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È quasi impossibile avere una discussione esauriente sullo scenario artistico africano senza menzionare Aida Muluneh. All’età di 44 anni, le sue fotografie hanno già catturato i cuori e le menti del mondo artistico internazionale e sono apparse sui muri del MoMa – Museum of Modern Art della città di New York così come in diverse prestigiose pubblicazioni, inclusa l’elogiata sezione artistica del New York Times. Da marzo ad agosto 2018, cinque delle fotografie di Muluneh sono state esibite in un mostra del MoMA intitolata “Essere: La Nuova Fotografia del 2018″, scatenando brillanti recensioni riguardo il suo uso della pittura e della fotografia per sfidare i concetti di razza e identità.
Come creatrice dell’ Addis Foto Fest, l’unico festival di fotografia internazionale nell’Africa orientale, Muluneh ha raccontato a Global Voices che attaccare le sue immagini sui muri bianchi di musei e gallerie è la parte facile. “La parte difficile è il sostegno alla promozione di altri fotografi, gestire il festival, insegnare, poichè, alla fine, non si tratta del mio arrivo a destinazione”, ci dice. “In fin dei conti, c’è anche da considerare: come aiuto gli altri ad arrivare a destinazione?”. Come fotografa, Muluneh ha tenuto un piede in Occidente e uno nel continente africano. “E ciò che ho visto è che i problemi della popolazione nera sono un fenomeno globale e non si limitano soltanto all’America o all’Africa”, ha aggiunto.
Nata nel 1974 in Etiopia, l’educazione globale di Muluneh ha contribuito alla nascita del suo forte desiderio di contestare e confrontare gli stereotipi del continente. Dopo aver passato quattro anni in Yemen e ad imparare l’inglese nel Regno Unito, Muluneh ha frequentato un collegio a Cipro per poi immigrare in Canada. Da lì si è fatta strada negli Stati Uniti, dove è stata guidata da fotografi afroamericani all’università di Howard.
Durante un breve periodo come fotoreporter al Washington Post, Muluneh ha mostrato un talento per dedicarsi ai suoi incarichi a tutto tondo. La sua dedizione ad onorare entrambe le parti di una storia è anche evidente nella elegante fotografia artistica di notizia e documentaria, in cui strati multipli di una narrativa sono incorporati in ogni cornice. A un primo sguardo, le foto possono sembrare facili da capire ma il suo forte uso di colori primari, elementi culturali, e narrative storiche, infine, portano gli spettatori in un mondo sofisticato dove sono esposti ad una rappresentazione sfumata dello sviluppo culturale ed artistico africano.
Essendo una delle artiste africane più importanti a livello mondiale, Muluneh dà vita ad opere d’arte che oltrepassano differenze geografiche, di classe e culturali. A parole sue, è determinata a mostrare “l’altra faccia dell’Africa” così com’è. “Il nostro bagaglio culturale ha un impatto sul modo in cui percepiamo il mondo, ed è per questo che è importante per quelli di noi che vengono dal continente [africano] far vedere l’altra facciata. Per dimostrare che c’è modernità in Africa e che non è tutto deprimente.”
Nella sua intervista con Global Voices, Muluneh spiega il suo percorso di fotografa specializzata in arte figurativa e i suoi instancabili tentativi per formare e potenziare altri artisti africani, anch’essi impegnati a sfidare gli stereotipi sul continente:
Omid Memarian (OM): Qualche anno fa, in risposta alla domanda cos’è una buona foto, tu hai citato Irving Penn dicendo “una buona foto è una che informa e che tocca il cuore, facendo dell’osservatore una persona cambiata per averla vista”. Dopo 10 anni di fotografia, quanto ti sei avvicinata a questa descrizione?
Aida Muluneh (AM): Ci sto arrivando, ma sà, sono una persona ovviamente ambiziosa quindi sto cercando di estendermi con un raggio d’azione più ampio. Personalmente, per me quello è stato l’obiettivo principale, non solo nella mia produzione ma anche negli insegnamenti che dò, e nel lavoro in Etiopia. Non si tratta di creare opere che si rivolgano soltanto a un certo gruppo elitario, ma che dovrebbero oltrepassare i confini geografici e qualunque formazione di classe. Ed è proprio per la creazione di questo tipo di opere che mi dò da fare all’interno di ciò che meglio conosco intimamente, tenendo sempre a mente che sono anche una fotoreporter. Cerco di ottenere risultati specifici con il mio lavoro.
OM:Hai lavorato per due anni come fotoreporter al Washington Post e poi sei passata a un genere nuovo, l’arte figurativa. Che cosa non potevi ottenere con il fotoreportage, che ti ha spinta verso questo genere?
AM: Mi ricordo che ai tempi, i miei redattori seguivano la linea o sei un’artista o sei una giornalista e devi prendere una decisione, mentre per me non si trattava di fare una scelta, bensì di essere a mio agio. In tal senso, quello che non potevo trasmettere in forma giornalistica mi ha in un certo qual modo motivata a buttarmi nella mia produzione di arte figurativa.
Chiaramente, l’elegante lavoro all’interno di un fotogramma dà una certa complessità ad ogni immagine, e sebbene si possa parlare dei problemi di questo mondo in modo giornalistico, mi sembra che la gente sia meno sensibile a questa metodologia, con l’afflusso di tutte quelle immagini che mostrano sofferenza; mentre attraverso il mio lavoro di arte figurativa si possono vedere una moltitudine di colori ed elementi grafici, ma la cosa principale è di provare ad indurre la gente a scavare a fondo in ogni immagine. Ovviamente, viene prima l’attrazione dei colori, ma quando ci si sofferma con un’immagine, e si leggono alcune delle note allegate ad ognuna, emerge uno strato più profondo. È risaputo che nel giornalismo c’è bisogno di una serie di immagini per raccontare una storia, io invece cerco di essere in grado di incorporare più messaggi in un’unica immagine. Questo è un modo diverso per parlare di varie questioni contemporanee che attrae un’osservatore differente, e anche gli stessi osservatori che sono stati a guardare tutte queste immagini emergere in relazione al continente; allo stesso tempo, questa via di comunicazione cerca di sostenere il futuro dell’Africa, invece di stare sempre a guardare al passato.
OM: Ti succede a volte che mentre stai raccontando una storia o esprimendo un sentimento, torni a fotografare nel modo in cui facevi da fotoreporter? A parte quello che fai adesso, scatti altri tipi di fotografie?
AM: Si, il linguaggio è ancora lo stesso. Quando ho lavorato al pezzo sulla siccità in Etiopia per il Washington Post, la mia preoccupazione maggiore era come affrontare la siccità in modo un pò più dignitoso. Per mostrare che sì, ci sono sfide da affrontare, e che non sono qui per parlare soltanto di cose rosee, ma ci sono problemi nel mio paese e nel mio continente. Soltanto, trovo che l’industria abbia un pò eternato il clichè ancora e ancora, e che la gente possa pensare che quella è l’unica immagine che esista per il continente. Per questo, nel mio lavoro giornalistico, se si guarda indietro anche sulla mia pagina Facebook, si può vedere che stavo provando a mostrare qualcosa di diverso da ciò che la gente si sarebbe aspettata dall’Etiopia. Con il lavoro di arte figurativa è la stessa cosa, mi sto ancora immergendo nella cultura e nelle varie questioni, ma presentandole in modo inaspettato e in un certo senso stimolando la gente in maniera diversa. Non sono qui per rispondere a domande, io sto soltanto facendo domande e allo stesso tempo ogni pezzo rappresenta il mio percorso visivo.
OM: Hai parlato di sostegno della proprietà culturale. Cosa intendi con questo? E questo si rispecchia in vari progetti che hai completato negli anni passati?
AM: Per me, attaccare le immagini sui muri bianchi dei musei e delle gallerie è la parte facile. La parte difficile è il sostegno alla promozione di altri fotografi, gestire il festival, insegnare, poichè, alla fine, non si tratta del mio arrivo a destinazione. In fin dei conti, c’è anche da considerare come aiuto gli altri ad arrivare a destinazione, perchè quando noi raggiungeremo un certo numero, allora il dialogo cambierà e allo stesso modo cambierà la rappresentazione visiva di come la gente vede l’Etiopia o il continente.
Io credo che la cultura debba essere una parte dello sviluppo, e secondo me questo è il punto chiave. Per me, essendo stata educata in Occidente, e passando tanto tempo lontana dal mio paese, trascorrendolo da immigrata in tutti quei posti diversi, tornare in Etiopia dopo tanto è stato proprio un modo di dimostrarlo. Se guardiamo agli elementi tradizionali del continente, vediamo che in realtà sono più contemporanei dei contemporanei: c’è così tanta sofisticatezza e bellezza da non credere, quasi futuristica in un certo senso. Il punto chiave per me è che: a causa di come siamo stati raffigurati dai media su scala mondiale, noi siamo parte di questa conversazione in quanto all’impatto scaturito su scala globale, in quanto popolazione nera e in quanto a ciò che abbiamo sulla cultura contemporanea.
Perfino il fatto che all’improvviso l’Africa è di tendenza: non è che abbiamo iniziato a lavorarci lo scorso anno. Noi siamo stati all’opera da tanto tempo, e adesso, grazie all’accesso a diversi portali possiamo portare questi elementi culturali in ambito internazionale, ma anche dimostrare che essere africano è una cosa davvero più complessa e non è soltanto una cosa. Ci sono diverse definizioni ed interpretazioni, e si dà il caso che io sia una di queste.
OM: Il tuo lavoro è esteticamente audace e meraviglioso, grazie all’uso dei colori primari, che è una delle caratteristiche principali delle tue opere. Allo stesso tempo, tocca le questioni più significative del nostro tempo, come diseguaglianza, immigrazione, pregiudizio e schiavitù. Le persone potrebbero non risolvere i codici al primo sguardo. Qual’è il tuo processo mentale nella messa in pratica di questo approccio creativo?
AM: Ha molto a che fare con la mia educazione globale, ovvero: ho trascorso quattro anni in Yemen, ho imparato l’inglese prima in Inghilterra, ho frequentato un collegio a Cipro e poi siamo immigrati in Canada. Ho avuto una prospettiva molto globale in quel senso, poi ovviamente sono andata all’Università di Howard, che è una università storica afroindiana (HBCU) e i miei mentori sono stati fotografi afroamericani. Io sono una di questi fotografi con un piede in Occidente e uno nel continente. E ciò che ho visto è che le sfide della popolazione nera sono un fenomeno globale, non sono una soltanto una cosa americana o africana. È una conversazione mondiale che possiede abbastanza punti di collegamento da poter essere affrontata. Quindi esibire al museo d’arte Africano a Smithsonian è stata una specie di opportunità per me, nel senso di ritorno a casa, perchè ho iniziato da Smithsonian quando ho fatto lì la mia prima mostra nel 2003; ma era anche un’opportunità per vedere veramente quanto siamo disconnessi in quanto disapora globale e quanto le sfide che affrontiamo siano leggermente differenti, ma allo stesso tempo vedere le tante somiglianze all’interno di questo contesto.
[…] Ci sono sempre convinzioni errate, ma quelle idee sbagliate possono cambiare solo se noi siamo parte di quella conversazione. Non lo sguardo straniero, ma una specie di nostro sguardo interno per capire meglio noi stessi e per fare in modo che il mondo capisca chi siamo.
OM: Ci sono questi artisti e fotografi che sono intuitivi, ed altri che fanno molto affidamento su ricerche e preparazione. Dove ti schieri tra questi tipi di artisti?
AM: Dipende da quello che funziona per te, io posso parlare per me stessa e non posso farlo per altri artisti. Nel mio caso, devo essere stimolata emotivamente. Deve essere qualcosa legato alla mia vita, perchè mi occupo soltanto di cose a cui posso relazionarmi invece di cose di cui non so nulla. Ero solita dire che un artista è davvero qualcuno che vomita quello che ha dentro, e lo presenta al mondo con una certa nudità e con l’amore che porta con sè. Ciò che presento sono davvero soltanto le mie emozioni. È ciò che condivido con il mondo.
OM: Qual’è il significato del costante uso dei colori primari nel tuo lavoro?
AM: La prima intenzione era che se fossi stata una pittrice, sarei stata una pittrice; ma non sono capace di disegnare, così la pittura del corpo è espressione della mia frustrazione per non essere in grado di dipingere e disegnare. Ma […] l’elemento chiave è che guardo ad esso come agli stadi iniziali della mia vita artistica, anche da pittore si inizia con i colori primari prima di cominciare a mischiare i colori. Mi ci riferisco come fossero delle fasi, e questa è la prima spiegazione. La seconda spiegazione è che molti elementi vengono dai dipinti della chiesa ortodossa in Etiopia, che sono altamente basati su colori primari. Se vieni in Etiopia e guardi i dipinti di una chiesa, ti renderai conto che questi colori esistono all’interno della nostra cultura. Non sò di preciso quando eventualmente mi allontanerò dai colori primari, ma questi adesso sono quelli con cui mi sento a mio agio, è ciò che sento dentro, e inoltre quello che voglio esprimere sembra venire fuori proprio da questi colori. Sono colori forti, ma c’è oscurità in ogni immagine. Il colore ti attrae perchè ti chiedi cosa diavolo sia, di solito ci si trova in un festival o in una fiera, sò che le mie immagini sono esposte lì; li puoi vedere a miglia di distanza e questo tende ad avvicinare le persone. Il punto è che attraggo la gente con il colore, ma nascondo una sfaccettata conversazione all’interno di ogni cornice.
OM: Donne, colori primari e esplorazione dell’identità sono gli elementi più impressionanti nelle tue foto. Questi elementi come si collegano alla tua esperienza africana?
AM: Si, mi è stato chiesto in precedenza se fotografassi uomini o se avessi mai provato prima, ma mi sono resa conto che sono attratta da conversazioni gestite dal genere femminle perchè sono una donna che sta provando ad esprimere i proprio sentimenti, le proprie emozioni e la propria esperienza. Questi personaggi femminili sono come attori in un film, quindi anche l’uso dei colori è un forte messaggio che sto cercando di recapitare. Praticamente è come essere ad un buffet, dove ci si prepara a mangiare e dove si andranno a scegliere i piatti che ci piacciono. Questi sono i colori che mi piacciono per il momento, e se fai caso alla mia produzione, è molto grafica, perchè sto cercando di creare una specie di piatto, come un francobollo, del mio lavoro che viene rimosso dalle ombre. Sono molto meticolosa per quanto riguarda la tecnica con cui scatto, sulla posa e lo sguardo forte di ogni donna, perchè tento di raffigurarli indipendentemente dalle circostanze e dalle sfide. Sento che come donne, specialmente nel continente, abbiamo sopportato molto ma allo stesso tempo stiamo mantenendo la nostra forza e dignità. Gran parte di questo fa parte delle nostre radici e la nostra cultura così profondamente, che c’è una codifica che metto nelle mie opere che solo un etiope che viene all’esposizione riconoscerebbe. Riguardo agli stranieri, loro vedono gli elementi grafici, ma quello in cui spero è un’esplorazione da parte loro, dopo essersi chiesti oh che cos’è questa grande Etiopia. Onestamente, se non fossi tornata a casa, non penso che starei creando questo lavoro, perchè è il fatto di essere etiope che mi ha ispirata ad approcciare il mio lavoro in questo modo e ad avere questo tipo di conversazioni.
OM: Il tuo lavoro ha avuto un buon riscontro in molti paesi in cui l’hai esposto. Come rispondono ad esso le persone in Etiopia?
AM: Molto positivamente. È stato molto sorprendente per me, perchè i commenti che ho ricevuto da artisti dicono che io praticamente sto dimostrando che la fotografia è arte; non solo come documentazione o per scopi commerciali, e che si può usare qualunque strumento a condizione che si esprima qualcosa di specifico. Alcuni spettatori in occidente pensano che io sia una pittrice, ed è un po’ strano per me, visto che questi sono dei fotografi. Perfino al MoMA, qualcuno mi ha chiesto cosa fossero questi dipinti, se avessi fatto un collage. E io ho risposto no, che quello era un fotomontaggio, pittura per il corpo e vestiti. È una linea di produzione molto semplice. La gente dice che sto facendo qualcosa di altamente sofisticato; anche l’idea di pitturare tutto il corpo non è nuova. Si tratta di quello che sto esprimendo e di come lo incastro insieme. Può sembrare nuovo alle persone, ma non è altro che spingere la fotografia in un regno diverso, creato e lavorato da te, che esprime un messaggio specifico, ma chiunque guardandolo appena si chiede “cos’è questo?”. Se lo ricorderanno e brucerà un pò nella loro mente, quando si renderanno conto che non sapevano si potessero fare queste cose con la fotografia e non avevano realizzato che puoi fare una dichiarazione così forte facendo uso della fotografia, al di fuori dell’impiego commerciale.
OM: Hai prima frequentato una scuola cinematografica e poi fatto esperienza nella camera oscura durante le scuole superiori. Qual’è l’impatto scolastico per le persone che vogliono perseguire l’arte e la fotografia? Parlando a livello di creatività, vi mette sulla strada giusta o vi lega le mani?
AM: L’ultima lezione di fotografia che ho seguito è stata anche la prima, e parliamo di scuola superiore quando avevo 16 anni, dove avevo l’opportunità di essere in una camera oscura. Quando sono andata ad Howard, frequentavo la facoltà di business. Il mio piano era di diventare un avvocato e di studiare legge internazionale. L’uomo che si occupava delle comunicazioni vide il mio lavoro e mi disse che mi trovavo nel dipartimento sbagliato, così mi spostò in quello di comunicazione, il che mi diede l’opportunità, non solo a livello creativo ma anche tecnico, e la possibilità di capire l’impatto dei media e della comunicazione stessa. Recentemente mi è stato chiesto: “Bisogna andare a scuola per essere un fotografo?”, secondo me non necessariamente. La cosa che l’educazione ti può dare è un senso più ampio di ciò che è già là fuori, e ti può preparare ad usare i tuoi strumenti. Ma alla fine, quando ti diplomi, si tratta di cosa tu farai di questi strumenti che hai imparato ad usare. Poichè, come ho detto, insegnare la tecnica è la parte facile, la parte difficile è insegnare la creatività, e questa o ti viene data da Dio come talento naturale, o è qualcosa verso cui dovrai lavorare.
OM: Cosa dovrebbe cambiare nella visione della gente riguardo l’Africa, l’arte africana e più nello specifico l’Etiopia?
AM: È un continente complesso, e l’Africa non è un solo paese. È un posto così ricco, un continente in cui vedi la presenza di passato, presente e futuro. Quello che il mondo sta soltanto vedendo davvero è il passato oppure qualche parte del presente, e non sono in grado di immaginare il futuro del continente. Adesso, specialmente con film come “Black Panther”, che ha preso in prestito molte cose non solo dall’Africa ma anche dall’Etiopia, sta cambiando la discussione riguardo l’afrofuturismo. Penso che dovete tenere a mente che non c’è una singola storia, e questa è la conversazione che provo ad avere con gli occidentali per fargli capire che non si tratta di una storia soltanto. Ci sono tante storie. Mi ricordo una volta, stavo chiedendo a delle persone durante una presentazione, quando loro pensano a Parigi a cosa pensano; loro mi hanno risposto la Torre Eiffel. Oppure quando pensano a New York, pensano alla Statua della Libertà. E quando gli ho chiesto dell’Africa, le loro risposte erano animali, fame o cultura tradizionale. Nessuno può immaginare la contemporaneità del continente. Come persona, che è contemporanea in così tanti modi, sto tentando di dimostrare al mondo che esiste una diversità all’interno del continente. Tante volte, quando le persone vengono in Etiopia, hanno un’unica mentalità, ma quando arrivano, dicono “wow, non ci immaginavamo che questo paese avesse così tante cose e tante culture diverse, e attività contemporanee”. Quindi il punto a cui sto cercando di arrivare è che la nostra percezione non dovrebbe essere limitata al nostro bagaglio culturale e a quello che noi pensiamo di posti di cui non sappiamo molto.
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