Giorgia Meloni sostiene che non è compito dello stato produrre ricchezza. Lo ha detto nel suo libro e lo ha ripetuto implicitamente quando ha tolto il bonus 110 sulle ristrutturazioni edilizie. Andrea Boitani su “Etica Economia” stigmatizza l’errore di fondo della Premier.
Nel suo libro Io sono Giorgia, la premier italiana Giorgia Meloni scrive (a p. 131): “Se c’è una cosa che so, è che la ricchezza non la crea lo Stato. La creano le imprese e i lavoratori”. Qualcuno potrebbe pensare si tratti di una blanda professione di fede liberista, sostanzialmente di facciata. E che i primi atti del governo presieduto dall’ on. Meloni vadano nella direzione di un riaffermato colbertismo. L’affermazione, però, è stata ripetuta quasi alla lettera nell’intervista concessa al direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana (29 novembre 2022). Probabilmente, esprime una convinzione radicata. E le convinzioni ripetutamente espresse dai dirigenti politici hanno un peso, visto che tendono a plasmare il senso comune e, prima o poi, a orientare l’azione. Certo, si tratta di una tesi semplice e chiara: i ruoli e i compiti delle imprese e dei lavoratori da un lato e quelli dello Stato dall’altro sono nettamente distinti. “Lo Stato – aggiunge la presidente Meloni – può al massimo redistribuire una parte di quella ricchezza, ma deve mettere chi può crearla in condizione di farlo nel modo migliore”.
La contabilità nazionale
Per quanto accattivante e, forse, perfino ovvio per una parte dell’opinione pubblica, che lo Stato non crei la ricchezza è un’affermazione problematica. Innanzitutto, bisognerebbe sapere cosa intenda l’on. Meloni con la parola “ricchezza”. Qui di seguito si proverà ad esplorare alcune possibilità. Dalla contabilità nazionale sappiamo che lo Stato, anzi la pubblica amministrazione in senso ampio (PA), contribuisce direttamente alla produzione annuale di Pil, ovvero di valore aggiunto e, quindi, di reddito, che nel linguaggio comune è spesso identificato con la “ricchezza” di un paese. In Italia, tale contributo si aggira da anni intorno al 20% del Pil. Esso comprende gli acquisti di beni e servizi finali da parte della PA e gli stipendi dei dipendenti pubblici che producono servizi come la giustizia, l’istruzione e la ricerca, la sicurezza, la sanità, la difesa, ecc.
Naturalmente, la PA eroga anche trasferimenti ai cittadini e alle imprese (sussidi, incentivi, indennità, pensioni, interessi sui titoli del debito pubblico…). Queste erogazioni erano pari al 35,6% del Pil nel 2021. Secondo le regole (internazionalmente accettate) della contabilità nazionale, esse non costituiscono direttamente Pil ma vi contribuiscono, alimentando i redditi e quindi la spesa privata per consumi e investimenti, che costituisce la maggior parte del Pil. Nella redistribuzione i trasferimenti hanno una parte importante come ce l’ha (o ce la dovrebbe avere) un sistema tributario ricostruito su basi unitarie e depurato dall’endemica evasione fiscale. Ma, come detto, lo Stato non fa solo redistribuzione.
La spesa sociale
Stabilito che i principi e i numeri della contabilità nazionale non sorreggono la tesi della on. Meloni, se per “ricchezza” si intende il Pil, si può guardare alla ricchezza come “benessere”, cercando di capire al benessere di chi e a quali dimensioni del benessere ci si debba riferire. Gli economisti sono pressoché unanimi nel riconoscere che la difesa, le infrastrutture, l’istruzione e la ricerca pubblica, le assicurazioni sociali, la tutela della salute hanno fornito e tuttora forniscono contributi essenziali non soltanto alla futura produzione di Pil ma anche al benessere sociale inteso in senso più ampio. Mentre per la difesa e le infrastrutture (che fruttano vantaggiose commesse alle imprese) il mondo degli affari è ben disposto a riconoscere che esse producono ricchezza-benessere, spesso le spese di natura più marcatamente sociale vengono additate come un peso, un costo per la collettività.
La dottrina per cui la spesa sociale è un peso sugli operatori di mercato fu considerata una “fallacia degli uomini d’affari” già nel 1931 dallo storico e statistico inglese Richard H. Tawney. La spesa per servizi sociali ha un peso significativo nel definire condizioni di pari opportunità effettive, per le quali non basta la redistribuzione tramite i trasferimenti monetari. È perciò un pilastro della giustizia sociale. Ma tale spesa può contribuire anche alla crescita del capitale umano e sociale e alla resilienza delle economie. Persone più sane, più istruite e più protette «dai venti del caso e dagli uragani del disastro» (per usare l’espressione del Presidente americano F.D. Roosevelt), producono maggiore e migliore ricchezza, nella sfera privata e in quella pubblica.
La ricchezza non è fatta solo di beni e servizi il cui valore rientri nel Pil in base alla disponibilità a pagare degli agenti economici. Esiste una ricchezza non appropriabile ma piuttosto comune all’umanità o, quantomeno, alle comunità che la costituiscono. Una base di vita dignitosa e condivisa è parte di questa ricchezza che contribuisce a definire la ‘qualità sociale’ (come avrebbe detto Giorgio Ruffolo). Per produrla è essenziale il pagamento delle imposte, che quindi non hanno solo un ruolo redistributivo ma anche il ruolo di ‘carburante’ necessario alla produzione di ‘qualità sociale’.
Investimenti pubblici, formazione di capitale e crescita economica
C’è un’altra accezione possibile di “ricchezza” che vale la pena di esaminare. Secondo tale accezione, la crescita della ricchezza è identificabile con la crescita economica. E così è chiamato in ballo il ruolo degli investimenti per la crescita. Dal contributo di David Aschauer (“Does public capital crowd out private capital?”, Journal of Monetary Economics,1989, pp. 171-188) è noto che, se il capitale pubblico e quello privato sono complementari (come nel caso di strade che collegano tra loro imprese o ferrovie che riducono i tempi di trasporto tra grandi centri finanziari e/o amministrativi), un più alto livello di investimento pubblico può stimolare l’investimento privato. Al contrario, se capitale pubblico e privato sono tra loro sostituti – come nel caso di investimenti in imprese pubbliche che non generano specifiche esternalità positive (si pensi agli storici “panettoni di stato”) – un aumento degli investimenti pubblici porterà allo spiazzamento (parziale o completo) degli investimenti privati. Chiaramente, le infrastrutture sono il tipico capitale pubblico complementare con quello privato
Tuttavia, l’evidenza empirica sull’impatto che gli investimenti pubblici infrastrutturali hanno sulla crescita è variegata. Il dibattito pubblico riflette tale diversità di risultati e anche una certa confusione circa i canali e i meccanismi di influenza degli investimenti pubblici sulla crescita. Che ruolo gioca l’efficienza degli investimenti pubblici? Un recente contributo della World Bank aiuta a porre la questione in termini corretti e, al tempo stesso, offre un semplice modello, risolvibile con Excel, per valutare l’impatto (paese per paese) di variazioni del grado di efficienza oltre che del volume di investimenti infrastrutturali. Quella proposta è una estensione del classico modello di Solow-Swan, in cui il capitale pubblico entra nella funzione di produzione attraverso i servizi che genera. Poiché è escluso qualsiasi effetto dal lato della domanda il modello non è di ispirazione Keynesiana.
Da questo modello risulta che l’impatto degli investimenti pubblici sulla crescita economica dipende dalla loro efficienza. Non solo nel senso che una maggior efficienza degli investimenti dà maggiori benefici in termini di crescita ma anche nel senso, più sottile, che investimenti inefficienti nel passato hanno dato luogo a una inadeguata dotazione di capitale pubblico per qualità e composizione, così che nuovi investimenti, più efficienti, avranno elevati rendimenti (al margine). Sostituire infrastrutture pubbliche vecchie e inefficienti con nuove ed efficienti avrà perciò impatti ampiamente positivi sulla crescita.
Non di soli investimenti infrastrutturali è fatto il contributo dello Stato alla crescita della ricchezza. Secondo un noto rapporto dell’Ocse, gli investimenti più redditizi in termini di crescita sono quelli per strutture sanitarie (ospedali e loro attrezzature), quelli per ricerca e sviluppo, quelli per la formazione di capitale umano (istruzione). Tuttavia, le spese per ricostituire o aumentare il capitale umano e sociale sono in gran parte classificate come spesa corrente se non totalmente dimenticate. La costruzione di un ospedale o di una scuola è un investimento, ma gli stipendi dei medici e dei docenti si trovano nella spesa corrente, anche se senza di essi non verrebbe erogato alcun servizio agli utenti e quindi il benessere della società non cambierebbe di una virgola. Tanto che è stato proposto di modificare, almeno sperimentalmente, le convenzioni contabili dell’Unione Europea e considerare come investimenti le spese per istruzione, ricerca e salute, o almeno una loro quota pre-definita.
Il capitale naturale e la cooperazione tra Stato e mercato
Oggi c’è anche di più. La ‘qualità sociale’, e quindi il benessere, dipendono anche dalla disponibilità (e dalla qualità) del capitale naturale. Le imprese (private o pubbliche che siano), oltre certamente a produrre ricchezza materiale, contribuiscono a distruggere il capitale naturale di cui siamo dotati, peraltro in collaborazione coi consumatori. E lo fanno attraverso le emissioni inquinanti che determinano i cambiamenti climatici e, con essi, lo scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari, la desertificazione di enormi territori, l’acidificazione degli oceani. Chi, se non gli stati del mondo in uno sforzo comune, deve individuare le modalità per arrestare il degrado e avviare la ricostruzione del “capitale naturale” che abbiamo già scialacquato? Non che l’industria e la finanza privata non possano/debbano dare il loro contributo o che non possano/debbano darlo i consumatori con i loro comportamenti. Ma sono gli stati a dover tracciare la strada, a definire le tappe, a mettere a punto gli strumenti (incentivi, regole e standard) e a effettuare gli investimenti pubblici che servano a suscitare e accompagnare quelli privati. Sembra difficile dire che le azioni degli stati per garantire un futuro all’umanità non contribuiscano a conservare e creare ricchezza.
“La creazione di valore è un processo collettivo – sintetizzano Michael Jacobs e Mariana Mazzucato nell’introduzione al loro Ripensare il capitalismo – nessuna azienda può oggi operare senza i servizi fondamentali forniti dallo Stato… che non si limita a ‘regolare’ l’attività economica privata: il Pil è coprodotto dall’interazione di operatori pubblici e privati”. Inoltre, in molti paesi, lo Stato ha rappresentato il motore dell’innovazione, come riconosce Bill Gates, secondo cui è grazie all’investimento del governo (americano) in ricerca e sviluppo che sono stati creati poi dalle imprese private “i prodotti che probabilmente usate ogni giorno, compresi internet, farmaci salvavita e il GPS utilizzato dal vostro cellulare”. Dovremmo negare che quelle innovazioni siano stati iniettori di crescita della ricchezza e di trasformazione dei modelli di consumo?
Non c’è buon funzionamento dell’economia senza buona produzione e spesa da parte dello Stato. Certamente, l’efficacia e l’efficienza dei servizi resi dallo Stato possono variare molto da paese a paese e, in Italia, variano molto anche da regione a regione, per non dire del problema della corruzione. Anche la produttività delle imprese private è molto differenziata. Così come molti e variabili nel tempo e nello spazio sono i difetti del mercato. La constatazione dei difetti dello Stato non elide quelli del mercato e non può servire a giustificare il puro e semplice ridimensionamento dello Stato. È compito dei governi individuare i difetti dello Stato e correggerli, senza cedere alla loro presunta inevitabilità, così come nessuno si sogna di abolire il mercato perché mostra i ben noti difetti.
fonte: https://eticaeconomia.it/chi-produce-ricchezza/
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