L’incidenza di giudizio della Chiesa nel sociale sostituita dal facile sociologismo di denuncia

Che fine ha fatto la dottrina sociale?

Fonte: Mario Bozzi Sentieri

Sulla scia della Rivoluzione Industriale, la Chiesa Cattolica ha elaborato, nel corso degli anni,  un’organica dottrina sociale, in grado di fissare principi, insegnamenti e teorie rispetto  ai problemi di natura sociale ed economica del mondo contemporaneo. Al fondo l’idea che debba essere la Dottrina a guidare e giudicare la prassi socio-economico-politica, non viceversa.

In realtà, i recenti orientamenti cattolici sembrano guardare più alla denuncia sociologica che all’elaborazione di efficaci contromisure, come era stato nel passato, a partire dall’Enciclica “Rerum Novarum” (1891) emanata da Leone XIII, frutto di un complesso lavorio intellettuale, che aveva coinvolto la cultura cattolica dell’epoca,  alternativa al giacobinismo e alla rivoluzione liberal-borghese.  Centrale in quel “progetto”  il ricostruito ordine corporativo,   inteso   – per dirla con Giuseppe Toniolo, il maggiore esponente del pensiero cattolico sociale di fine Ottocento  – non certo con finalità di mera restaurazione, ma quale strumento rappresentativo della società reale, dalla famiglia al Comune alle professioni.

Le encicliche seguenti la “Rerum novarum” si sono mosse su questa linea di pensiero, ribadendo sempre la centralità  dell’integrazione sociale e della partecipazione del lavoratore alla gestione dell’azienda.

L’impressione è che, oggi, questa ricca tradizione sociale e culturale sia non sufficientemente valorizzata e divulgata dalla stessa Chiesa Cattolica,  nel segno di un facile sociologismo di denuncia, impegnato a stigmatizzare l’ambivalenza dell’economia globalizzata, ma poco propenso a dare soluzioni.  “Da una parte, mai come in questi anni – ha dichiarato Papa Francesco – l’economia ha consentito a miliardi di persone di affacciarsi al benessere, ai diritti, a una migliore salute e a molto altro. Al contempo, l’economia e i mercati hanno avuto un ruolo nello sfruttamento eccessivo delle risorse comuni, nell’aumento delle disuguaglianze e nel deterioramento del pianeta. Quindi una sua valutazione etica e spirituale deve sapersi muovere in questa ambivalenza, che emerge in contesti sempre più complessi”.

In questo contesto, il ruolo della Chiesa sembra sempre più simile a quello di una ONG con finalità assistenziali piuttosto che espressione di un chiaro progetto alternativo, in grado di informare gli assetti produttivi.

E’ un peccato che ciò non avvenga, particolarmente oggi, allorché, in una fase di profonde trasformazioni economiche e sociali, si sente particolarmente la mancanza di organiche indicazioni costruttive e ricostruttive, che  riescano a ridare nuova consapevolezza ai lavoratori; che sappiano declinare, sul piano degli istituti rappresentativi (a livello di azienda e di sistema Paese), il richiamo a principi extraeconomici; che indichino realistici meccanismi ridistributivi; che ridiano centralità ai corpi sociali, sfibrati da una sistematica opera di disintermediazione.

L’auspicio è che dai principi e dalle denuncie  si passi alla realtà dura del lavoro quotidiano, finalmente affrancato dagli eccessi del mercato, della globalizzazione incontrollata, della precarietà cronica.

Come ha ammonito Giovanni Paolo II, nella Centesimus Annus (1991), in piena continuità con la “Rerum Novarum”,  “Si può giustamente parlare di lotta contro un sistema economico, inteso come metodo che assicura l’assoluta prevalenza del capitale, del possesso degli strumenti di produzione e della terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell’uomo. A questa lotta contro un tale sistema non si pone, come modello alternativo, il sistema socialista, che di fatto risulta essere un capitalismo di stato, ma una società del lavoro libero, dell’impresa e della partecipazione. Essa non si oppone al mercato, ma chiede che sia opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la società”.

A questo “controllo”, non solo etico, la Chiesa dovrebbe avere ancora il coraggio di  appellarsi, proprio nel nome del mai abbastanza ricordato modello partecipativo: ben più di uno slogan o di un mito suggestivo, ma una concreta prospettiva per ricostruire l’auspicata integrazione sociale, vera emergenza di un mondo spaccato a metà, tra chi  ha molto e chi stenta a vivere.

 

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