Gli sviluppi recenti in Siria hanno spinto l’Iraq a riconsiderare la propria posizione sul ritiro delle truppe americane dal territorio nazionale. In precedenza, Baghdad aveva insistito sulla loro completa rimozione, influenzata dalle pressioni di Teheran e dalle tensioni culminate con l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad nel gennaio 2020. Tuttavia, la caduta improvvisa del regime di Bashar al-Assad – un evento che, per la sua rapidità, appare sapientemente orchestrato e ha sollevato numerose speculazioni geopolitiche – ha cambiato radicalmente il contesto. L’aumento dell’instabilità regionale ha spinto l’Iraq a fare affidamento sul sostegno militare occidentale, una necessità resa evidente, secondo quanto riportato dai media americani e dal portale Al Arabia News, per affrontare le nuove minacce emergenti.
Presenza militare americana in Iraq e Siria
Il Pentagono ha recentemente aumentato il numero delle truppe americane in Siria e Iraq, anche se non rivela il numero esatto per ragioni di sicurezza e diplomazia. Attualmente, oltre ai 2.500 soldati già presenti in Iraq, sono state dispiegate ulteriori unità. Il portavoce del Pentagono, il Magg. Gen. Pat Ryder, ha spiegato che questi rinforzi sono stati inviati per affrontare la crescente minaccia derivante dal rovesciamento del regime siriano. Tuttavia, ha sottolineato che ulteriori dettagli non possono essere divulgati.
Secondo il quotidiano Al-Akhbar, anche le milizie sciite irachene, come il gruppo Al-Nujaba, sembrano aver adottato un atteggiamento più conciliante verso gli Stati Uniti, sospendendo il lancio di missili e droni verso Israele come gesto di apertura. Questo passo potrebbe essere interpretato come un tentativo di Baghdad di stabilizzare le relazioni con Washington.
Il contesto storico e i negoziati recenti
Le richieste per il ritiro delle truppe straniere dall’Iraq risalgono al 2020, quando il parlamento iracheno approvò una risoluzione in tal senso dopo l’attacco che uccise Soleimani. Successivamente, il primo ministro Mohammed Sudani creò un comitato speciale per accelerare il processo di ritiro. Tuttavia, la proposta ottenne il sostegno di soli 100 deputati su 329, dimostrando la frammentazione politica del Paese.
L’amministrazione Biden, nel 2021, annunciò la fine della missione militare americana in Iraq, riformulando il ruolo degli Stati Uniti come consulenti e formatori per le forze di sicurezza locali. Nel gennaio 2024, Baghdad e Washington avviarono un ciclo di negoziati per valutare il futuro della coalizione americana. Le discussioni prevedevano la creazione di gruppi di lavoro per analizzare la minaccia dei militanti, la stabilità regionale e la capacità operativa delle forze armate irachene. Si era inizialmente concordato un piano per ritirare le truppe americane entro settembre 2024, mantenendo però alcuni consiglieri militari.
Il ruolo dell’instabilità regionale
La caduta del regime di Bashar al-Assad ha profondamente alterato il panorama geopolitico della regione, alimentando le preoccupazioni di Baghdad per un possibile aumento della destabilizzazione interna. Il vuoto di potere lasciato in Siria potrebbe riattivare le cellule dormienti di Daesh, ancora presenti in Iraq, per ritentare di rimettere in atto il vecchio progetto dello stato Islamico o Califfato. Nel contempo, è importante sottolineare che l’ISIS, non è un fenomeno autonomo. Ma che è fenomeno emerso solo dopo l’intervento americano in Iraq: è quindi strettamente legato alla presenza statunitense nella regione. Un dato emblematico è che figure chiave come Abu Bakr al-Baghdadi, ex leader dell’ISIS, e Abu Mohammad al-Julani, attuale leader di un gruppo siriano affiliato ad al-Qaeda, siano passati per le carceri irachene gestite dagli Stati Uniti.
Indipendentemente da come si siano sviluppati gli eventi, è un fatto che il ritiro delle truppe americane nel 2011 abbia agevolato l’ascesa fulminea dell’ISIS, portando questa organizzazione a minacciare direttamente Baghdad. Nonostante le critiche e l’apparente contraddizione in un contesto di caos diffuso, l’attuale presenza americana, per quanto limitata, è oggi percepita come il male minore, fungendo da garanzia simbolica di stabilità.
Il cambio di potere in Siria, inoltre, ha ridistribuito gli equilibri di influenza in Medio Oriente, rendendo la situazione attuale estremamente fragile e suscettibile a ulteriori cambiamenti inattesi. Sebbene l’Iraq abbia registrato una crescita economica negli ultimi anni, rimane politicamente e socialmente vulnerabile. Questa fragilità implica che una nuova ondata di destabilizzazione potrebbe favorire il ritorno di gruppi radicali, come avvenne nel 2014-2015 con la presa di Mosul da parte dell’ISIS, dimostrando quanto il paese resti esposto a gravi minacce.
Le prospettive future
Con l’aumento delle minacce regionali e l’instabilità politica interna, Baghdad sembra pronta a richiedere formalmente un’estensione della presenza americana. Sebbene l’Iraq abbia cercato di rafforzare le proprie forze armate, il Ministero della Difesa iracheno ammette che le forze locali non possono garantire pienamente la sicurezza del Paese senza supporto internazionale. Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno lavorando a un accordo bilaterale per ridefinire la loro presenza, tenendo conto della minaccia persistente dei militanti di Daesh e della complessa situazione geopolitica.
In sintesi, la situazione in Siria e Iraq evidenzia come i cambiamenti regionali possano influenzare profondamente le decisioni strategiche di Baghdad. La presenza americana, nonostante le polemiche, continua a rappresentare un elemento cruciale per la stabilità del Medio Oriente.
Ma non siamo ingenui: quanti problemi risolti in un attimo per gli USA in medioriente! In realtà ciò evidenzia solo che gli USA sono il maggior elemento destabilizzatore e che attenta la sovranità degli Stati. I problemi che risolvono li hanno creati. E sono così grandi da rendere la propria presenza indispensabile perchè le situazioni non peggiorino.
Crei i problemi e ti offri di risolverli. Semplice.