Mentre la Francia è paralizzata dalle proteste contro l’ennesima riforma di stampo neoliberale, proponiamo un’intervista al filosofo Jean Claude Michéa. Egli smaschera la sottomissione alle logiche del capitale della cosiddetta sinistra “liberale”, sensibile solo alle battaglie contro le minoranze sostenute dalla “società civile” – ma in realtà strumentalizzate dai ceti dominanti per sviare l’opinione pubblica con obiettivi sostitutivi e impedire il ritorno di una critica socialista al nuovo ordine liberale. Una sedicente sinistra cieca e sorda, quando non connivente, all’ingiustizia di classe. Questa sinistra, gonfia di pregiudizi contro le classi popolari, manifesta idee (se così si possono chiamare) che portano alla società prodotta dall’ideologia neoliberale: una società di monadi disgregate, inevitabilmente disumana. Bisogna chiudere la parentesi rappresentata da questa cosiddetta sinistra, conclude il filosofo francese, come si è chiuso con lo stalinismo.
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Intervista a Jean Claude Michéa, 20 giugno 2019
Dopo un articolo scritto da Michael C. Behrent sul suo pensiero, la rivista americana Dissent pubblica una lunga intervista al filosofo Jean-Claude Michéa. Questa è stata rilasciata a gennaio 2019, quando i gilet gialli celebravano i loro primi due mesi. Il governo ha iniziato a screditare il movimento e scollegarlo dalle sue basi popolari, puntando l’indice in particolare sulla presenza di “Black block” e gruppi di estrema destra ai raduni di Parigi. Mentre Michael Behrent ha deciso, con l’accordo di Michéa, di tagliare alcuni passaggi che potrebbero essere incomprensibili per i lettori americani, il nostro sito offre la traduzione completa dell’intervista. Nella prima parte, il filosofo è tornato alle sue critiche al liberalismo e alla sua difesa dei gilet gialli. In questa seconda parte, sviluppa le sue critiche alla sinistra liberale.La xenofobia e l’intolleranza sono in aumento. Combattere il razzismo in questo contesto sembra più necessario che mai. Penso, ad esempio, alla critica al “privilegio bianco” molto diffusa tra i progressisti americani. Per lei, al contrario, l’antirazzismo e le lotte sociali simboleggiano tutto ciò che c’è di falso nel liberalismo culturale. Questa visione non rischia di delegittimare queste lotte in un momento in cui sembrano particolarmente necessarie?
Jean-Claude Michéa – È proprio sulla questione del razzismo e della difesa delle “minoranze” (sessuali o meno) che la nuvola di inchiostro diffusa per decenni dall’intellighenzia di sinistra è diventata oggi la più difficile da dissipare. Ovviamente non si tratta di “delegittimare” minimamente queste cosiddette battaglie “civili” (se non altro per essere fedeli a Marx, che nel Capitale ha già ricordato che “il lavoro di chi ha la pelle bianca non può essere emancipato là dove il lavoro con la pelle nera resta marchiato a fuoco”). Il problema, tuttavia, è il modo in cui la nuova intellighenzia di sinistra – sullo sfondo, nel corso degli anni ’80, del neoliberalismo trionfante, delle “guerre stellari” e del declino irreversibile dell’impero sovietico – si è affrettata a strumentalizzare queste battaglie (ricordo ad esempio il ruolo decisivo in questo senso di Bernard-Henri Levy, Michel Foucault e dei “nuovi filosofi”) allo scopo allora chiaramente esposto di rendere definitivamente impossibile il ritorno di una critica socialista al nuovo ordine liberale, critica ora assimilata ai “gulag” e al “totalitarismo” (e il fatto che l’odierna generazione di intellettuali rimasta sia stata allevata nell’idea che Marx sia un autore ” superato “- quanti hanno davvero letto il Capitale? – certamente non ha migliorato le cose!). Il caso della Francia mi sembra qui, ancora una volta, emblematico.
Nessuno ignora più, infatti, che è stato proprio lo stesso François Mitterrand (con la complicità, tra l’altro, dell’economista liberale Jacques Attali e del suo braccio destro dell’epoca Jean-Louis Bianco) che, nel 1984, organizzò deliberatamente dall’Eliseo (e quindi solo pochi mesi dopo la famosa “svolta liberale” del 1983) il lancio e il finanziamento di SOS-Racisme, un movimento “della società civile”, ufficialmente “spontaneo” (e infatti subito presentato e lodato come tale nel mondo dello spettacolo e dei grandi media), ma la cui missione principale era in realtà deviare le frazioni di giovani e studenti delle scuole superiori, che l’abbraccio al capitalismo avrebbe potuto destabilizzare, verso una battaglia sostitutiva sufficientemente plausibile e onorevole ai loro occhi. Una battaglia sostitutiva “anti-razzista”, “antifascista” e (l’aggettivo si diffuse all’epoca) “civile”, che ebbe anche il vantaggio significativo, per Mitterrand e il suo entourage, di acclimatare progressivamente questa gioventù al nuovo immaginario No Border e No Limit del capitalismo neoliberale (ed è, ovviamente, in riferimento a questo tipo di movimento “civile” che Guy Debord ha ironizzato, in una delle sue ultime lettere, su queste “attuali pecore dell’intellighenzia, che conosce solo tre reati non ammissibili, con esclusione di tutto il resto: razzismo, antimodernismo, omofobia”).
Ma questa cinica strumentalizzazione delle varie cosiddette battaglie “sociali” si è rivelata doppiamente catastrofica per la sinistra.
A livello intellettuale, innanzitutto, perché è ovvio che una battaglia per “la parità dei diritti e la fine di ogni discriminazione” finirà sempre per essere in tempi rapidi espropriata e dirottata dal suo significato dalla classe dominante, visto che si fa di tutto, in parallelo (e come nel caso della maggior parte delle associazioni “della società civile”), per dissociarla radicalmente da qualsiasi forma di analisi critica delle dinamiche del capitale moderno (e in particolare dall’analisi di Marx – oggi più illuminante che mai – sugli effetti psicologici, politici e culturali del dominio della merce, questa “grande, cinica livellatrice”). Un po’, in breve, come chiamare a combattere l’attuale disastro ecologico – come questa giovane Greta Thunberg diventata, in pochi mesi, il nuovo idolo dei media liberali – pur guardandosi bene dal pronunciare anche una sola parola sulla dinamica senza limiti che definisce strutturalmente il sistema di produzione capitalistico!
E poi a livello pratico, perché le classi popolari ovviamente non ci hanno messo molto a capire – nella misura in cui hanno visto perfettamente che è, essenzialmente, la borghesia di sinistra (e in particolare i suoi accademici, i suoi giornalisti e i suoi artisti) ad aver preso il controllo sin dall’inizio della maggior parte di queste nuove battaglie “sociali” – che i progressi reali che questi ultimi avrebbero infine reso possibili (con la riserva, ancora una volta, di non confondere la vera emancipazione di una “minoranza” con la semplice integrazione dei suoi membri più ambiziosi nella classe dominante!), sarebbero avvenuti quasi sempre a loro danno e a loro spese.
A questo proposito, nulla illustra meglio questa dialettica di emancipazione regressiva delle elezioni della nuova Assemblea Nazionale francese del giugno 2017. All’epoca, l’insieme dei media aveva salutato con entusiasmo il fatto che mai, nella storia della Repubblica francese, un parlamento eletto aveva contato tante donne (quasi il 40%) o tanti deputati provenienti dalle “minoranze visibili”. Che si tratti di un progresso considerevole a livello umano, ovviamente, non penso neanche per un attimo di negarlo. Il problema è che dobbiamo risalire all’anno 1871 (in altre parole all’Assemblea di Versailles che ordinò il massacro della Comune di Parigi – la “San Bartolomeo dei proletari” come disse Paul Lafargue – sotto la guida illuminata di Adolphe Thiers e Jules Favre, allora i due leader indiscussi della sinistra liberale) per trovare un’assemblea legislativa con un tale livello di consanguineità sociale (le classi lavoratrici, benché largamente maggioritarie nel Paese, non sono “rappresentate” che da meno del 3% dei rappresentanti eletti, e per la prima volta dal 1848 non c’è nemmeno un singolo vero operaio!).
Non è tanto perché siano “per natura” sessisti, razzisti e omofobi che “i ceti bassi” generalmente accettano con riluttanza le cosiddette lotte “sociali” (un recente studio sociologico sulle classi sociali in Europa, pubblicato nel 2017 da Agone, ha persino mostrato che “a differenza delle classi superiori, pur sempre pronte a promuovere la mobilità transnazionale e la tolleranza, le classi popolari sono in effetti molto più miste e mescolate rispetto a tutti gli altri gruppi sociali”). È piuttosto perché fanno ogni giorno la triste esperienza concreta di questa “unità dialettica” del liberalismo culturale e del liberalismo economico, su cui la sinistra accademica è ancora impegnata a fare dotte discussioni. È, del resto, uno dei motivi per cui nei miei ultimi libri ho sottolineato l’importante azione educativa del film Pride, piccolo capolavoro del cinema politico britannico realizzato nel 2014 da Matthew Warchus (da cui è tratta l’immagine di apertura, ndt).
Pride mostra in modo esemplare che se il sostegno fornito ai minatori gallesi nel piccolo villaggio di Onllwyn nell’estate del 1984 da giovani attivisti socialisti del gruppo londinese Lesbians and Gays Support the Miners è stato alla fine in grado di modificare in modo così efficace l’atteggiamento di questi minatori sull’omosessualità, è prima di tutto perché – a differenza degli attivisti LGBT tradizionali (che escono quasi sempre, d’altronde, dalla nuova borghesia di sinistra delle grandi città) – i giovani attivisti non si erano mai sognati di considerare i sindacalisti gallesi delle persone dalla “mentalità arretrata” da convertire sul posto a colpi di sermoni moraleggianti. Al contrario, li avevano considerati in primo luogo come veri compagni di lotta, impegnati in prima linea contro il sinistro governo di “Maggie la strega” (un atteggiamento simile a quello che guidò Orwell nel 1936 di fronte alla minaccia franchista – a prendere con la massima naturalezza il suo posto accanto ai repubblicani spagnoli).
Da questo punto di vista, la lezione politica di Pride va oltre la semplice lotta all’omofobia. E potremmo riassumerne il principio come segue. Vuoi davvero far indietreggiare il razzismo, l’omofobia, il sessismo e l’intolleranza? Prima rimetti in questione tutti i pregiudizi della tua classe nei confronti degli ambienti popolari – a partire da quelli che ti portano spontaneamente a vederci solo un “mucchio di gente deplorevole” (“basket of deplorables”, frase usata da Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016 riferendosi agli elettori di Trump, ndt) o “ragazzi che fumano sigarette e guidano diesel”, se preferiamo la versione più morbida di Benjamin Griveaux – portavoce del governo di Emmanuel Macron ed ex braccio destro del “socialista” Dominique Strauss-Kahn). Allora potrai scoprire da solo come “i ceti bassi” – indipendentemente dal loro orientamento sessuale o dal colore della loro pelle – possono rapidamente rivelarsi capaci di essere umani e tolleranti e dotati di intelligenza critica – purché alla fine accettiamo di trattarli come uguali e non più come bambini irrequieti a cui dobbiamo costantemente impartire lezioni – almeno quanto quelli che si considerano costantemente “the best and the brightest”. Resta ovviamente da capire se la borghesia di sinistra abbia ancora, nel 2019, i mezzi morali e intellettuali per un simile ripensamento. Niente, purtroppo, è meno certo.
Dissent – Lei critica, o almeno fa notare, i limiti dell’idea di “neutralità assiologica” e del suo posto nel pensiero politico contemporaneo. Ma una qualche variante di questa idea non è necessaria per una buona società – e specialmente per una società tollerante e aperta alle differenze?
Jean-Claude Michéa – Il problema è che mi sembra molto difficile mobilitare questo concetto di “neutralità assiologica” senza dover reintrodurre immediatamente tutti i presupposti del liberalismo politico, economico e culturale! Dietro tutte le costruzioni della filosofia liberale, in effetti, si trova sempre l’idea (nata dall’esperienza traumatica delle terribili guerre civili di religione del XVI° secolo) che, essendo gli uomini per natura incapaci di accordarsi su una qualsiasi definizione comune di “vita buona” o “salvezza dell’anima” (il relativismo morale e culturale è logicamente inerente a tutto il liberalismo), solo una completa privatizzazione di tutti questi valori morali, filosofici e religiosi che sono considerati destinati a dividerci irrimediabilmente – il che implica, tra l’altro, la costruzione parallela di un nuovo tipo di Stato, minimo e “assiologicamente neutro” – possa davvero garantire a tutti il diritto di scegliere il modo di vivere più adatto a sé, in un contesto politicamente pacificato. Sulla carta, un simile programma è senza dubbio attraente (specialmente se si ammette, con Marx, che “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti”). Il problema è che è proprio questo imperativo della “neutralità assiologica” (o, se si preferisce, questa ideologia della “fine delle ideologie”), che costringe costantemente il liberalismo politico e culturale (i due sono legati, perché, se ognuno ha il diritto di vivere come desidera, ne consegue che nessun modo di vivere può essere considerato superiore a un altro) a doversi appoggiare, prima o poi, alla “mano invisibile del mercato”, per garantire quel minimo di linguaggio comune e “legame sociale” senza il quale nessuna società sarebbe praticabile né potrebbe riprodursi durevolmente.
Questo è ciò che Voltaire stesso capì perfettamente quando nel 1760 scrisse – da buon liberale, contrario sia ai principi inegualitari dell’Antico Regime che al populismo repubblicano di Rousseau – che “quando si tratta di soldi, tutti sono della stessa religione”. E in effetti, se l’unico modo per neutralizzare le dinamiche delle guerre di religione e pacificare la vita comune è di rigettare definitivamente al di fuori della sfera pubblica e della vita comune tutti i valori che possono dividerci a livello religioso, morale o filosofico, allora non si vede come una società del genere possa trovare il suo punto ultimo di equilibrio altrimenti che in questa “religione dell’economia” e in questa mistica dell “interesse bene inteso” che definiscono, fin dall’inizio, l’immaginario del modo di produzione capitalistico.
Comprendiamo molto meglio perché i primi socialisti – è sufficiente rileggere Pierre Leroux, Proudhon, Marx o Bakunin – hanno dato un posto così importante alla critica di questa “ideologia della pura libertà che eguaglia tutto” (Guy Debord), a proposito della quale avevano capito molto rapidamente – e Dio sa se i fatti successivi hanno dimostrato che avevano ragione! – che inevitabilmente avrebbe portato la società liberale ad annegare tutti i valori umani nelle “acque gelide del calcolo egoistico” e “disintegrare l’umanità in monadi, ognuna delle quali ha un’essenza a sé stante e uno scopo a sé stante” (Engels). Questo del resto è il motivo per cui, secondo me, non ha alcun senso rivendicare ancora il “socialismo” (o “comunismo”) là dove i concetti fondamentali di “vita comune”, “comunità” e “comune” non conservano un minimo di significato e legittimità filosofica. L’unica questione politica importante, quindi, è concordare democraticamente su ciò che in una società socialista decente debba necessariamente fare parte della vita comune (fondando così il diritto della comunità di intervenire in quanto tale su una serie di questioni specifiche) e su ciò che, al contrario, può riguardare solo la vita privata degli individui, salvo cadere in un regime totalitario. È d’altra parte su questa questione cruciale (ma che ha senso solo se si respingono immediatamente il postulato nominalista e “Thatcheriano” secondo cui “esistono solo gli individui” e che di conseguenza “la società non esiste” ) che hanno continuato a confrontarsi, a partire dal XIX ° secolo, le due principali correnti del socialismo moderno.
Da un lato, un socialismo autoritario e puritano (a immagine, ad esempio, di Lenin, quando afferma in “Stato e Rivoluzione” che, una volta realizzato il socialismo, “l’intera società non sarà altro che un solo ufficio e un solo laboratorio, con uguaglianza di lavoro e retribuzione”) e, dall’altro, un socialismo democratico e libertario (quello difeso, ad esempio, da Pierre Leroux quando avvertì, già nel 1834 , Il proletariato francese contro la tendenza di una parte del nascente movimento socialista a “favorire, consapevolmente o no, l’avvento di un nuovo papato” in cui l’individuo “diventato un funzionario, e solo un funzionario, verrebbe irreggimentato, avrebbe una dottrina ufficiale in cui credere e l’Inquisizione alla sua porta”). Da parte mia, avendo infinitamente più simpatia per il socialismo anarchico di Proudhon, Kropotkin o Murray Bookchin, rispetto a quello di Cabet, Stalin o Mao, è ovvio che condivido pienamente la vostra preoccupazione per una società “tollerante” e il più aperta possibile a tutte le “differenze “(non è del resto Rosa Luxemburg che ricordava in “La rivoluzione russa” – contro Lenin e Trotsky – che “la libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente”?).
Ma finora non vedo che cosa si potrebbe guadagnare sul piano filosofico – se non qualche ulteriore confusione politica – a riportare nuovamente dentro le vecchie categorie dell’ideologia liberale tutto quello che, fin dall’inizio del XIX ° secolo, ha fatto la meravigliosa originalità del socialismo populista, democratico e libertario. Perché se è indiscutibile – come ricordava una volta l’attivista rivoluzionario Charles Rappoport – che “il socialismo senza libertà non è socialismo”, è altrettanto innegabile – ha aggiunto immediatamente – che “la libertà senza socialismo non è libertà” . Immagino che Orwell avrebbe applaudito!
Dissent – Ho la sensazione che in molti a sinistra (e penso in particolare, ancora una volta, agli Stati Uniti) nutrano una sfiducia spontanea verso idee come la “decenza comune” di George Orwell – che per lei gioca un ruolo importante – perché le vedono come un modo mascherato di difendere il pregiudizio e l’intolleranza. Come reagisce a simili preoccupazioni?
Jean-Claude Michéa – Sfortunatamente, lo vedo come un segno della crescente influenza delle “idee” (se così si possono chiamare) di Bernard Henri Levy sulla nuova intellighenzia “progressista”! Proprio lui che, ancora di recente, non ha esitato neppure a definire le classi popolari per il loro “disprezzo dell’intelligenza e della cultura” e le loro “esplosioni di xenofobia e antisemitismo” (va detto che la rivolta del “basso ceto” e dei suoi gilet gialli l’aveva immediatamente immerso nello stesso stato di odioso panico dei ricchi borghesi parigini nel 1871 contro gli insorti della Comune!). Ma la maggior parte delle indagini empiriche che abbiamo su questo argomento confermano, al contrario, in modo massiccio che è davvero negli strati popolari che il senso del limite e la pratica concreta e quotidiana dell’assistenza reciproca e della solidarietà rimangono, ancora oggi, più diffusi e vitali. E questo si spiega, dopo tutto, molto facilmente.
Quando il tuo reddito è troppo basso – come è il caso, per definizione, della maggior parte delle classi popolari – non puoi avere in effetti la minima possibilità di superare i molti ostacoli della vita quotidiana se non puoi contare sull’aiuto della famiglia e sulla solidarietà del paese o del quartiere. Avendo io stesso scelto di vivere – in parte, per motivi di coerenza morale e filosofica – nel cuore di questa Francia abbandonata, rurale e “periferica” (dove la maggior parte dei servizi pubblici sono scomparsi – è il neoliberalismo – e dove spesso è necessario percorrere chilometri – dieci, nel mio caso personale! – per trovare il primo caffè, il primo negozio o il primo medico), posso assicurarvi che il modo in cui si comportano la maggior parte delle persone che mi circondano (che sono essenzialmente piccoli contadini, viticoltori e piccoli allevatori) corrisponde molto di più, ancora oggi, alle descrizioni di George Orwell in “La strada di Wigan Pier” o in “Omaggio alla Catalogna” rispetto a quelle di Hobbes, Mandeville o Gary Becker (ovviamente non direi la stessa cosa, d’altra parte, delle grandi città – come Parigi o Montpellier – dove ho vissuto a lungo!).
Questo non sorprenderà i lettori di Marcel Mauss (come sapete, mi sono ispirato al suo “Saggio sul dono” per spiegare le basi antropologiche del concetto di decenza comune ), EP Thompson (penso, tra l’altro, alle sue analisi decisive sull’ “economia morale” delle classi popolari e sui loro “costumi in comune” ), di Karl Polanyi, di Marshall Sahlins o di James C. Scott. E ancor meno sorprenderà i lettori di David Graeber che – in “Debito: i primi 5000 anni” – non ha esitato a forgiare i concetti di comunismo di base o comunismo quotidiano (una versione particolarmente radicale, come vediamo, della comune decenza di George Orwell!) per descrivere questo “fondamento di tutta la sociabilità umana (…) che rende possibile la società”).
Quindi non è tanto l’ipotesi di una decenza comune o ordinaria – qualsiasi ne siano gli sviluppi filosofici e antropologici indispensabili che richiama per definizione – che dovrebbe essere un problema oggi! Piuttosto, è il ritorno in forze nella moderna intellighenzia di sinistra della vecchia arroganza di classe e dei vecchi pregiudizi elitari – incluso, ahimè, tra alcuni sostenitori della decrescita – secondo i quali “postulare una decenza ordinaria rappresenta una visione paternalistica e fantasiosa di un popolo che, in realtà, non è mai esistito” (Prendo in prestito questa formula sbalorditiva – ma che dice molto sulla relazione con le classi popolari di gran parte della nuova fauna universitaria – dall’onesto “repubblicano critico”, ecco come si presenta Pierre-Louis Poyau). A tal punto che tendo persino a vedere in questo strano risveglio delle tesi più stantie di un Gustave Le Bon, un Taine o un H.L. Mencken (ad esempio, è stupefacente notare in quale misura il termine, precedentemente glorioso, di “populismo” sia diventato oggi, per la maggior parte dei giornalisti e intellettuali di sinistra, un quasi sinonimo di “fascismo”; o i deliri demofobi e “transumanisti” dell’ideologo macronista Laurent Alexandre) uno dei segni più irrefutabili, e probabilmente più disperanti, del naufragio morale e intellettuale assoluto della sinistra “moderna” e “progressista”.
In un momento in cui il sistema capitalista mondiale sta per sperimentare il decennio più critico e turbolento della sua storia – in un contesto di disastro ecologico crescente e disuguaglianze sociali sempre più esplosive e indecenti – mi sembra che sia abbondantemente arrivato il tempo di chiudere, una volta per tutte, la triste parentesi politica della sinistra liberale (come prima è stata chiusa quella dello stalinismo) e di riscoprire il più rapidamente possibile, prima che sia troppo tardi, la critica socialista della società dello Spettacolo e del mondo della Merce, che è chiaramente tornata oggi più attuale che mai.
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