L’elemosina dei miliardari

Sempre più frequentemente si vedono dei CEO, sempre più ricchi, promettere di cedere parti del proprio patrimonio, spesso per aiutare a risolvere i problemi causati dalle loro stesse aziende. Alcuni lo chiamano “filantrocapitalismo”, ma è solo ipocrisia? Un editoriale del Guardian cerca di dare una risposta, analizzando tutti gli aspetti e le conseguenze di questa presunta generosità, in realtà perfettamente allineata agli interessi dei più ricchi, in sostegno di un sistema truccato a loro favore.

di Carl Rhodes e Peter Bloom, 24 maggio 2018

Nel febbraio 2017, il fondatore e amministratore delegato di Facebook Mark Zuckerberg era su tutte le prime pagine per le sue attività di beneficenza. La Chan Zuckerberg Initiative, fondata dal miliardario della tecnologia e da sua moglie, Priscilla Chan, annunciava di voler elargire oltre tre milioni di dollari in aiuti per la crisi abitativa nella zona della Silicon Valley. David Plouffe, presidente per le strategie e la promozione dell’Iniziativa, ha dichiarato che questi aiuti erano destinati a “sostenere organizzazioni impegnate per aiutare le famiglie in urgente crisi, finanziando la ricerca di nuove idee per soluzioni a lungo termine – una strategia in due fasi che guiderà gran parte delle nostre strategie e azioni di promozione”.

Questa è solo una piccola parte dell’impero filantropico di Zuckerberg. L’iniziativa destinava miliardi di dollari a progetti filantropici mirati ad alleviare problemi sociali, con particolare attenzione alle soluzioni trainate dalla scienza, dalla ricerca medica e dall’istruzione. Tutto era iniziato nel dicembre 2015, quando Zuckerberg e Chan avevano pubblicato una lettera scritta al loro ultimo figlio Max. Nella lettera si impegnavano nel corso della loro vita a destinare il 99% delle loro azioni di Facebook (che in quel momento ammontavano a 45 miliardi di dollari) alla “missione” di “far progredire il potenziale umano e promuovere l’uguaglianza”.

L’iniziativa abitativa si teneva ovviamente molto più vicino a casa, poiché affrontava problemi che si manifestano letteralmente alle porte della sede centrale di Facebook a Menlo Park. In quest’area il prezzo medio di una casa era quasi raddoppiato nel quinquennio tra il 2012 e il 2017, raggiungendo circa i due milioni di dollari.

Più in generale, San Francisco è una città caratterizzata da enormi disuguaglianze di reddito e la reputazione di avere il mercato immobiliare più caro degli Stati Uniti. L’intervento della Chan Zuckerberg era chiaramente mirato a compensare i problemi sociali ed economici causati dagli affitti e dai prezzi delle case, saliti alle stelle, a un livello tale che persino dipendenti con stipendi a sei cifre hanno difficoltà ad arrivare a fine mese. Per chi ha un reddito più modesto, vivere decentemente, per non parlare di avere una famiglia, è quasi impossibile.

Ironia della sorte, proprio il boom del settore tecnologico in questa regione – un boom nel quale Facebook è in prima linea – è stato un importante catalizzatore della crisi. Come spiega Peter Cohen del Council of Community Housing Organizations: “A fronte di una tale concentrazione di ricchezza, il fiume di denaro che circola nel mercato immobiliare non è giustificato dallo sviluppo degli alloggi necessari a una popolazione in crescita. Si tratta semplicemente di speculazione edilizia.”

A prima vista, l’apparente generosità di Zuckerberg è un piccolo tentativo di rimediare al disastro causato dal successo dell’industria nella quale opera. In un certo senso, le sovvenzioni abitative (pari mediamente al prezzo di un vano e mezzo a Menlo Park) cercano di mettere una toppa su un problema che Facebook e altre società della Bay Area hanno causato ed esacerbato. Sembrerebbe che Zuckerberg, in uno slancio di generosità, voglia investire una parte dei proventi del capitalismo tecnologico neoliberista per cercare di affrontare i problemi di polarizzazione della ricchezza creati dallo stesso sistema sociale ed economico che ha permesso a quei proventi di accumularsi.

È facile immaginare Zuckerberg come una specie di CEO-eroe – un ragazzotto il cui genio lo ha reso uno degli uomini più ricchi del mondo, e che ha deciso di usare quella ricchezza a beneficio degli altri. L’immagine che proietta è di altruismo non contaminato dall’interesse personale. Ma grattando appena la superficie si scopre che la struttura dell’opera di beneficenza di Zuckerberg è informata da ben altro che altruismo e buon cuore. Anche se molti hanno applaudito Zuckerberg per la sua generosità, la natura di questa apparente beneficenza è stata apertamente messa in discussione fin dall’inizio.

La lettera di Zuckerberg del 2015 potrebbe facilmente essere interpretata nel senso che l’intenzione fosse quella di destinare interamente i 45 miliardi di dollari in beneficenza. Ma come riportato dal giornalista investigativo Jesse Eisinger, l’iniziativa Chan Zuckerberg, tramite la quale questa donazione doveva essere gestita, non è una fondazione caritatevole senza fini di lucro, bensì una società a responsabilità limitata. Questo status giuridico ha implicazioni pratiche significative, soprattutto per gli aspetti fiscali. Come azienda, l’iniziativa può fare molte cose oltre ad attività di beneficenza: il suo status legale le conferisce il diritto di investire in altre società e di fare donazioni politiche. In effetti la società non limita affatto il potere decisionale di Zuckerberg su ciò che vuole fare con i suoi soldi; resta lui il capo. Inoltre, come spiega Eisinger, l’audace mossa di Zuckerberg ha prodotto un enorme ritorno sull’investimento in termini di pubbliche relazioni per Facebook, anche se in realtà si è trattato semplicemente di “spostare i soldi da una tasca all’altra” rendendo in questo modo “improbabile che alcuna imposta verrà mai pagata”.

La creazione dell’iniziativa Chan Zuckerberg – che, decisamente, non è un’organizzazione benefica – significa che Zuckerberg è in grado di controllare gli investimenti della società come meglio crede, ottenendo significativi vantaggi commerciali, fiscali e politici. Tutto questo non esclude che le motivazioni di Zuckerberg possano includere un moto di generosità o un genuino desiderio di favorire il benessere e l’uguaglianza dell’umanità.

Ciò suggerisce, tuttavia, che quando si tratta di sborsare denaro, l’approccio del CEO è di non vedere alcuna incompatibilità tra altruismo, continuo controllo sui fondi elargiti e aspettativa di ottenere benefici in cambio. Questa riformulazione della generosità – non più considerata incompatibile con il controllo e il guadagno personale – è un segno distintivo della “società dei CEO”: una società in cui i valori associati alla leadership aziendale sono applicati a tutte le dimensioni dell’agire umano.

Mark Zuckerberg non è affatto il primo CEO contemporaneo a promettere ed elargire donazioni su larga scala a buone cause prestabilite. Nella società dei CEO la creazione di strumenti per donare ricchezza è un distintivo d’onore per gli uomini d’affari più ricchi del mondo. È anche stato istituzionalizzato in quella che è nota come The Giving Pledge, una campagna filantropica avviata da Warren Buffett e Bill Gates nel 2010. La campagna si rivolge a miliardari in tutto il mondo, incoraggiandoli a cedere parte della loro ricchezza. L’impegno non specifica a cosa debbano servire esattamente le donazioni, o se debbano essere fatte subito o dopo la morte; è solo un impegno generale a usare la ricchezza privata per un apparente bene comune. Non è nemmeno giuridicamente vincolante, solo un impegno morale.

La lista dei nomi che hanno sottoscritto l’impegno è molto lunga. Ci sono Mark Zuckerberg e Priscilla Chan, insieme ad altri 174, inclusi nomi noti come Richard e Joan Branson, Michael Bloomberg, Barron Hilton e David Rockefeller. Sembrerebbe che molte delle persone più ricche del mondo non vedano l’ora di regalare i propri soldi a buone cause. È quella che i geografi umani Iain Hay e Samantha Muller chiamano con scetticismo “l’età dell’oro della filantropia”: dalla fine degli anni ’90, l’ammontare dei lasciti in beneficenza dei super-ricchi ha raggiunto centinaia di miliardi di dollari. In un articolo del 2014, Hay and Muller sostengono che questi nuovi filantropi abbiano apportato alla beneficenza uno “spirito imprenditoriale”, suggerendo tuttavia che lo scopo ultimo sia “distogliere attenzione e risorse dai fallimenti delle manifestazioni contemporanee del capitalismo”, e che potrebbero sostituirsi all’intervento pubblico che gli stati non sono più in grado di sostenere.

In sostanza, ciò a cui stiamo assistendo è il trasferimento di responsabilità dalle istituzioni democratiche ai ricchi per quanto riguarda beni e servizi pubblici, che verrebbero così amministrati dalla classe imprenditoriale. Nella società dei CEO l’esercizio delle responsabilità sociali non viene più discusso in termini di decidere se le corporazioni debbano o non debbano essere responsabili di aspetti che esulino dai propri interessi commerciali in senso stretto. La questione è piuttosto capire come la filantropia può essere utilizzata per rafforzare un sistema politico-economico che consenta a un numero così esiguo di persone di accumulare quantità di ricchezza oscene. L’investimento di Zuckerberg per risolvere la crisi abitativa della Bay Area è un esempio di questa tendenza generale.

Il finanziamento di progetti pubblici con la beneficenza di imprenditori miliardari fa parte di quello che è stato chiamato “filantrocapitalismo”. Così si spiega l’apparente antinomia tra beneficenza (tradizionalmente focalizzata sul dare) e il capitalismo (basato sul perseguimento dell’interesse economico personale). Come spiega lo storico Mikkel Thorup, il filantrocapitalismo si fonda sull’affermazione che “i meccanismi capitalistici sono superiori a tutti gli altri (specialmente allo stato) quando si tratta non solo di creare progresso economico ma anche umano, e il mercato, o gli attori del mercato, sono o dovrebbero essere nella posizione migliore per costruire una buona società”.

L’età d’oro della filantropia non riguarda solo i vantaggi cumulati dai singoli donatori. Più in generale, la filantropia serve a legittimare il capitalismo, nonché a estenderlo sempre di più a tutti i campi di attività sociale, culturale e politica.

Il filantrocapitalismo è molto più che un finto atto di generosità: mira anche ad instillare i valori neoliberisti personificati dai CEO miliardari che se ne fanno onere. La filantropia viene dunque riformulata negli stessi termini con cui un CEO considererebbe un’impresa commerciale. L’offerta di beneficenza si traduce in un modello di business che impiega soluzioni basate sul mercato, caratterizzate dall’efficienza e dalla quantificazione di costi e benefici.

Il filantrocapitalismo riprende l’applicazione del modus operandi e delle pratiche di gestione delle società commerciali, adattandole al campo sociale. L’attenzione è focalizzata su imprenditorialità, approcci basati sul mercato e indicatori del rendimento. Il processo è finanziato da imprenditori super-ricchi e gestito da personale con esperienza nel mondo degli affari. Il risultato, a livello pratico, è che la filantropia è intrapresa dai CEO in modo simile alla gestione di un’impresa.

Il questo contesto, le fondazioni di beneficenza negli ultimi anni hanno subito un mutamento. Come spiegato in un articolo di Garry Jenkins, professore di giurisprudenza all’Università del Minnesota, sono divenute “sempre più compartimentate, regolamentate, impostate su dati metrici e orientate al business nelle loro interazioni con gli enti pubblici, allo scopo di presentare il lavoro della fondazione come ‘strategico’ e ‘affidabile’”.

Tutto ciò è ben lontano dal benevolo passaggio a un modo diverso e migliore di fare cose che afferma di essere – uno stile iper-capitalistico per “salvare il mondo attraverso il pensiero imprenditoriale e i metodi di mercato”, nelle parole di Jenkins. Il rischio del filantrocapitalismo sta piuttosto nell’assorbimento delle opere sociali da parte degli interessi commerciali, tale che la generosità verso gli altri venga inglobata nel predominante dominio del modello capitalistico della società e delle sue istituzioni aziendali.

Il CEO moderno è in prima linea nella scena politica e dei media. Questo spesso porta i CEO a diventare personaggi famosi, ma nel contempo li espone al rischio di essere identificati come capri espiatori per tutte le ingiustizie economiche. Il ruolo pubblico assunto sempre più spesso dagli amministratori delegati è legato alla nuova impronta corporativa della loro più ampia responsabilità sociale. Le imprese devono ora bilanciare, almeno retoricamente, un duplice impegno tra profitti ed esiti sociali. Ciò si riflette nella promozione della “tripla linea di fondo”, che nel reporting aziendale combina priorità sociali, finanziarie e ambientali.

Questa attenzione per le responsabilità sociali rappresenta un importante problema per i CEO. Sebbene le imprese possano essere disposte a sacrificare profitti a breve termine per tutelare la loro reputazione pubblica, raramente questa opzione è aperta agli stessi CEO, che vengono giudicati sulla base delle loro relazioni trimestrali e al modo in cui curano gli interessi fiscali dei loro azionisti. Quindi, se le strategie di responsabilità sociale sono pubblicamente celebrate, all’interno dei consigli direttivi è spesso tutta un’altra storia, soprattutto al momento di stilare il budget.

Vi è un ulteriore incentivo economico per i CEO nell’evitare di apportare modifiche fondamentali alle loro operazioni in nome della giustizia sociale, in quanto un’ampia porzione della loro remunerazione è spesso costituita da azioni e titoli della società. Adottare politiche di commercio eque e solidali e chiudere fabbriche che sfruttano la manodopera potrebbe essere un bene per il mondo, ma un potenziale disastro per il successo finanziario immediato dell’impresa. Ciò che è eticamente utile per gli elettori e i consumatori non è necessariamente un beneficio concreto per le aziende, né è vantaggioso per i loro dirigenti.

Molte aziende hanno cercato di risolvere questa contraddizione con una filantropia di alto profilo. Pratiche di sfruttamento del lavoro o cattive prassi aziendali passano inosservate quando le aziende pubblicizzano i loro contributi, peraltro fiscalmente convenienti, dati a buone cause. Questi contributi possono essere un prezzo relativamente basso da pagare rispetto a uno stravolgimento delle loro prassi operative. Allo stesso modo, elargire beneficenza è una grande opportunità per i CEO di far la figura dei benefattori, senza dover sacrificare il loro impegno a fare profitto a qualsiasi costo sociale. L’attività di beneficenza consente ai CEO di essere filantropi anziché economicamente progressisti o politicamente democratici.

In alcuni casi entrano in gioco anche considerazioni finanziarie ancora più dirette. La beneficenza può spesso rappresentare un vantaggio assoluto per l’accumulazione di capitale: la filantropia corporativa ha dimostrato di avere un effetto positivo sulle percezioni degli analisti del mercato azionario. A livello personale, i CEO possono trarre vantaggio dal dare risalto alla loro carità individuale per distrarre l’attenzione da altre attività meno edificanti; in quanto dirigenti, possono incassare i guadagni in conto capitale dovuti all’introduzione di strategie di beneficenza di alto profilo.

La nozione stessa di responsabilità sociale delle imprese, o RSI, è stata criticata perché fornisce alle società una copertura morale a un modo di agire alquanto utilitarista e socialmente dannoso. Ma nell’era attuale la responsabilità sociale, quando rappresentata come tratto caratteriale individuale dei dirigenti, ha permesso alle aziende di essere gestite in modo più irresponsabile che mai. Lo stesso coinvolgimento pubblico del CEO nel filantrocapitalismo può essere inteso come una componente chiave di questa gestione della reputazione. Fa parte del marketing dell’azienda stessa, poiché le buone azioni dei suoi leader tendono a proiettarsi sulla magnanimità complessiva dell’azienda.

Ironicamente, il filantrocapitalismo conferisce anche alle imprese il diritto morale, almeno nell’ambito della coscienza pubblica, di essere socialmente irresponsabili. La celebrazione della generosità personale degli amministratori delegati può conferire un diritto implicito alle loro società di agire spietatamente e con poca considerazione per gli effetti sociali più ampi delle loro attività. Ciò riflette una tensione produttiva nel cuore della moderna RSI: più moralmente lodevole è il comportamento del CEO, più spazio, in teoria, l’azienda ha a disposizione per agire in modo immorale.

L’ipocrisia evidenziata dai CEO che spacciano le loro attività come responsabilità sociale e beneficenza espone anche il sottostante spirito autoritario prevalente nella società dei CEO. Il filantrocapitalismo viene comunemente presentato come componente della giustizia sociale di un mercato libero globale altrimenti amorale. Ma, nella migliore delle ipotesi, non è che una sorta di tassa volontaria dell’1% pagata per giustificare la loro responsabilità nella creazione di un mondo economicamente depresso e ingiusto. Più precipuamente, questa cultura del “dare” contribuisce anche a promuovere e diffondere un tipo di sviluppo economico distintamente autoritario, che rispecchia lo stile di leadership autocratico degli uomini che lo finanziano.

La commercializzazione della solidarietà globale ha pericolose implicazioni che trascendono la sfera economica. Ne deriva anche un preoccupante retaggio politico, in cui la democrazia viene sacrificata sull’altare di un fantomatico “empowerment” in stile esecutivo. Politicamente, il libero mercato è considerato un requisito fondamentale per la democrazia liberale. Tuttavia, analisi recenti rivelano una connessione più profonda tra processi di commercializzazione e autoritarismo. In particolare, è necessario un governo forte per attuare mutazioni di mercato spesso impopolari. L’immagine del potente autocrate è, in questo contesto, trasformata in una figura potenzialmente positiva, un leader politico lungimirante che può guidare il proprio paese sul giusto sentiero del mercato a fronte di un’opposizione “irrazionale”. La beneficenza diventa un canale a disposizione dei CEO per finanziare questo dispotismo “illuminato”.

Il recente sviluppo del filantrocapitalismo segna anche la crescente invasione delle imprese nella fornitura di beni e servizi pubblici. Questa intromissione non è limitata alle attività dei singoli miliardari; sta anche diventando una parte delle attività di grandi aziende sotto l’egida della RSI. Ciò è particolarmente vero per le grandi multinazionali la cui portata globale, ricchezza e potere danno loro un peso politico significativo. Tale relazione viene definita come “RSI politica”. I professori di etica imprenditoriale Andreas Scherer e Guido Palazzo hanno evidenziato come, per le grandi aziende, “la RSI è sempre visibile nel coinvolgimento delle imprese nei processi politici di risoluzione dei problemi della società, spesso su scala globale”. Tali iniziative di RSI politica vedono le organizzazioni cooperare a fianco di governi, enti pubblici e istituzioni internazionali, di modo che la separazione storica tra i compiti dello stato e delle aziende viene sempre più erosa.

Le multinazionali sono state a lungo coinvolte in attività semigovernative come la definizione di standard e codici, e oggi sono sempre più coinvolte in altre attività tradizionalmente di dominio governativo, come la fornitura di servizi di sanità pubblica, l’istruzione, la protezione dei diritti umani, problemi sociali come l’AIDS e la malnutrizione, la protezione dell’ambiente e la promozione della pace e della stabilità sociale.

Attualmente le grandi organizzazioni possono accumulare un significativo potere economico e politico su scala globale. Ciò significa che le loro attività – e il modo in cui queste sono regolate – hanno conseguenze sociali di vasta portata. I rapporti di forza si sono invertiti nel 2000, quando l’Institute for Policy Studies negli Stati Uniti riportò, dopo aver confrontato le entrate aziendali con il prodotto interno lordo (PIL), che 51 tra le più grandi economie del mondo erano aziende e 49 erano economie nazionali. Le più grandi società erano General Motors, Walmart e Ford, ciascuna delle quali era economicamente più grande di Polonia, Norvegia e Sud Africa. In quanto capi di queste società, i CEO sono ormai praticamente paragonabili a dei capi di stato. Basti pensare al crescente potere del World Economic Forum, il cui incontro annuale a Davos in Svizzera vede gli amministratori delegati e gli alti dirigenti politici riunirsi con l’obiettivo apparente di “migliorare il mondo”, un rituale ormai consacrato che simboleggia il potere globale e l’influenza dei CEO.

Lo sviluppo della RSI non è il risultato di iniziative aziendali autonome per fare buone azioni, ma una risposta al diffuso attivismo in merito alla RSI da parte di ONG, gruppi di pressione e sindacati. Spesso questo nasce in risposta al fallimento dei governi di regolamentare le grandi aziende. Incidenti industriali e scandali di alto profilo hanno contribuito a mettere sotto pressione le organizzazioni verso una maggiore autoregolamentazione.

Nel 1984, l’esplosione in uno stabilimento chimico della Union Carbide a Bhopal, in India, provocò la morte di circa 25.000 persone. James Post, professore di management alla Boston University, spiega che, dopo il disastro, “l’industria chimica globale si rese conto che era quasi impossibile ottenere una licenza per operare senza la fiducia del pubblico negli standard di sicurezza del settore. La Chemical Manufacturers Association (CMA) adottò un codice di condotta che include nuovi standard di gestione del prodotto, divulgazione e coinvolgimento della comunità.”

L’impulso in questo caso era il profitto aziendale, piuttosto che la generosità, poiché le industrie e le società a livello mondiale “cominciarono a riconoscere la crescente importanza della reputazione e dell’immagine”. Simili iniziative sono state prese dopo altri importanti incidenti industriali, come la fuoriuscita di centinaia di migliaia di barili di petrolio dalla petroliera Exxon Valdez in Alaska nel 1989 e l’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della BP nel Golfo del Messico nel 2010.

Un altro caso importante è stato il coinvolgimento delle aziende di abbigliamento Gap e Nike in uno scandalo sul lavoro minorile dopo la trasmissione di un documentario nella trasmissione Panorama della BBC nell’ottobre 2000. Le fabbriche tessili di Gap e Nike in Cambogia operavano in condizioni di lavoro terribili, dove bambini di 12 anni lavoravano sette giorni su sette, costretti a fare gli straordinari e a subire abusi fisici ed emotivi da parte del management. La protesta pubblica che ne è scaturita chiedeva a Gap e Nike, e altre aziende simili, di assumersi maggiori responsabilità per gli impatti sociali umani negativi delle loro pratiche commerciali.

La RSI è stata introdotta per ridurre gli effetti negativi sui profitti delle imprese. Nel tempo si è però trasformata in un modo per aumentare ulteriormente quei profitti, mentre in apparenza sostiene di fare gli interessi degli altri. Davanti alla minaccia di uno scandalo aziendale, la RSI è considerata una maniera di ripulire la reputazione aziendale e allontanare la minaccia di una regolamentazione governativa. Ancora una volta si vede come le multinazionali si impegnano in pratiche apparentemente responsabili per rafforzare il loro potere politico e indebolire il potere degli stati nazionali sulle loro stesse attività.

L’idea che le organizzazioni adottino la RSI allo scopo di sviluppare o difendere la propria reputazione aziendale ne ha messo sotto esame le basi etiche. Si è diffusa la convinzione che, piuttosto che usare la RSI come mezzo per “comportarsi eticamente”, le aziende la adottino semplicemente per “apparire etiche”, evitando di mettere in alcun modo in discussione la loro posizione etica o politica di base. Anche la Enron, prima del suo leggendario scandalo di frodi e il fallimento nel 2001, era famosa per professare la sua responsabilità sociale.

La generosità del CEO è sempre di proporzioni epiche – o almeno così viene descritta. In effetti, a livello individuale è difficile trovare da ridire su ricchi personaggi che distribuiscono buona parte della loro ricchezza a cause caritatevoli o sulle aziende che sostengono programmi socialmente responsabili. Ma in senso più lato ciò che la RSI e il filantrocapitalismo ottengono è la giustificazione sociale dell’estrema disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, piuttosto che qualsiasi tipo di antidoto ad essa. È infatti indubbio che, nonostante l’apparente proliferazione della generosità auspicata dal filantrocapitalismo, la cosiddetta età d’oro della filantropia è anche un’età dove la diseguaglianza è in espansione.

Questo è chiaramente indicato nel rapporto di Oxfam del 2017 intitolato An Economy for the 99%. Ne emergono l’ingiustizia e l’insostenibilità di un mondo che soffre di livelli crescenti di disuguaglianza: dall’inizio degli anni ’90, il primo 1% delle persone ricche del mondo ha guadagnato più reddito dell’intero 50% inferiore. Quali sono le cause? Il rapporto di Oxfam attribuisce fermamente la responsabilità alle grandi corporazioni e alle economie di mercato globali in cui queste operano. Le statistiche sono allarmanti: le dieci maggiori società del mondo hanno redditi che superano i Pil totali complessivi delle 180 nazioni più povere. In questo contesto, gesti di responsabilità sociale delle imprese non fanno davvero alcuna differenza. Il rapporto afferma: “Quando le grandi aziende lavorano sempre più per i ricchi, i benefici della crescita economica sono negati a coloro che ne hanno più bisogno. Nel perseguire alti rendimenti per coloro che sono al vertice, le aziende sono spinte a spremere i loro lavoratori e produttori sempre più duramente – e a evitare di pagare tasse che andrebbero a beneficio di tutti, e in particolare degli strati più poveri”.

Né la filantropia dei super-ricchi né i programmi aziendali socialmente diretti hanno alcun effetto reale nel contrastare questa tendenza, così come la beneficenza di tre milioni di dollari di Zuckerberg avrà un effetto trascurabile sulla crisi immobiliare di San Francisco. Al contrario, le grandi fortune nelle mani di pochi, acquisite per eredità, grazie al commercio o con il crimine, continuano a crescere a spese dei poveri.

In ultima analisi, al centro del filantrocapitalismo vi è il capitalismo, e l’azienda che è al centro della beneficenza aziendale, e anche le iniziative che nascono con buone intenzioni servono a giustificare un sistema truccato a favore dei ricchi.

Ciò che caratterizza questo nuovo approccio non è che i ricchi si dedichino a fare l’elemosina, ma, come spiega la sociologa Linsey McGoey, che ciò implichi “un’apertura che distrugge deliberatamente la distinzione tra interessi pubblici e privati, per giustificare livelli sempre più concentrati di guadagno privato”.

Nella società dei CEO, questo tipo di logica aziendale regna sovrana e garantisce che qualsiasi attività considerata generosa e socialmente responsabile alla fine abbia un risultato in termini di guadagno personale. Se mai c’è stato un dibattito etico tra genuina compassione, reciprocità e interesse personale, non lo si troverà qui. È in accordo con questa logica aziendale che i meccanismi di correzione della disuguaglianza creati attraverso la generazione di ricchezza siano posti nelle mani dei ricchi e con modalità che finiscono per avvantaggiarli. I peggiori eccessi del capitalismo neoliberista sono moralmente giustificati dalle azioni delle stesse persone che beneficiano di quegli eccessi. La redistribuzione della ricchezza è affidata ai più ricchi, e la responsabilità sociale è nelle mani di coloro che hanno sfruttato la società per guadagno personale.

Nel frattempo, la disuguaglianza aumenta e sia le grosse aziende sia i ricchi trovano modi per evitare le tasse che il resto di noi paga. Nel nome della generosità, troviamo una nuova forma di governo corporativo, che plasma un altro aspetto dell’agire umano nel proprio interesse. Questa è una società in cui ai CEO non basta più fare affari; devono controllare anche i servizi pubblici. Mentre il sito Web di Giving Pledge mostra sempre più volti sorridenti e compiaciuti di miliardari, la realtà è quella di un mondo caratterizzato da gravi disuguaglianze, che peggiorano di anno in anno.

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