fonte: Sibialiria
Che si fa quando anche l’ipereazionario, ma incontrollabile Trump e altri candidati alla Presidenza Usa dichiarano che gli USA, già creatori dell’Isis/Daesh, continuano a finanziarlo? Ovvio: si da’ in pasto al pubblico una davvero strampalata “ricerca economica” che pretende di dimostrare come oggi l’Isis non abbia bisogno di sponsor in quanto si “autofinanzia”.
La pubblica “Il Fatto Quotidiano” e la scrive Gianni Rosini, attingendo interi brani dal Report “Islamic state: the economy-based terrorist funding” – redatto da due personaggi ben noti alle cronache: Jean-Charles Brisard e Guillame Dasquié – pubblicato nel 2014; ad appena un anno, cioè, dalla scesa in campo dell’ISIS (nata come entità autonoma nella primavera 2013). Ed in un solo anno, a detta del Report, l’Isis sarebbe stata capace di strutturarsi in una entità statale, dotata di una autonoma rete commerciale e fiscale e, soprattutto, di un, se pur rassegnato. “consenso”. Una tesi questa riproposta pedissequamente dalla “ricerca” pubblicata da “Il Fatto”:
“Come in una qualsiasi organizzazione statale, gli uomini di al-Baghdadi impongono tasse sulle proprietà, sui servizi, i beni di prima necessità e sulle operazioni commerciali.” (…) “Tra i tanti fattori che lo rendono così potente, non solo economicamente, e indipendente dalle donazioni estere (nostra sottolineatura n.d.r.) c’è la sua stessa natura. Il Califfato possiede caratteristiche tali da essere assimilato a uno Stato: controlla un territorio all’interno del quale riesce ad amministrare la vita di milioni di persone, imponendo leggi, offrendo servizi e obbligando gli abitanti a pagare tasse.” Affermazioni queste “attestate” dalle numerose “foto di vita quotidiana” che corredano il servizio pubblicato da “Il Fatto Quotidiano”. Tra queste, un’aula scolastica piena di sorridenti bambine: una, addirittura con il suo smartphone in evidenza sul banco.
Ma inoltriamoci nella disamina del testo.
“Circa la metà delle entrate totali dello Stato Islamico provengono da tasse, dazi ed estorsioni imposte alla popolazione locale.” Certo, ci sarebbe da domandarsi cosa – pur con mezzi efferati, come i sequestri – l’Isis potrebbe spremere da una popolazione e da una società, come – ad esempio – quella siriana, oggi ridotta alla fame. Ma la questione non si direbbe sfiorare l’autore della “ricerca”. Stessa reticenza quando accenna all’altra fonte di sostentamento dell’Isis: le esportazioni (petrolio, opere d’arte, fosfati, cemento…) per le quali non spende neanche un rigo per indicare gli acquirenti o chi fornisce i facilitatori di queste esportazioni (ad esempio, esperti d’impianti petroliferi per rimpiazzare quelli uccisi o scappati, autisti di autobotti, banche…).
In compenso, l’autore, tra i sistemi utilizzati dell’Isis per arricchirsi, ci illumina sulle tangenti ai trafficanti di eroina (ma perché mai i trafficanti, dall’Afghanistan, dovrebbero passare proprio per il Califfato?); sul “traffico di organi” (ma come verrebbero trasportati, nel giro di qualche ora, da un qualche deserto siriano o irakeno fino alle metropoli occidentali?); sulla “vendita delle donne da dare in spose ai combattenti” (ma con quali soldi questi le pagherebbero?); sulla produzione di Captagon (una anfetamina prodotta – più o meno, alla luce del sole – dappertutto in Medio Oriente e nell’Europa dell’Est e che, addirittura, frutterebbe all’Isis “un miliardo di dollari”).
Ma sorvolando su evidenti assurdità (come “…Un’ampia fetta del petrolio estratto viene riutilizzato dallo Stato Islamico per costruire infrastrutture, come strade asfaltate”) o cifre buttate lì a caso (“323 milioni di dollari dal traffico di profughi”) occupiamoci della faccenda più scabrosa e cioè i soldi che arrivano all’Isis dall’estero. Anzi, arrivavano; in quanto, per l’autore della “ricerca”: “Le donazioni estere in favore dello Stato Islamico rappresentano solo una minima parte degli introiti dell’organizzazione terroristica, ma hanno ricoperto una particolare importanza soprattutto agli albori del movimento, quando il Califfato e la sua economia ancora non esistevano. Tra il 2013 e il 2014 lo Stato Islamico ha ricevuto 40 milioni di dollari da sostenitori in Arabia Saudita, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi.”
Tutto qui? Solo 40 milioni di dollari? Eppure, persino il Dipartimento del Tesoro Usa ha dovuto rivelare ben altre cifre. Del resto, basterebbe fare due conti su quanto costa la flotta di fuoristrada Toyota nuovi di zecca o batterie di missili mai viste prima in Medio Oriente per rendersi conto dell’assurdità dei “40 milioni di dollari”.
E, soprattutto, delle modalità con le quali – secondo l’autore – sarebbero stati raccolti la maggioranza di questi soldi: il crowdfunding sul web. “Il crowdfunding si sviluppa anche online, soprattutto sui social preferiti dai jihadisti, come Twitter, WhatsApp, Facebook o Telegram. I miliziani cercano di attirare il maggior numero di donazioni spiegando ai simpatizzanti cosa può essere fatto grazie alla cifra donata.
Dall’acquisto di un fucile alle forniture di munizioni per una brigata di combattenti, dal finanziamento dei campi d’addestramento alle forniture di cibo e medicinali, l’idea di dare un contributo concreto stimola i simpatizzanti a donare i propri soldi.”
Che l’Isis utilizzi la Rete (anche grazie alla diffusione dei suoi proclami e di efferati video, garantiti dalla SITE dell’israeliana Rita Katz) è fuori discussione; ma che, tramite Facebook e altri social, organizzi crowdfunding per comprare armi e munizioni è una panzana che può essere divulgata solo da media come “Il Fatto Quotidiano”; giornale che supera addirittura “Repubblica” o il “Corriere” nella pretesa di imporre una guerra a tutti i costi. Anche a costo del ridicolo.
Francesco Santoianni
Si ringrazia Patrick Boylan per i suoi suggerimenti
Questo articolo esce in contemporanea su Sibialiria e l’Antidiplomatico