Libertà di religione. Nel documento della CTI una visione secolarizzata della religione.

A proposito del recente documento della Commissione Teologica Internazionale La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee il nostro Osservatorio è già intervenuto con uno scritto di Stefano Fontana dal titolo Libertà religiosa: il documento della CTI non chiude il problema [link  https://www.vanthuanobservatory.org/ita/liberta-religiosa-il-documento-della-cti-non-chiude-il-problema/]. Ospitiamo ora un secondo intervento sul tema di Silvio Brachetta, della Redazione dell’Osservatorio.

Dal 1969 è attiva la Commissione teologica internazionale (CTI), istituita da Paolo VI per «aiutare la Santa Sede e precipuamente la Congregazione per la Dottrina della Fede nell’esaminare delle questioni dottrinali di maggior importanza»[1]. L’ultima questione esaminata – in un recente documento[2] – è lo stato dell’arte della libertà religiosa nel nostro tempo, alla luce della Dignitatis humanae[3].

Il lettore trova ora le medesime difficoltà che aveva leggendo la Dignitatis humanae: non è quasi mai possibile distinguere se il discorso è da applicarsi a tutte le religioni o alla sola religione cristiana cattolica. S’intuisce, nella lettura, che il redattore chieda il rispetto della libertà religiosa da parte degli stati, in forza di un certo numero di elementi in comune tra le religioni, nella simultanea esposizione delle peculiarità del cattolicesimo. La redazione, tuttavia, è posta in modo che non si possa mettere a fuoco quali siano esattamente le analogie e le differenze tra il cattolicesimo e le altre credenze, generando in chi legge l’idea dell’equivalenza sostanziale di ogni religione. Non solo, ma si è portati a pensare che ci sia qualcosa al di sopra delle religioni – la libertà, appunto – che le trascende e le supera, come se la religione (in generale, ma la cattolica in particolare) fosse solo il penultimo orizzonte di senso per l’uomo.

Il magistero non evolve

Il documento si fonda su di un presupposto teologico errato: la «più approfondita intelligenza della fede» – della quale è espressione sia la Dignitatis humanae che il pronunciamento attuale – implicherebbe «una novità di prospettiva e un diverso atteggiamento a riguardo di alcune deduzioni e applicazioni del magistero antecedente»[4]. In altre parole, in questo come in altri casi, si avrebbe «una maturazione del pensiero del magistero»[5]. Il magistero della Chiesa, al contrario, non è il risultato di «deduzioni» o di un «pensiero», come se si trattasse di costruire una filosofia in continuo sviluppo verso la verità. Il magistero è l’insegnamento attraverso cui la Chiesa trasmette inalterato il deposito della fede, qualunque sia il livello storico dell’intelligenza della fede raggiunto da una data civiltà.

Certamente il cristianesimo ha sviluppato una teologia, che si basa pure su pensieri e deduzioni, ma il magistero non è teologia. Il magistero, inoltre, ha a che fare con l’unica e corretta interpretazione delle Sacre Scritture: una tale interpretazione proviene esclusivamente dalle parole e dalle opere dei santi (anche dottori della Chiesa) e dei martiri, non da un concilio, da un pontefice o da una commissione che si occupa di un aspetto della Rivelazione. I concili e i pontefici ratificano e confermano infallibilmente l’autorità dei santi e dei martiri, ma non la creano e, soprattutto, non la deducono da elucubrazioni umane. La stessa teologia non piega il dato della fede alla ragione ma, viceversa, piega la ragione al dato della fede, fermo restando che la ragione umile (guidata alla fede) non viene piegata, ma rafforzata.

È fuorviante, per questi motivi, scrivere di «evoluzione omogenea della dottrina»[6], perché si presta all’equivoco: il termine «evoluzione» porta istintivamente a pensare ad una trasformazione, ad un cambiamento della verità rivelata e del dogma.

Foro interno e foro esterno

E proprio nel nome dell’evoluzione, il documento è critico nei confronti del magistero precedente in tema di libertà religiosa. È critico soprattutto con la Mirari Vos[7] di Gregorio XVI e con la Quanta Cura[8] di Pio IX: le encicliche avrebbero espresso il magistero circa la libertà di coscienza non in quanto verità rivelata, ma viziate da contingenze storiche. Sorprende l’affermazione della CTI secondo cui i due pontefici si sarebbero pronunciati condannando la libertà di coscienza per via di «una certa configurazione ideologica dello Stato, che aveva interpretato la modernità della sfera pubblica come emancipazione dalla sfera religiosa». Non sono, però, le contingenze storiche che condizionano il magistero ordinario dei pontefici ma, al contrario, le contingenze storiche sono lette alla luce della Rivelazione.

In realtà il problema è un altro. Proprio a partire sulla dottrina circa la libertà di coscienza, la Mirari Vos e la Quanta Cura riespongono l’insegnamento della Chiesa secondo cui in foro interno – ovvero all’interno della coscienza di ognuno – l’uomo non può essere forzato a scegliere cosa credere, mentre in foro esterno – nella società – non si ha alcun diritto di professare l’errore. L’errore, infatti, provoca non solo peccati personali, ma incide sull’ordinamento stesso del consorzio umano: per questo, tra l’altro, si tratta di un insegnamento che fa parte della Dottrina sociale della Chiesa.

Pio IX, citando Gregorio XVI, in particolare, definisce un «delirio» il pensiero secondo il quale «la libertà di coscienza e dei culti» è un «diritto proprio di ciascun uomo, che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società», così che i cittadini abbiano «diritto ad una totale libertà»[9]. Non solo, ma nel Sillabo[10] allegato alla Quanta Cura è riconosciuto come falso il principio che concede a tutti «qualsivoglia culto», in modo che si possa «manifestare qualunque opinione e qualsiasi pensiero palesemente ed in pubblico»: si tratta dell’errore riconducibile all’«indifferentismo religioso».

Sovrastrutture a monte della religione

Nel pronunciamento della CTI non solo non è presente l’insegnamento summenzionato dei pontefici, ma è persino criticato, in vista del fatto che la dottrina dev’essere rivista alla luce del presente, in modo che possa subire l’evoluzione auspicata. Vengono, in tal modo, riproposti i quattro argomenti cardine della Dignitatis Humanae, tra cui quello dell’«integrità della persona umana», ossia «l’impossibilità di separare la sua libertà interiore dalla sua manifestazione pubblica»[11]. Se è certo che esista una tale impossibilità – poiché l’uomo opera quello che crede – è altrettanto certo (secondo il magistero) che lo Stato ha il dovere di reprimere le opere conseguenti a convincimenti errati. Non si può non prendere in considerazione che una cosa è il libero convincimento interiore e un’altra è la conseguenza pubblica che segue alla convinzione.

Si giunge così ad affermare il «principio di libertà religiosa ormai chiaramente definito in quanto diritto civile del cittadino»[12] e non già come espressione del magistero. Il tutto è rivisto, insomma, «in una prospettiva aperta alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo»[13]. Ritorna così di continuo il problema della sovrastruttura: a monte della religione – e a maggior ragione la cattolica – ci sarebbe, per i redattori del documento, un principio ultimo a cui dover rendere conto, che supera la legge di Dio e che corrisponde alle prospettive moderne dello stato liberale. Parrebbe, ci sarebbe, sembrerebbe: non si può fare a meno di usare il condizionale, perché il documento è ambiguo circa molti aspetti del magistero. Ritorna spesso il riferimento al «bene comune», senza tuttavia definirlo con precisione e senza relazionarlo chiaramente con la verità o con la necessità di aderire alla religione vera.

Religione in senso orizzontale

La CTI alle volte si esprime apoditticamente: c’è un «dovere morale di non agire mai contro il giudizio della propria coscienza – persino quando questa sia invincibilmente erronea», per cui esiste un «diritto della persona di non essere mai costretta da nessuno ad agire contro la propria coscienza, specialmente in materia religiosa»[14]. Non è esattamente così: il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che «l’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza»[15]. La CTI, quindi, omette di dire che c’è sì il dovere morale di non agire contro la propria coscienza, ma solo se il giudizio è «certo». Proprio perché anche la CTI insiste sulla necessità della formazione di una coscienza retta, è strano che non insista con altrettanta forza sul dovere dello stato di contrastare i frutti di una scelta fondata sul giudizio di una coscienza (ancorché certa) vincibilmente o invincibilmente erronea.

C’è solo un riferimento – peraltro presente anche nella Dignitatis Humanae – al fatto che «le autorità civili hanno il dovere correlativo di rispettare e di far rispettare» il diritto alla libertà religiosa «nei giusti limiti del bene comune»[16]. Tutto qui. Non si ammette che le religioni acattoliche e l’eresia in genere sono fonti storiche di grandi ingiustizie e sconvolgimenti sociali, di cui il potere politico non ha mai potuto prescindere. È taciuta la regalità sociale di Cristo, è taciuto il fatto che «l’obbedienza della fede»[17] paolina è sì una libera adesione della coscienza, ma viene realizzata anche con l’educazione cristiana, che i genitori impartiscono obbligatoriamente ai propri figli.

C’è il riferimento alla «priorità della suprema signoria di Dio»[18], a cui bisogna obbedire, immediatamente contrastata però dal noto “ma” avversativo, proprio della teologia moderna. Questa obbedienza – continua la CTI – non è «tuttavia in alternativa al costituirsi di un legittimo potere di governo del popolo, che risponde a regole intrinseche […]»[19]. Al di là del gioco retorico, il ragionamento è chiaro: la suprema signoria di Dio viene prima di tutto, «tuttavia» (“ma” avversativo) lo stato ha regole intrinseche che possono avere la priorità sulla signoria di Dio.

Lo stato dunque, secondo il documento, deve solo prendere atto che vi è un diritto alla libertà religiosa, di qualunque religione si tratti. Le religioni – qualunque religione – sono tenute alla ricerca del dialogo e della pace, nel rifiuto della violenza. Anche qua l’attenzione è tutta orientata verso le sovrastrutture, espressione di un’idea orizzontale e secolarizzata della religione.

Silvio Brachetta

[1] Dal Profilo della Commissione teologica internazionale, sul sito del Vaticano.

[2] Commissione teologica internazionale, La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teologico alle sfide contemporanee, 21/03/2019.

[3] Concilio Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae, 07/12/1965.

[4] CTI, La libertà religiosa…, cit., n. 14.

[5] Ivi.

[6] Ibid. nn. 14, 27.

[7] Gregorio XVI, Lettera enciclica Mirari Vos, 15/08/1832.

[8] Pio IX, Lettera enciclica Quanta Cura, 08/12/1864.

[9] Pio IX, Quanta Cura, cit.

[10] Pio IX, Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores (Elenco contenente i principali errori del nostro tempo), n. LXXIX.

[11] CTI, La libertà religiosa…, cit., n. 18.

[12] Ibid. n. 22.

[13] Ibid. n. 16.

[14] Ibid. n. 40.

[15] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1790.

[16] CTI, La libertà religiosa…, cit., n. 40.

[17] Rm 1, 5.

[18] CTI, La libertà religiosa…, cit., n. 56.

[19] Ivi.

Source link

Lascia un commento