di novembre la Casa Bianca aveva continuato a bloccare i tentativi concertati dei diplomatici giapponesi per cercare di arrivare ad un accordo. [Su questa storia diplomatica vedete Charles Beard, American Foreign Policy in the Making (1946) e  President Roosevelt and the Coming of the War (1948); Frederic Rockwell Sanborn, Design For War (1951); e Charles Tansill, Back Door To War (1952).]

A partire dal 16 novembre 1941, le intercettazioni radio avevano rivelato la presenza  della flotta giapponese in formazione, nei pressi delle isole Kurili, nel nord del Giappone e, dal 26 novembre fino alla prima settimana di dicembre, ne avevano seguito il progresso attraverso il Pacifico, fino alle Hawaii [41-59 ecc.]. Il capo delle operazioni navali, l’ammiraglio Stark (uno dei 34 partecipanti informati) aveva ordinato a Kimmel di far salpare le sue portaerei, con una grande flotta di scorta, [con il pretesto] del trasferimento di alcuni velivoli alle isole Wake e Midway. “Su ordine di Washington, Kimmel aveva lasciato le sue navi più vecchie all’interno di Pearl Harbor e inviato ventuno unità moderne, comprese le sue due portaerei, ad ovest, verso Wake e Midway … Con la loro partenza, le navi da guerra rimaste a Pearl Harbor erano per la maggior parte anticaglie vecchie di 27 anni, risalenti alla Prima Guerra Mondiale.” Praticamente, le navi affondate a Pearl Harbor con i loro equipaggi erano state usate come esca [152-154]. Il 22 novembre 1941, una settimana dopo che la flotta giapponese aveva iniziato ad assemblarsi e quattro giorni prima che salpasse per Oahu, l’ammiraglio Ingersoll aveva emesso un ordine di “Vacant Sea” [abbandono delle zone operative], che aveva allontanato tutto il naviglio americano dalla  rotta prevista [delle portaerei giapponesi] e il 25 novembre aveva ordinato a Kimmel di ritirare tutti i mezzi che pattugliavano l’area da cui sarebbe partito l’attacco aereo [144-145]. FDR aveva tenuto sotto stretto controllo le fasi finali del piano, mentre le intercettazioni radio continuavano a seguire il trasferimento [della flotta giapponese] verso le Hawaii [161-176].

Stinnett commenta: “Il Gruppo da Battaglia di Pearl Harbor, con le sue vecchie e fatiscenti navi da guerra, era un obiettivo da leccarsi i baffi. Ma è stato un grande errore strategico per l’Impero. I 360 aerei giapponesi avrebbero dovuto concentrarsi sugli enormi deposito petroliferi di Pearl Harbor … e distruggere la capacità industriale dei bacini di carenaggio, delle officine e degli impianti di riparazione della Marina” [249]. Sei mesi dopo, nelle battaglie del Mar dei Coralli (4-8 maggio 1942) e delle Midway (4-7 giugno), le navi da guerra della Flotta del Pacifico, che si trovavano in alto mare al momento dell’attacco a Pearl Harbor, avevano azzerato in modo definitivo la capacità della Marina giapponese di operare in modo offensivo nel Pacifico orientale e dato un serio colpo alle sue potenzialità difensive nel Pacifico occidentale. Da allora in poi, come sapevano gli osservatori informati, un attacco o un’invasione giapponese della Costa Occidentale americana sarebbe stata completamente impossibile dal punto di vista logistico. Tuttavia, due mesi dopo, nell’agosto del 1942, era iniziato l’internamento dei cittadini americani di origine giapponese della Costa Occidentale.

La copertura dei fatti di Pearl Harbor era cominciata subito dopo, con il deferimento alla corte marziale dell’ammiraglio Kimmel e del generale Short, era continuata attraverso otto indagini del Congresso durante e dopo la guerra, con l’eliminazione e la negazione di documenti, con false testimonianze dei partecipanti e di altre persone [253-260 e passim; 309-310], anche dopo le audizioni del Congresso presiedute da Strom Thurmond nel 1995 [257-258]. Alla data di pubblicazione (2000) numerosi documenti non erano ancora pervenuti a Stinnett o erano stati rilasciati in forma ampiamente censurata. Ma la validità del suo caso è dimostrata in maniera inequivocabile dalle prove che egli presenta, come può giudicare qualsiasi lettore imparziale. L’unico modo per confutarlo o smascherarlo sarebbe dimostrare che le sue prove documentarie sono state falsificate e provarlo. Data la natura delle prove che presenta, questa eventualità è priva di senso.

Uno dei momenti culminanti nella ricerca di Stinnett era stata la scoperta di alcune copie di intercettazioni di trasmissioni navali giapponesi in codice, effettuate dalla stazione di ascolto radio di Pearl Harbour, inviate dopo la guerra agli archivi nazionali di Belmont (California), e ivi ancora presenti, molto dopo la scomparsa delle copie degli archivi di Washington DC. Autori recenti, che hanno cercato di ridimensionare le prove addotte da Stinnett, hanno riportato in vita le affermazioni secondo cui i codici navali giapponesi non sarebbero stati decifrati e che la flotta giapponese avrebbe mantenuto il silenzio radio, affermazioni che sono rifiutate ormai da decenni. E’ famoso il caso del radiotelegrafista della nave americana Mariposa, che aveva ripetutamente intercettato le trasmissioni della flotta giapponese in navigazione verso le Hawaii e ne aveva comunicato la rotta alla Marina. Questo fatto era ben noto, durante la guerra, ai marinai della marina mercantile americana del Pacifico ed è riportato in numerosi resoconti pubblici.

La pretesa che i codici navali e diplomatici giapponesi non fossero stati decifrati era stata confutata per la prima volta in un tribunale federale di Chicago, nel 1943. Come racconta il suo biografo Ralph G. Martin, Cissy Patterson, che il 7 dicembre 1941 era la redattrice capo del Washington Times-Herald, (lo era da decenni e lo sarebbe stata ancora a lungo), si opponeva all’intervento americano in un’altra guerra mondiale, come del resto più dell’80% dei suoi connazionali, incluso suo fratello Joe Patterson, editore del New York News, e suo cugino Robert McCormick, editore del Chicago Tribune. Prestando servizio in Francia come ufficiale sul campo di battaglia, Robert era stato ferito, due volte intossicato dai gas e decorato al valore. Il suo Chicago Tribune, come i quotidiani dei suoi cugini e molti altri, specialmente quelli della Costa Orientale, erano fortemente anti-interventisti, fino a Pearl Harbor.

In Cissy (New York, Simon & Schuster, 1979), Martin scrive: “Mentre le notizie del disastro [a Pearl Harbor] continuavano ad arrivare [nella redazione del Times-Herald], Cissy aveva chiesto in tono aspro a Roberts [l’editore dell’edizione domenicale] che cosa ne pensasse di Roosevelt: ‘Credi che abbia organizzato tutto questo?’ Più tardi, quando aveva appreso che i crittografi americani avevano infranto i codici giapponesi prima di Pearl Harbor, si era convinta che Roosevelt avesse saputo in anticipo che i Giapponesi intendevano attaccare. “[418] “Il Chicago Tribune, il Times-Herald e una ventina di altri quotidiani avevano in seguito pubblicato un articolo di un corrispondente di guerra del Tribune, secondo cui gli Stati Uniti avevano prevalso [nella battaglia delle Midway] perché i codici giapponesi erano stati infranti .… Il Dipartimento di Giustizia aveva deciso di incriminare il Tribune e il Times-Herald per la divulgazione di segreti militari degli Stati Uniti …. Il procuratore generale Francis Biddle aveva ritenuto che la rivelazione di questa scoperta fosse equivalsa ad un tradimento, perché aveva dato ai Giapponesi la possibilità di cambiare i loro codici. Waldrop [l’editore del Times-Herald] era stato chiamato a Chicago per testimoniare davanti al gran giurì … Nel mezzo della testimonianza, la Marina aveva rivelato che era stato un addetto alla censura della Marina stessa a passare l’informazione al Tribune. Costretto a rinunciare al caso, Biddle aveva detto che ‘si era sentito uno stupido.’”[431-432] Non era l’unico.

J. Alfred Powell

Fonte: unz.com
Link: https://www.unz.com/article/pearl-harbor-unmasked/
16.06.2019

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