Libia, Strauss-Kahn e North Dakota di Giovanni Lazzaretti

fonte idendità europea – luglio 2011

Quando sento la frase “il popolo libico geme” mi sale il nervoso e mi chiedo cosa sta pensando il mio interlocutore.
Siamo infatti d’accordo che il popolo libico geme: coi ribelli cirenaici appoggiati, finanziati e armati dall’occidente, con la guerra civile in casa, coi bombardamenti della Nato, con la paralisi economica, con la prospettiva di perdere l’autonomia economica e finanziaria, certamente il popolo libico geme.
Panavia PA200 Tornado view from the Backseat
Photo by Ronny Stiffel
Ma al 31 dicembre 2010 il popolo libico non gemeva.
Com’era la Libia
Quando i nuovi padroni comanderanno in Libia, faranno come tutti i vincitori: divisione del bottino e revisione della storia. Ci saranno frotte di giornalisti a farci vedere la Libia in macerie, e saranno, ovviamente, “le macerie di Gheddafi”. Fissiamo allora la situazione al 31 dicembre 2010, per ricordarci come era davvero la Libia.
Al 31 dicembre 2010 il Prodotto Interno Lordo pro capite della Libia era di circa 14.000 dollari. Trascurando le isole turistiche Seychelles e Mauritius, era superato in Africa solo da Guinea Equatoriale, Botswana e Gabon.
Nel parametro ISU (Indice dello Sviluppo Umano, un mix di reddito, alfabetizzazione e aspettativa di vita), la Libia era a livello alto, 53° paese al mondo e nettamente prima in Africa. Gli stati che superavano la Libia nel PIL pro capite hanno un ISU basso: Gabon 93°, Botswana 98°, Guinea Equatoriale 117°.
La disoccupazione era inesistente: la Libia aveva il tasso di disoccupazione più basso dell’Africa e più basso del mondo. Anche l’emigrazione era inesistente: in Italia (1 gennaio 2010) c’erano 432.000 immigrati dal Marocco, 104.000 dalla Tunisia, 82.000 dall’Egitto, 26.000 dall’Algeria, 2.000 dalla Libia. Vuol dire 20 immigrati libici per provincia: qualche studente universitario, qualche manager, qualche famiglia.
Strade, scuole, ospedali, università, case popolari a bassissimo prezzo, inizio di industrializzazione, sviluppo agricolo con l’acqua tirata su nel deserto e portata sulla costa con un viaggio di 900 km. Bambine a scuola e ragazze all’università. Abolizione della poligamia e leggi in favore della donna nel matrimonio. Estremismo islamico tenuto a freno. Relativa tolleranza verso i 100 mila cristiani. Luogo di speranza per molti africani della fascia sub sahariana.
Il dittatore
Noi chiudiamo gli occhi di fronte ai bombardamenti Nato con la solita scusa propria dei “democratici”: bombardiamo Gheddafi perché è un dittatore.
Andiamo a controllare sul sito “Freedom House”: è un sito che tiene monitorato il livello di libertà nei paesi del mondo, dividendoli in “liberi”, “parzialmente liberi”, “non liberi”.
Sì, la Libia è indicata come paese “non libero”.
Come Algeria, Egitto, Mauritania, Ciad, Sudan, Eritrea,… Ma esiste qualche paese libero in Africa sopra l’equatore? Certamente. Secondo il sito esistono il Mali, il Ghana, il Benin.
Ghana: 134° al mondo nel PIL pro capite, 130° nell’ISU (2009). Benin: 154° nel PIL pro capite, 135° nell’ISU. Mali: 159° nel PIL e 160° nell’ISU.
Liberi?
Con PIL e ISU a quei livelli sono liberi di essere depredati, liberi di morire di fame, liberi di morire giovani e analfabeti. La democrazia è una farsa quando gli elementari diritti umani (cibo, reddito, istruzione, salute) sono del tutto insoddisfatti.
Iraq 2003, Jibril 2007
Nel 2003 finisce il decennio di embargo ONU per la Libia (sospeso nel 1999 e revocato nel 2003).
Nel 2003 Gheddafi capisce bene che adesso “se vogliono farlo, lo fanno”. Hanno distrutto l’Iraq inventando le “armi di distruzione di massa”. Il bombardamento di Tripoli del 14 aprile 1986, ordinato da Ronald Reagan, era uno scherzetto in confronto a ciò che può accadere ora.
Le regole del diritto internazionale sono saltate. Se vogliono distruggerti, lo fanno; non hanno più bisogno dell’arma minimale dell’embargo.
Gheddafi comprende che deve concedere qualcosa al sistema finanziario mondiale. Le concessioni evidentemente vengono apprezzate, visto che nel 2006 gli USA riallacciano le relazioni diplomatiche dopo 25 anni. E nel 2007 arriva Mahmoud Jibril, che va a “servire” il regime di Gheddafi come capo del NEDB (National Economic Development Board) per promuovere politiche di privatizzazioni e liberalizzazioni.
Mahmoud Jibril è un “libico”, ma è di fatto uno statunitense: ha studiato e insegnato all’università di Pittsburgh, ha scritto diversi libri negli USA, è un formatore di manager in diversi paesi arabi. Un tecnocrate USA di origine libica.
E’ la “serpe in seno” che nel 2011 diventerà primo ministro dei “ribelli cirenaici”.
2008
Il 2008 è l’anno della grande crisi finanziaria ed economica. Il 15 settembre 2008 c’è l’evento emblematico del fallimento di Lehman Brothers.
il 17 novembre 2008 Dominique Strauss-Kahn, capo del Fondo Monetario Internazionale, è a Tripoli. Ha diversi colloqui con Gheddafi, nei quali discutono sulla crisi finanziaria mondiale. Incontra anche El Huweij, capo delle Finanze libiche, e Bengdara capo della Banca Centrale Libica (un altro che nel 2011 cambierà bandiera).
Cosa si saranno detti il dittatore matto e il funzionario donnaiolo? Non lo sappiamo, al di là dei comunicati ufficiali. Certamente, anche nei comunicati ufficiali, hanno concordato sul fatto che la turbolenza mondiale ha avuto effetti limitati in Libia e nel Maghreb. Da persone intelligenti ne avranno anche colto le motivazioni.
Non sappiamo cosa si sono detti. Ma possiamo provare a immaginarlo dai loro passaggi successivi.
2009
Nel febbraio 2009 Gheddafi viene eletto Presidente dell’Unione Africana. Da quel momento la preparazione della Banca Africana d’Investimento, del Fondo Monetario Africano, della Banca Centrale Africana, assumono una “sterzata di idee” in stile Gheddafi: autonomia economico / finanziaria africana e moneta unica “vera” (dinaro-oro).
In Africa l’idea del dinaro-oro come moneta unica aveva trovato la contrarietà solo del Sudafrica e dei vertici della Lega Araba.
In occidente l’idea non era molto gradita (“The initiative was viewed negatively by the USA and the European Union, with French President Nicolas Sarkozy calling Libya a threat to the financial security of mankind”): Sarkozy è in prima linea e definisce la Libia una minaccia per la sicurezza finanziaria del genere umano.
Del genere umano? Diciamo piuttosto che era una minaccia per il Franco CFA. Il Franco CFA è la moneta coloniale con la quale la Francia continua a fare i suoi interessi in 14 paesi africani. C’è la piena convertibilità del Franco CFA con l’euro, garantita dal Tesoro francese. Come contropartita alla convertibilità le autorità francesi partecipano alla definizione della politica monetaria della zona CFA.
La zona CFA è divisa in due gruppi: UEMOA per l’Africa Orientale (Benin 154/135, Burkina Faso 156/161, Costa D’Avorio 150/149, Guinea Bissau 165/164, Mali 159/160, Niger 174/167, Senegal 148/144, Togo 171/139), CEMAC per l’Africa Centrale (Camerun 142/131, Centrafrica 175/159, Congo ex francese 118/126, Gabon 55/93, Guinea Equatoriale 47/117, Ciad 141/163).
L’UEMOA potremmo chiamarla la Unione Economica della Miseria: i numeri che ho scritto a fianco degli Stati indicano infatti la disastrosa posizione nella classifica del PIL pro capite e dell’ISU. Solo un po’ meglio il CEMAC (Gabon e Guinea hanno un buon PIL pro capite, ma complessivamente coprono solo il 5% della popolazione per cui non sono molto significativi nell’alzare il livello del CEMAC).
Il dinaro-oro avrebbe spazzato via queste piccole comunità economiche della miseria, integrandole invece in un mercato unico africano.
E’ possibile che Gheddafi abbia visto nelle organizzazioni economico/finanziarie africane la sua forma di protezione: possono distruggere la Libia come hanno distrutto l’Iraq, ma distruggere l’intera Africa è molto più difficile.
E Strauss-Kahn? Si occupava di donne, ma non solo. Si occupava della demonetizzazione mirata del dollaro USA, l’ormai inutile “valuta di riferimento” mondiale: montagne di debiti / crediti in dollari privi di ogni riferimento con la realtà economica degli USA e del mondo. Preparava una carta moneta stampata in proprio dal Fondo Monetario Internazionale.
In fondo aveva le stesse idee di Gheddafi: l’inutilità del dollaro come valuta di riferimento.
2010
La crisi di alcuni paesi europei complica la vita a Strauss-Kahn: adesso c’è da lavorare sia sul fronte del dollaro, sia sul fronte dell’euro. Il “piano Strauss-Kahn” diventa molto più complesso.
Anche in Africa ci sono passaggi decisivi. Nel dicembre 2010 a Yaoundè c’è una votazione importante: il Fondo Monetario Africano, che dovrebbe avviare l’attività nel 2011, respinge le richieste di alcuni paesi occidentali e arabi che hanno chiesto di potervi aderire: membri del Fondo potranno essere solo i paesi africani.
Arriva il 31 dicembre. Tutto è pronto.
2011
Con il 2011 esplode la “primavera araba”. Nulla di spontaneo, ovviamente. Quando la stessa cosa accade in molti paesi contemporaneamente, c’è certamente una regìa globale, un po’ come i “superiori incogniti” che gestirono le rivolte del 1848 in tutta Europa. La regìa globale prepara il terreno e dà fuoco alle micce. Poi ogni paese procede secondo la sua propria via, dando quindi l’impressione che siano rivoluzioni diverse una dall’altra.
Chi lo preferisce, può credere alla favola di Internet che “trasmette” la rivoluzione da un paese all’altro; Internet può fare una sola cosa: procurare la manovalanza per imitazione, una volta che i capi della ribellione sono ben strutturati, ben coordinati, ben coperti sul piano internazionale (finanziario e mediatico).
Cosa vogliono ottenere i gestori della primavera araba? Probabilmente le stesse cose che hanno ottenuto in Iraq e in Afghanistan: un mix di occidentalismo e islamismo. Vertici democratici incapaci di controllare il territorio; gruppi tribali – etnici – religiosi nelle diverse zone del paese a gestire il piccolo potere reale: un mix ideale per chi vuole sfruttare le risorse dall’esterno. Il mix di occidentalismo e islamismo stritola anche la fastidiosa presenza cristiana: l’abbiamo visto in Iraq, lo vedremo tra un po’ in Egitto. Avendo speso troppo in Iraq e in Afghanistan, con guerre decennali e poco efficaci, tentano con un metodo diverso: ribellioni di popolo pilotate dall’esterno.
Nessun dittatore cade per le manifestazioni di piazza. Cade quando vede i suoi gerarchi che gli si rivoltano contro, cade quando viene sfiduciato dagli appoggi internazionali su cui contava. Cadono quindi come birilli Mubarak in Egitto e Ben Alì in Tunisia. E il popolo televisivo attende la caduta del dittatore Gheddafi, l’ovvia caduta di Gheddafi davanti ai “ribelli cirenaici”.
I ribelli cirenaici partono con un’azione un po’ buffa: fondano una banca centrale privata. Ci si aspetta che il loro capo sia un “ribelle libico”, invece mettono come primo ministro il grigio tecnocrate Mahmoud Jibril.
Jibril, in Libia da 4 anni, deve aver verificato sul campo che “privatizzare” non è così facile nella Libia di Gheddafi. Certamente non è riuscito a privatizzare la Banca Centrale Libica, caposaldo delle idee di Gheddafi. Così Jibril ha occupato il suo tempo a tessere delle reti, convincendo funzionari e settori dell’esercito a “prepararsi a un cambio di regime”. Il resto (lavoro sull’ONU, preparazione del piano di attacco, preparazione mediatica) l’hanno fatto USA, Gran Bretagna e Francia.
La rivolta in Libia inizia da subito come guerra civile, preparata dall’estero. La disinformazione parla immediatamente di “genocidio di Gheddafi”: 10.000 morti e 50.000 feriti sparati senza pudore sui media, quando le ostilità erano appena iniziate; si diffondono anche immagini di inesistenti fosse comuni.
Ma evidentemente Gheddafi non è Mubarak e non è Ben Alì. Non cade come un birillo.
L’Italia in guerra
Dopo un mese di ostilità interne libiche, arriva la risoluzione ONU sulla No Fly Zone per la “protezione dei civili”. Neanche il tempo di leggerne il testo: il 19 marzo la coalizione occidentale comincia a scaricare missili su Tripoli. E l’Italia, in violazione della sua Costituzione, è parte attiva nei bombardamenti.
Certamente è parte attiva nelle dichiarazioni. Franco Frattini, Avvenire, 20 marzo 2011: “Andremo avanti fino a quando il regime non verrà rovesciato”. Evidentemente tutto si è svolto così rapidamente da non permettere a Frattini di leggere con calma la risoluzione dell’ONU: nel giro di una notte la farsa della “No Fly Zone” si è già trasformata in un’azione di guerra per rovesciare Gheddafi. Siamo quindi parte attiva in una guerra civile.
Frattini era così pronto e così determinato che dà quasi l’impressione di essere il referente di Mahmoud Jibril in Italia. Cosa impossibile, naturalmente: l’Italia di cui Frattini è ministro ha dei patti di amicizia con la Libia di Gheddafi, non con Jibril.
Ma i cambi di bandiera fanno parte della storia d’Italia.
Uno strano mese di maggio: Bin Laden…
Il 2 maggio si conclude la vicenda di Osama Bin Laden: non stava in una caverna tra le montagne, ma in un attrezzato “compound” in Pakistan. Viene prontamente sepolto in mare, secondo i dettami di un inesistente rito islamico (la sepoltura in mare è consentita solo se l’uomo muore su una barca, senza possibilità di arrivare a terra). Hanno confrontato il suo DNA con quello di una sorella, per accertarsi che fosse davvero lui (Sorella? Figlia di quale moglie? Perché di mogli il padre di Bin Laden ne aveva 11).
Nessuno ha assistito a ciò che è avvenuto all’interno del compound. Obama seguiva in diretta dagli USA, ma (leggo su Avvenire) c’è stato un black out video proprio nei 20-25 minuti cruciali. Pazienza.
Forse Bin Laden è stato ucciso il 2 maggio, forse era già morto, forse il morto era un cugino, forse era prigioniero dei pakistani, forse era protetto dai pakistani, forse… E che altro si può dire se non “forse”? Nessuno ha avuto la possibilità di controlli diretti, nessuno l’avrà mai. L’unica fonte di notizie sono coloro che hanno compiuto l’azione.
Abbiamo una sola certezza: gli USA hanno affermato che Bin Laden non c’è più.
Possono quindi, aggiungo io, concentrarsi sulla “primavera araba”.
…e Strauss-Kahn
Il 14 maggio viene arrestato Dominique Strauss-Kahn, per una storia di sesso.
Immaginate una nuova scena. Una cameriera si rivolge alla direzione del suo albergo o direttamente alla polizia. Afferma di aver subito violenza sessuale dal signore della suite 33. Non ci sono testimoni. Controllano. Alla suite 33 c’è un pezzo grosso europeo, che so, un Draghi, un Sarkozy, un Cameron. E l’ospite deve prendere a breve un aereo che lo riporta in Europa.
Pensate che la polizia si getti sul pezzo grosso e lo arresti? No, prima lo fa andare a casa e poi cerca di indagare. A che scopo esporsi a una figuraccia? Sì, ce l’hanno ripetuto fino alla noia: in USA i metodi della giustizia sono diversi dai nostri, tutelano di più i poveri, i deboli, i discriminati (mi permetto di dubitarne, ma i media dicono così). In realtà c’è un solo caso in cui la polizia si getterebbe sul pezzo grosso: se è già stata allertata per tempo da qualche persona autorevole.
“Quando capiterà una certa cosa a Strauss-Kahn, arrestatelo!”.
Cosa sappiamo di questa vicenda? Che c’è stato un rapporto sessuale tra Strauss-Kahn e la cameriera. Cameriera consenziente secondo Strauss-Kahn. Rapporto violento secondo la cameriera.
I media anche qui non sbagliano un colpo: tutti concordi, si parla solo di sesso; addirittura un giornale nazionale parla in prima pagina di un processo che sarà il confronto tra due diverse visioni del sesso: Francia contro USA. Unica variante: ci sono molti articoli di giornale (tutti uguali tra loro) che descrivono l’appartamento di lusso preso da Strauss-Kahn e signora Sinclair come luogo degli arresti domiciliari.
Mediaticamente è una cosa disgustosa: si occupano di Strauss-Kahn come se avessero arrestato il presidente di una comunità montana. Possibile che a nessuno interessi sapere che attività stava svolgendo il capo del Fondo Monetario Internazionale al momento dell’arresto? Qualche articolo comunque si trova, in inglese. Un testo l’ho fatto tradurre da un’esperta, perché volevo essere sicuro di aver capito bene. Questo il finale.
[…] Il piano era pronto per il lancio il 14 maggio. I funzionari della Federal Reserve avevano invitato Strauss-Kahn a New York, organizzato la trasferta nonché il soggiorno in hotel e messo a punto l’agenda per una revisione finale prima della presentazione pubblica dell’ultimo piano di Strauss-Kahn volto a far confluire il debito USA nel debito europeo, un processo nel quale la Federal Reserve e tutte le sue banche centrali statali, allo stesso modo delle banche centrali europee, sarebbero scomparse. Sappiamo ormai che cosa è successo subito dopo.
La fine delle banche centrali private: era questo il “piano Strauss-Kahn”? Applicava su scala planetaria il pensiero bancario di Gheddafi?
Ma Strauss-Kahn non è più il capo del FMI. A questo punto che venga condannato o assolto non ha più importanza: l’orologio del FMI si è fermato, ed è stato rimesso indietro di molti anni.
Il 28 giugno Christine Lagarde (una che dal 2004 è nella lista delle 100 donne più potenti del mondo) diventa nuovo direttore generale del FMI.
Neanche il tempo di leggere la notizia e il 1 luglio Strauss-Kahn esce dagli arresti domiciliari. Gli sarà restituita la cauzione di 1 milione di dollari, e sbloccati i 5 milioni di garanzia versati dalla signora Sinclair. Improvvisamente gli USA e tutti i media si sono accorti che la cameriera della Guinea non è una testimone credibile.
Finita la farsa, dunque? Ma nemmeno per sogno. Adesso inizia la farsa del “tutti cascano dal pero”, come se la notizia fosse imprevista.
“Non solo per l’opinione pubblica Usa, ma anche per gli esperti di diritto si tratta di un colpo di scena senza precedenti” (L’Unità, 2 luglio 2011).
Colpo di scena senza precedenti… Ma andate a quel paese. E, al solito, anche gli articoli di “fine farsa” sono tutti in fotocopia: Strauss-Kahn ha mangiato pappardelle ai tartufi e bevuto Brunello di Montalcino. Nessuno mette in relazione, ovviamente, il 28 giugno della Lagarde e il 1 luglio di Strauss-Kahn.
Fa un po’ ridere rileggere il grande penalista Fisher lo scorso 6 giugno su “le Figaro”.
(6 giugno 2011 – Le Figaro) Avec quarante-trois ans de pratique du droit criminel derrière lui, le pénaliste américain Ivan Fisher est l’un des ténors du barreau de New York. Il a été avocat de la défense dans de grands procès, comme celui de la «French Connection» ou celui du «banquier du Vatican» Michele Sindona, dans les années 1980. […]
Si vous étiez l’avocat de DSK, quelle serait votre stratégie de défense ?
À ce stade, il semble que Brafman envisage de plaider la rencontre consensuelle. Je ne partage pas du tout cette stratégie. S’en prendre à la victime est sans fondement, ça sent le désespoir. Cela risque d’accroître considérablement les conséquences qui attendent DSK. Une grande défense est fille d’un grand concept. À New York, personne ne croit à cette prétendue relation consensuelle. Tout le monde croit qu’il y a bel et bien eu agression sexuelle. Et la probabilité d’une condamnation est réelle. Le dossier du procureur semble très fort. La défense semble ignorer l’environnement de cette affaire.
Nessuno crede alla relazione consensuale, tutti credono all’aggressione sessuale… E che altro doveva credere la gente? I giornali parlavano tutti in quella direzione.
Adesso invece ci sono giornali che descrivono la cameriera Nasfissatou Diallo detta “Ophelia” come se fosse una prostituta in attività nell’albergo (Ophelia ha denunciato il New York Post per diffamazione).
E tutti si mettono a parlare di complotto, scegliendo le vie più diverse: dai Russi, ai Cinesi, alle future elezioni per la presidenza di Francia. Nessuno parla della cosa più ovvia: l’avvenuta successione ai vertici del Fondo Monetario Internazionale.
I media. Più li conosci, più li eviti.

North Dakota
Torniamo alle cose serie, a quel finale di articolo.
[…] Il piano era pronto per il lancio il 14 maggio. I funzionari della Federal Reserve avevano invitato Strauss-Kahn a New York, organizzato la trasferta nonché il soggiorno in hotel e messo a punto l’agenda per una revisione finale prima della presentazione pubblica dell’ultimo piano di Strauss-Kahn volto a far confluire il debito USA nel debito europeo, un processo nel quale la Federal Reserve e tutte le sue banche centrali statali, allo stesso modo delle banche centrali europee, sarebbero scomparse. Sappiamo ormai che cosa è successo subito dopo.
Nel testo c’è un passaggio che mi colpisce: “La Federal Reserve e tutte le sue banche centrali statali”. Un po’ strano quel “sue”. Perché l’articolista non scrive semplicemente “tutte le banche centrali” dei 50 stati USA?
Perché in USA c’è il North Dakota. E il North Dakota ha la Banca Centrale di proprietà dello Stato. Come la Libia di Gheddafi.
Sono molto utili le tabelle ufficiali USA. Il North Dakota ha il record di milionari in rapporto alla popolazione. E negli Stati Uniti dove il tasso di disoccupazione medio è al 9,6 (con la California al 12,4 e il Nevada, ultimo, a 14,9) il North Dakota ha il tasso di 3,9: il più basso di tutti. Come la Libia di Gheddafi.
Come per la Libia, diranno che la felice situazione del North Dakota dipende dalla scarsa popolazione. Ma è un’idea falsa, perché gli altri stati a bassa popolazione hanno una disoccupazione di 4,8 (South Dakota) 6,2 (Vermont) 7,0 (Wyoming) 7,2 (Montana) 8,0 (Alaska) 8,5 (Delaware).
E’ importantissimo l’esempio del North Dakota. Mostra che l’esperimento della Banca Centrale di Stato non è legata ai regimi dittatoriali. Può esistere anche nei regimi democratici. E funziona bene in Libia come nel cuore degli USA.
Naturalmente il North Dakota, come la Libia di Gheddafi, non ha risentito della crisi del 2008. La solita tabella ufficiale USA mostra 49 stati degli USA in recessione forte o fortissima, e un solo Stato in crescita: non ripeterò il nome per non annoiare.

Una guerra bancaria
In Libia si sta quindi combattendo una guerra bancaria.
E’ la guerra tra le banche centrali private e le banche centrali di Stato. Una guerra che è già stata combattuta in passato, in altri luoghi e in forme diverse, e che nel 2011 ha un primo fronte in Libia e un secondo fronte in Dominique Strauss-Kahn. Questo secondo fronte si è chiuso: il posto di Strauss-Kahn è stato preso dalla signora Lagarde, Ministro dell’Economia, dell’Industria e dell’Impiego del governo Sarkozy: così possiamo dire con certezza che Sarkozy ha agito su entrambi i fronti.
Qualcuno dice che non è così, che la guerra in Libia c’è perché “la Cirenaica è da sempre nemica della Tripolitania”.
Ci hanno riempito le orecchie anche con questa faccenda. Ma se “la Cirenaica è da sempre nemica della Tripolitania”, per quale motivo i cirenaici dovrebbero governare sulla Libia unificata? Si poteva al massimo pensare per i ribelli cirenaici a una soluzione del tipo del Kosovo: uno stato cirenaico staccato dalla Libia; oppure una regione a forte autonomia.
Perché invece Mahmoud Jibril vuole tutta la Libia? Perché solo così potrà azzerare la Banca Centrale di Libia, incamerarne i beni (compresi quelli “congelati” all’estero) e passare il tutto alla Banca Centrale privata di Bengasi.
La Libia deve essere unica, e sottomessa alla Banca Centrale privata di Bengasi. Altrimenti la gente potrebbe in futuro fare dei confronti: vedrebbe la parte sotto il controllo di Gheddafi continuare a prosperare, e la parte cirenaica deperire (calo dell’ISU, emigrazione, disoccupazione) come tutti gli stati del Nord Africa.
Che sia una guerra bancaria lo si nota anche dal modo di agire di Farhat Bengdara (capo della Banca Centrale Libica nonché vicepresidente di Unicredit) quando ha abbandonato Gheddafi ed è passato coi ribelli. Pensate che “passare coi ribelli” significhi trasferirsi in mezzo al deserto, sotto il sole, con un’arma in mano? Ma no, lui rimane negli alberghi e nei salotti, le sue armi sono altre.
In March 2011, the governor of CBL, Farhat Bengdara, resigned and defected to the rebelling side of the Libyan civil war, having first arranged for the bulk of external Libyan assets to be frozen and unavailable to the Gaddafi regime.
Prima Bengdara ha sistemato tutte le cose all’estero, in modo che i vari stati potessero congelare “i beni di Gheddafi”. In realtà erano i beni della Banca Centrale di Libia e del fondo LIA (Libyan Investment Authority): beni controllati da Gheddafi, certamente; ma erano i beni della Libia, non “i beni di Gheddafi”.
Bengdara ha tradito Gheddafi facendo le cose in grande, pronto a diventare il capo della nuova banca centrale privata. Questa è vera guerra, con armi non conosciute dal grande pubblico.
Un po’ più piccine le cose in Italia, ma ugualmente gravi.
Passate al trafiletto successivo.
Il ragionier Lambertoni
Prendo il testo dal tranquillo Avvenire (troppo tranquillo). Venerdì 10 giugno 2011 pubblica un articolo di Barbara Uglietti dal titolo “Libia, modello italiano per gli aiuti ai ribelli”.

Questo “modello italiano” si trova riassunto in un breve trafiletto.
IL PRESTITO
Che cosa sono i “fondi garantiti”
Non sono un regalo i 300-400 milioni di euro in contanti e carburante che l’Italia assicurerà ai ribelli libici. Frattini ha spiegato che si tratta di un prestito “soft”, a condizioni agevolate, su cui comunque il nostro Paese è coperto.
C’è infatti una garanzia rappresentata dalle partecipazioni in società italiane degli enti statali libici (fondi sovrani e Banca centrale) che valgono circa 8 miliardi di dollari e sono state “congelate”. Tra i principale asset dello Stato libico in Italia ci sono quote Unicredit, Fiat, Eni.
Il giornalista che ha scritto il trafiletto mi auguro che quel giorno non fosse in grado di intendere e di volere. Perché, se era in grado di intendere e di volere, è aberrante che sul giornale della Conferenza Episcopale Italiana esca una notizia del genere con un alone di lode e senza una decisa contestazione.
Qualcuno forse ricorda il film “Il vedovo”, con Alberto Sordi.
C’è un personaggio, il ragionier Lambertoni, che gestisce contemporaneamente i soldi della moglie Elvira Almiraghi (Franca Valeri) e i debiti del marito Alberto Nardi (Alberto Sordi).
A un certo punto del film, Nardi decide di uccidere la moglie. E il ragionier Lambertoni, comprendendo che Nardi non ha nessuna possibilità di pagare i suoi debiti, finanzia l’omicidio della signora Elvira.
Quale è il ragionamento di Lambertoni? Semplice: “Se Nardi ammazza la moglie e la fa franca, erediterà le somme della moglie; poiché però parte dei beni della signora Elvira li ho fisicamente in mano io, posso essere certo che i debiti di Nardi saranno ripianati”.
Mettete Jibril e Bengdara al posto di Nardi. Mettete Gheddafi al posto della signora Elvira. Ed ecco che Frattini va al posto del ragionier Lambertoni. Frattini, come Lambertoni, ha in mano i soldi di Gheddafi “congelati” e li usa come garanzia per il prestito che farà ai cirenaici, i quali a loro volta devono far fuori Gheddafi.
Ma Lambertoni sta in un film, mentre Frattini è ministro degli esteri dell’Italia, paese che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Se ripudia la guerra nelle controversie internazionali, la ripudia certamente anche nelle controversie bancarie. Oppure no? Forse al sistema bancario si possono sacrificare le vite umane?
Nardi però finisce male e la signora Elvira si salva… E Lambertoni perderà tutto.
Una guerra mediatica “asimmetrica”
Che possibilità ha Gheddafi di far sentire la sua versione dei fatti in occidente? La risposta è semplice: nessuna.
I giornalisti italiani scrivono solo articoli in fotocopia, basati su lanci di agenzia. Le foto le passa la Reuter. Le immagini internazionali trasmesse in occidente passano quasi tutte negli USA prima della trasmissione. Anche al-Jazeera fa parte della partita. Nessuna possibilità per Gheddafi.
Quindi noi attingiamo le informazioni esclusivamente da una delle parti in guerra.
E così ci ritroviamo:
–    i 10.000 morti e 50.000 feriti dopo una settimana di rivolta; fatte le proporzioni sulla popolazione, sarebbe come avere 100.000 morti e 500.000 feriti in Italia, in 7 giorni. Nessuno si era accorto di niente, fino al lancio di al-Jazeera
–    il falso filmato delle “fosse comuni”: un filmato di un normale cimitero libico, girato alcuni mesi fa
–    gli stupri di massa, immancabili: ci faranno anche vedere un filmato, hanno detto
–    immagini di esplosioni costruite a terra a uso televisivo, fatte passare per bombardamenti dal cielo.
Non va meglio con la Siria:
–    una grossa manifestazione pro Assad in Siria, trasmessa in TV come se fosse una manifestazione contro Assad (pare sia stata la solita al-Jazeera)
–    una manifestazione di 50.000 persone anti Assad a Damasco, mai avvenuta
–    “A gay girl in Damascus” (digitatelo su Google: 3.440.000 siti), la bella Amina Abdallah, lesbica e dissidente da Assad, addirittura imprigionata, era Tom MacMaster, americano, 40 anni, residente a Edimburgo.
Interessante questo articolo:
[…] Chi scrive è stata in contatto e-mail con Amina fino a lunedì, quando ha risposto entusiasta all’aggancio procuratole con una casa editrice italiana interessata alla sua storia. Prima di allora c’erano stati aggiornamenti dettagliati sulle manifestazioni, commenti al discorso al mondo arabo del presidente Obama, una lunga intervista del genere al Guardian e a grandi quotidiani americani: scambi regolari e sempre più intimi al limite dell’amicizia. Virtuale. «Ci scusiamo con i nostri lettori a proposito di Amina Abdallah» annuncia il sito networkedblogs.com iZhIM, il provider americano che la aiutò ad aprire e pubblicizzare l’ormai celebre blog. Secondo le informazioni raccolte la ragazza sarebbe sì una trentacinquenne probabilmente omosessuale con origini mediorientali, ma residente in Scozia. Ci scusiamo anche noi, che pur conoscendo a fondo la Siria per aver raccontato sul campo la nascita della rivolta, dipendiamo ora da informazioni digitali per l’impossibilità di tornare nel Paese. […]
La povera Francesca Paci, su “La Stampa”, con questo brano si scusa per essere cascata nella trappola di Amina; nel frattempo riesce a trasmetterci un’altra balla (la ragazza trentacinquenne era in realtà un maschio quarantenne); ma soprattutto ci comunica la vera notizia: “dipendiamo da informazioni digitali”. Ossia da lanci di agenzia che nessuno ha la possibilità di verificare.
Almeno le “armi di distruzione di massa” dell’Iraq erano una balla solo raccontata. Qui invece le balle ce le fanno anche vedere. Della bella Amina, come delle fosse comuni, c’erano le immagini.
La verità è questa: i media sono del tutto inaffidabili.
E quindi qualunque cosa ci racconteranno in futuro su Gheddafi non siamo obbligati a crederci.
Coincidenze casuali?
La vicenda di Gheddafi è ultraquarantennale.
La vicenda di Osama Bin Laden è decennale, se riferita alle Torri Gemelle, ventennale se riferita alle ostilità con gli USA, trentennale se riferita alla sua attività di ribelle islamico contro i sovietici.
Il “dopo Bretton Woods”, iniziato nel 1971 con la fine della stabilità dei cambi, era una vicenda quarantennale, che Dominque Strauss-Kahn si apprestava a chiudere.
Su queste tre vicende arriva un evento cruciale in contemporanea, nei primi mesi del 2011: guerra civile in Libia, morte in un compound in Afghanistan, presunto stupro in un albergo di New York.
E’ solo un caso questa coincidenza temporale? Non è un caso. Un giornalista in gamba poteva fornire qualche ipotesi di cucitura delle tre vicende. Invece silenzio: niente doveva turbare la assoluta estraneità tra i tre avvenimenti.
L’unica “cucitura” effettuata dai media è stato di chiamare “compound” anche il rifugio di Gheddafi, come se Gheddafi fosse un latitante braccato e non il capo di un esercito in battaglia.

Il tribunale de L’Aja
Poteva mancare la denuncia alla Corte Penale Internazionale de L’Aja?
E tutto a tempo di record: il Procuratore della CPI, Luis Moreno Ocampo, ha impiegato tre giorni per decidere di iniziare le indagini (in tale lasso di tempo avrebbe dovuto valutare tutte le informazioni in suo possesso; la sussistenza della giurisdizione; l’ammissibilità del caso; la sussistenza dell’interesse della giustizia). In soli cinque giorni il Procuratore della CPI ha indicato i nomi delle persone sottoposte a indagine.
Normalmente occorrono anni per la decisione, mesi per le indagini avviate. Qui hanno una fretta indiavolata.
Inoltre la Libia non ha mai sottoscritto né ratificato il Trattato internazionale istitutivo della Corte Penale Internazionale (Statuto di Roma), pertanto tale Trattato non ha alcuna efficacia nei confronti della Libia. E’ evidente dunque che la CPI non ha giurisdizione per i fatti commessi da cittadini libici in Libia e che al Colonnello Gheddafi si applica l’immunità di Capo di Stato in carica, prevista dal diritto internazionale consuetudinario.
Avrete certamente letto queste notizie sul comunicato ufficiale della difesa di Gheddafi.
Oppure no?
Eh, no. Non le avete lette.
In effetti per azzeccarle ci vuole un vero colpo di fortuna.
A oggi (9 luglio 2011) tra i siti in italiano solo 2 (due) pubblicano il comunicato ufficiale della difesa di Gheddafi (avvocato sudafricano Themba Benedict Langa e avvocato italiano Franco Maria Galiani). Su tutto il web la ricerca di “Benedict Langa” + Galiani dà la bellezza di 71 siti. La ricerca “Themba Langa” + Galiani dà 193 siti.
Provate a cercare “Strauss-Kahn” + pappardelle: 2.020.000 siti.
Notizie inutili, ovunque. Notizie importanti, nascoste.
O meglio, coperte dal rumore di fondo.
“Ma i giornali parlano di tutto, my friend. E’ questo il segreto della libera stampa: le informazioni non sono nascoste, sono coperte dal rumore di fondo. Non ci sono segreti, ci sono notizie insignificanti e altre no.”
Mai come oggi bisogna diffidare e ricercare.
“Beatificare” Gheddafi?
Elencare le colpe dell’occidente equivale a “beatificare” Gheddafi? No di certo.
Le colpe di Gheddafi andranno analizzate e dimostrate, come qualità e come quantità. Contemporaneamente andranno analizzati i suoi meriti nei confronti della Libia e dell’Africa.
Assieme alle colpe di Gheddafi, andranno analizzate anche le colpe dell’occidente (i meriti non c’è bisogno di analizzarli: non ne abbiamo).
Tutto questo andrà fatto con i metodi lenti della storia, non con i metodi dell’odio e della disinformazione mediatica; e andrà valutato avendo come termine di paragone l’Africa e gli stati islamici, non il mondo occidentale.
Alla fine andrà adottata la semplice equazione del Gesù di Giovannino Guareschi.
Don Camillo chinò il capo. “Però – borbottò – non sono stato soltanto io a lanciare martelli… Anche lui…”
“Non ha importanza, don Camillo: un cavallo più un cavallo fa due cavalli”.
Le colpe dell’uno non vengono né giustificate né compensate dalle colpe dell’altro.
Le colpe si sommano.
Elencare le colpe non “beatifica” l’avversario.
La verità
Ciò che ho descritto in queste pagine è la verità?
No.
Non si può presumere di avere in mano la verità solo attraverso Internet e il ragionamento.
Diciamo che quello descritto è il recinto sicuro entro il quale sono racchiuse tutte le ipotesi verosimili, recinto che lascia fuori le favole. Ci sono tanti filoni su cui indagare. Ne elenco alcuni.
1) Occorre analizzare i profili di tutti i componenti del Comitato Nazionale di Transizione e di tutti gli uomini forti della “nuova” Libia. Jibril è di fatto uno statunitense, formatosi a Pittsburgh. Bengdara è di fatto un britannico, formatosi a Sheffield. E gli altri? Ali El Sharif, Ali Tarhuni, Abdullah Sharmia,…
2) Come hanno fatto i vari Jibril e Bengdara a entrare in posti chiave della Libia di Gheddafi? Li ha chiamati Gheddafi fidandosi di loro? Erano il prezzo da pagare per togliere l’embargo? O che altro?
3) Come si è svolta materialmente la cosiddetta “rivoluzione del 17 febbraio”? Di quella prima e cruciale settimana noi sappiamo solo delle balle mediatiche, niente di assodato.
4) Come mai i “ribelli cirenaici” hanno scelto come Presidente del CNT proprio Mustafa Abd al-Jalil, ministro della giustizia di Gheddafi, sotto tiro nel 2010 da parte di associazioni come Human Right Watch e Amnesty International?
5) Quali erano i dettagli del “piano Strauss-Kahn”? Il piano era molto complesso e coinvolgeva tutti gli Stati più importanti del mondo. L’essenza del piano è quindi sparsa in tutto il mondo ed è nota a molti.
Mi sbilancio solo sul punto n.3, ossia sulla cosiddetta “rivoluzione del 17 febbraio”. Riporto un pezzo da Avvenire (ma potete leggerlo ovunque, ogni articolo è la fotocopia dell’altro).

Era il 16 febbraio quando, contrariamente a quanto ritenuto improbabile da numerosi analisti specializzati in geopolitica nordafricana, dopo quanto avvenuto già in Tunisia ed Egitto anche una parte della gioventù libica insorgeva contro il regime del colonnello Muammar Gheddafi, reo di aver soffocato per 42 anni qualsiasi voce dissenziente, spenta con le buone o con le cattive. Sotto gli occhi dei media internazionali, l’esercito obbediva agli ordini del clan Gheddafi, reprimendo nel sangue la ribellione, in principio disarmata, di migliaia di cittadini di Bengasi. Il giorno dopo toccava a Beira, sempre in Cirenaica. L’indignazione dell’opinione pubblica mondiale – e i colossali interessi economici, visto che la Libia è il primo produttore di idrocarburi africano, davanti ad Algeria e Nigeria – spingeva infine le Nazioni Unite, a un mese dall’inizio delle violenze, a istituire una no-fly zone… eccetera
Con questo brano Federica Zoia racconta su Avvenire la solita favoletta, ma, senza volere, ci dà anche una notizia: numerosi analisti specializzati in geopolitica nordafricana ritenevano improbabile in Libia un sommovimento simile a quelli di Tunisia ed Egitto. Ovvio, del resto. I tunisini che si diedero fuoco “contro la disoccupazione e il carovita” non potevano esistere in Libia, dove non c’era né disoccupazione né carovita.
In effetti gli analisti avevano ragione: in Libia non c’è stato nessun sommovimento. Il sommovimento era una balla mediatica. Il giro è andato più o meno così.
–    Attorno al 17 febbraio alcuni reparti dell’esercito di Gheddafi, preparati da mesi, decidono di fare per conto loro.
–    Cozzano, per forza di cose, contro reparti fedeli a Gheddafi, e ci sono i primi morti.
–    Il 21 febbraio al-Jalil, ministro della giustizia, abbandona Gheddafi e passa coi ribelli: si può pensare che sia passato con dei “ribelli di piazza”? No, è passato in un gruppo dissidente dove aveva già il suo posto garantito.
–    Il 22 febbraio “sparisce” Bengdara. In realtà è in giro per il mondo per sistemare il congelamento dei beni libici.
–    Il 23 febbraio lo stesso al-Jalil è pronto per un’intervista al giornale svedese Expressen, intervista nella quale ricorda le colpe di Gheddafi per Lockerbie (e questo mi rafforza nella convinzione che Gheddafi NON è il mandante della strage di Lockerbie).
–    Il 24 febbraio la TV del Qatar Al Jazeera spara la cifra dei 10.000 morti e 50.000 feriti. Vengono diffuse le immagini di inesistenti fosse comuni. Si parla di Gheddafi che bombarda la folla con bombe a grappolo.
–    Dopo le notizie di “genocidio”, è facile convocare “gli indignati” in qualche piazza libica, via Internet (non accade così anche in Italia?).
–    Il 27 febbraio al-Jalil è Segretario del Consiglio libico (dal 5 marzo sarà presidente del CNT).
–    Attraverso il Qatar (fornitore sia di armi che di balle mediatiche) e altri stati del golfo arrivano le armi a Bengasi e, da qui, a Misurata.
–    Il 2 marzo “riappare” Bengdara: il lavoro per il congelamento internazionale è finito.
–    Dopo un mese di propaganda mediatica, l’ONU dà il via libera alla farsa della No Fly Zone.

Conclusione
Non si può parlare di conclusione in assoluto, ma concludo questa carrellata con alcuni punti fermi.
1) La guerra giusta può esistere.
2) Una guerra che preveda bombardamenti sulle città è sempre guerra ingiusta.
3) Le “missioni umanitarie” si fanno con truppe di terra, di interposizione.
4) Un missile Tomahawk che viaggia a 880 km/h con 454 kg. di esplosivo, per quanto possa essere “chirurgico”, provoca devastazioni immense: tutto distrutto nel raggio di 50 m., detriti in un raggio di 500 m.
5) I bambini libici non sono diversi dai bambini normali: se sentono un’esplosione, hanno paura. Se muore la mamma o il papà, non sono contenti.
6) Nessuna mamma, nessun papà libico desidera i missili della NATO sulla sua testa.
7)    Colpire un ministero, o un ufficio governativo, o gli edifici di supporto a una raffineria di petrolio è ancora più devastante che colpire le case: oltre a far morire dei civili, si destabilizza la vita ordinata e l’economia di una nazione.
8) TV e giornali su Gheddafi, sulla Libia e sulla guerra ci hanno raccontato solo bugie.
9) La guerra di Libia è una feroce guerra bancaria, organizzata dall’occidente anche attraverso infiltrati libici, guerra nella quale Strauss-Kahn era il secondo fronte.
10) La “archiviazione” di Bin Laden mostra che gli USA vogliono spostarsi sul Mediterraneo.
11) “La rivoluzione di Twitter” non esiste. Esistono in Libia i capi di una guerra civile, in gran parte formatisi in occidente, ed esiste Internet per procacciarsi la manovalanza.
12) Il ritorno in Libia della bandiera di re Idriss, con stella e mezzaluna, non promette niente di buono. Promette il ritorno alla povertà (prima di Gheddafi la Libia era uno dei paesi più poveri del mondo) e promette male per i cristiani.
13) La risoluzione dell’ONU per la No Fly Zone contiene enormi buchi formali e si basa su bufale mediatiche.
14) L’applicazione della risoluzione è diventata di fatto una “licenza di uccidere”.
15) La Corte Penale Internazionale ha agito come “braccio giuridico” del braccio armato già operante.
16) La Francia (vedi Le Figaro) ha finalmente ammesso l’invio diretto di armi ai cirenaici (prima lo faceva attraverso il Qatar).
17) Volenti o nolenti, l’Italia è in guerra, e nemmeno ce ne accorgiamo.
18) Gheddafi ha dato mandato all’avv. Laura Barberio ed all’avv. Fabio Maria Galiani di presentare un’istanza alla Corte Penale Internazionale affinché indaghi sull’uso di armi contenenti uranio impoverito da parte delle forze militari della NATO in Libia e sull’uccisione ed il ferimento di civili libici, tra i quali il figlio ed i nipoti del Colonnello Gheddafi, mediante bombardamenti da parte delle forze NATO, al fine di procedere per crimini di guerra contro coloro ritenuti responsabili di tali fatti. (I fatti sono veri. Scommettiamo però che la NATO sarà assolta?)
Un’Ave Maria per Gheddafi e per la Libia.
Un Requiem per la stampa italiana (e non solo italiana).
Giovanni Lazzaretti

APPENDICE

La piccola guerra di contorno
L’altra storia africana del 2011, fuori dai riflettori, recita così: alle elezioni presidenziali del 2010 vanno al ballottaggio Gbagbo e Ouattara. Vince Ouattara col 54,1%. Gbagbo fa annullare molte schede e si dichiara rieletto. L’ONU e la comunità internazionale riconoscono Ouattara. E’ guerra civile, finché l’11 aprile Gbagbo cede e viene arrestato.
Forse è andata così. Ma le elezioni “democratiche” qualche buco l’avevano. Passo la parola al Giornale.
[…] Nonostante l’Onu, gli osservatori elettorali e la comunità internazionale concordino nel ritenere Outtara il vincitore delle elezioni, permangono ancora molti dubbi su quanto è accaduto.
Tralasciando il fatto che Outtara è cittadino del Burkina Faso (proprio per tale motivo non potè partecipare alle precedenti elezioni, poi gli è stata concessa la cittadinanza ivoriana) e che gode del robusto sostegno economico francese e statunitense, le elezioni del 2010 si sono tenute con un paese che, nelle zone settentrionali, era ancora occupato da mercenari armati provenienti da paesi stranieri.
Inoltre i documenti per poter votare sono stati consegnati a poco più di cinque milioni di persone, su una popolazione di 21 milioni. Paradossalmente non si sono potuti recare alle urne – perché privi delle carte necessarie – molti prefetti e funzionari di Stato ed alcuni esponenti politici.
Difficile non tenere conto di queste “stranezze”, che pure la comunità internazionale non ha voluto prendere in considerazione pur di sbarazzarsi di Gbagbo. […]
Forse è andata come ci raccontano. O forse Gbagbo aveva intenzione di uscire dal Franco CFA.
Da diverso tempo, alcuni ambienti intellettuali del paese sollevano la necessità di lasciare il franco Cfa. L’attuale crisi politica del paese sarebbe, per loro, un’opportunità da cogliere.
La valuta è, infatti, considerata dagli stessi ambienti uno strumento che agisce contro gli interessi dei paesi africani che la usano. Gli effetti negativi di questa moneta, creata dalla Francia per le sue ex colonie, sono stati oggetto di uno studio recentemente pubblicato: Le Franç CFA et l’Euro contre l’Afrique (edizioni Menaibuc).
L’autore, l’ivoriano Nicolas Agbohou, spiega, tra le altre cose, come uno dei principi che governa il Cfa costringa i paesi africani a versare in un conto nel tesoro francese, la metà dei guadagni realizzati nel commercio internazionale. (da Nigrizia, febbraio 2011)
La Francia non regala nulla.
Tutti i paesi CFA (quelli dell’unione economica della miseria) partecipano al fondo comune di riserva di moneta estera (il Tesoro francese si fa garante del cambio monetario attraverso una buona dose di depositi altrui, obbligatori).
Se Gbagbo voleva uscire dal CFA, era da stendere subito, con le stesse tecniche usate con Gheddafi: soffocamento finanziario, appoggio totale dei media per il suo avversario, pronto “riconoscimento” di Ouattara da parte della comunità internazionale. E armi, naturalmente.
Ma quella della Costa D’Avorio è solo una storia di contorno…

Lockerbie
Il 21 dicembre 1988 un aereo della Pan Am esplode in volo sui cieli della Scozia: muoiono 259 persone dell’aereo e 11 abitanti di Lockerbie, disintegrati assieme alle loro case.
I sospetti vanno subito all’Iran di Khomeini. Il 3 luglio dello stesso anno, infatti, con un missile lanciato dall’incrociatore lanciamissili Vincennes gli USA avevano, “per un tragico errore”, abbattuto un Airbus iraniano con 290 persone a bordo.
Dopo tre anni di indagini vengono invece individuati come possibili responsabili due libici: Ali al Megrahi (capo della sicurezza delle Libyan Airways a Londra) e Khalifa Fhimah (responsabile della Libyan Airways a Malta). Non ci sono trattati per l’estradizione tra Gran Bretagna e Libia, e Gheddafi si rifiuta di consegnare i due sospettati.
Nel 1992 l’ONU decreta l’embargo contro la Libia, ma Gheddafi regge il colpo per ben 7 anni.
Il 5 aprile 1999 i due libici vengono consegnati a un funzionario ONU a Tripoli, dopo che Gheddafi ha ottenuto garanzie su un processo equo e controllato da osservatori internazionali.
I due libici vengono portati nella base di Camp Zeist in Olanda, per uno dei processi più insoliti della storia: una corte scozzese che opera in terreno neutrale, in una base ceduta dagli USA alla Gran Bretagna.
L’embargo ONU viene sospeso (sarà poi tolto nel 2003).
Il processo di Camp Zeist si conclude il 31 gennaio 2001 con la condanna all’ergastolo di Al Megrahi e con l’assoluzione di Fhimah. Tutto a posto quindi? Beh, non proprio.
According to a report by the BBC, Dr Hans Kochler, one of the UN observers at the trial, expressed serious doubts about the fairness of the proceedings and spoke of a “spectacular miscarriage of justice”.
Per questo “spettacolare errore giudiziario” Al Megrahi fa un primo ricorso, che viene respinto il 14 marzo 2002.
Nel 2003 la Libia completa i risarcimenti alle famiglie delle vittime.
Nel 2003 un ex agente della CIA dichiara che le prove contro il libico furono costruite a tavolino. Stessa cosa ribadisce un ufficiale di polizia scozzese in pensione, nel 2005.
Al Megrahi intanto riesce a far svolgere una contro indagine, così efficace da convincere la Corte Penale di Revisione scozzese a riaprire il caso.
Il processo doveva ripartire il 27 aprile 2009; la corte però chiede 12 mesi di rinvio, per la complessità del caso e per la mole di documenti portata da Al Megrahi. Il 20 agosto 2009 Al Megrahi viene scarcerato e rimandato in Libia per motivi umanitari: ha un tumore in fase terminale. Per poter essere liberato deve però rinunciare al processo di appello.
A tutt’oggi è vivo e vegeto.
Il dubbio concreto è che il processo di appello, celebrato a grande distanza dai fatti e con un clima diverso tra occidente e Libia, avrebbe rivelato l’ovvio: che le prove erano risibili.
Un frammento di vestito di bambina, vestito che forse aveva avvolto l’esplosivo, frammento che portava ancora intatta l’etichetta di un negozio di Malta, negoziante di Malta che si ricordava un uomo di aspetto libico che aveva acquistato vestiti da bambini il 7 dicembre 2008, è un colpo di fortuna forse eccessivo anche per gente in gamba come l’FBI.
Se Al Megrahi, come probabile, avesse vinto il processo di appello si sarebbe dovuto ammettere che l’ONU aveva esagerato decretando quell’embargo per due sospettati innocenti (non per due colpevoli!). E a Gheddafi dovevano anche essere restituiti i risarcimenti fatti alle vittime.
“I libici accolgono il ritorno del terrorista come se fosse un eroe”: suonavano un po’ così i titoli di giornali nell’agosto del 2009. Eroe forse no, ma che Al Megrahi sia stato un capro espiatorio è ben possibile.
E quindi ciò che dice Al Jalil (presidente del CNT dei “ribelli cirenaici”) sulla responsabilità di Gheddafi nell’attentato di Lockerbie è la solita bufala mediatica a orologeria. Se Khalifa Fhimah era innocente da subito e Ali al Megrahi così innocente che lo mandano a casa come “malato terminale” pur di non fargli il processo di appello, come si fa a dimostrare la responsabilità di Gheddafi?
Tutto è possibile al mondo. E’ anche possibile che Gheddafi fosse il colpevole. Ma se dovessi giocare 1000 euro, li punterei sulla responsabilità di qualcun altro (perché comunque qualcuno ce l’ha pur messa quella bomba).

dello stesso autore leggi anche LIBIA – UNA GUERRA BANCARIA