La nostra propaganda ritrae gli ucraini come eroi, preoccupati unicamente di salvaguardare l’unità del paese e la purezza etnica ucraina.
Tuttavia, come evidenziato nel referendum nelle repubbliche e regioni del Donbass che sono passate alla Russia, il motivo principale che ha raccolto ampie maggioranze è stato molto più banale.
Aderire alla Federazione Russa ha significato per gli abitanti di quelle regioni l’entrata in uno stato sanzionato, impossibilitato a mantenere rapporti economici e bancari con l’Occidente.
Questo ha comportato che, per legge, scegliendo di staccarsi dall’Ucraina e di unirsi alla Russia, chi aveva un mutuo o un debito con una banca ucraina lo ha visto cancellato.
Ha anche significato l’abbandono della valuta ucraina per il rublo, con i depositi convertiti automaticamente dalla grivnia alla valuta russa, garantendo un guadagno minimo del 40%, pensioni pagate in rubli e rivalutate, e l’accesso alla sanità russa attraverso un semplice turismo sanitario, oltre a un sistema di finanziamento degli enti locali mai sperimentato prima.
Le rivoluzioni nascono da ideali, ma si espandono anche grazie a considerazioni economiche.
Il vero motivo del malcontento nelle regioni separatiste non è mai stato etnico o morale, ma prevalentemente economico.
Le regioni separatiste ucraine sono paragonabili, in Italia, a Lombardia, Veneto e Piemonte.
Erano le regioni più produttive del paese, ma ricevevano solo le briciole dal governo centrale di Kiev.
Basta osservare lo sviluppo imponente della capitale, punteggiata di quartieri ultramoderni e degni di figurare tra i primi in Europa per sviluppo economico e urbanistico, e confrontarla con la tristezza sovietica delle città industriali del Donbass.
È sufficiente vedere gli anelli di autostrade che circondano Kiev e le città dell’Ucraina occidentale, con le cosiddette autostrade ridotte a due strette corsie in mezzo a chilometri di nulla, su cui oggi transitano i carri armati.
L’aiuto occidentale non è mai stato disinteressato.
Quello militare è stato il risultato di calcoli attenti, volti a finanziare le industrie belliche nazionali, che hanno trovato il modo di rinnovare il catalogo dei prodotti e svuotare i magazzini di materiale obsoleto, vendendolo a prezzo pieno.
I membri della NATO hanno colto l’opportunità per modernizzare i loro arsenali e gli Stati Uniti per riempirli nuovamente di armamenti prodotti in USA.
I politici non direttamente coinvolti in questo commercio sono stati attratti dal business della ricostruzione, paragonabile a una sorta di terremoto dell’Irpinia mille volte più redditizio.
Si contava di ricostruire, a nostre spese, in zone dove non c’era nulla da ricostruire, e ciò offriva opportunità di enormi malversazioni, facilitate anche da un paese dove la corruzione è endemica e il governo è più corrotto dei peggiori regimi africani.
La mancanza di una vittoria ucraina che ripristini i confini del 1991, un’illusione coltivata da una classe dirigente irrazionale, ha iniziato a diffondere il dubbio sulla fattibilità di tale colossale impresa.
Non solo i territori che sono diventati parte della Federazione Russa o repubbliche indipendenti non torneranno mai all’Ucraina, ma lo stesso destino probabilmente toccherà alla Crimea e i russi potrebbero avanzare fino alle rive del Dnepr, lasciando il resto del paese a cavarsela da solo.
Questo resto del paese, già dotato di strutture moderne e a livello europeo dove non ci sono state distruzioni e dove non ci sono risorse minerarie o industriali da sfruttare, sarà composto principalmente da persone che non sapranno come sostentarsi e diventeranno un fardello per i loro sponsor occidentali.
È a causa di questa presa di coscienza che improvvisamente l’ardente desiderio dell’Occidente, e soprattutto delle classi governative europee, di aiutare l’Ucraina si è dissolto come neve al sole.
post di Gianluca Napolitano – Nova Project