In questo momento di incertezza politica, secondo il marchese napoletano, proprio la Francia, intervenuta a Mentana con un contingente di soldati per salvare Roma, deve farsi paladina della difesa del Papa dalle pretese annessionistiche italiane. La salvaguardia del potere temporale del Papa, però, comporta come necessaria conseguenza, il mantenimento dell’ultima barriera che impedisce alla monarchia italiana di realizzare l’unità; se decidesse di salvare il papato, la Francia comprometterebbe quindi il compimento del processo dell’unificazione nazionale, favorendo un ritorno allo spirito dell’armistizio di Villafranca (Verona) e del successivo trattato di Zurigo (1859), che stabilivano l’unione della Penisola nella forma di confederazione sotto la presidenza onoraria del Papa che avrebbe conservato i propri Stati.
Una soluzione in senso federalista della Questione Romana, che riporti la politica italiana lungo la strada intrapresa a Zurigo e poi subito abbandonata, sarebbe giustificata anche da ragioni di ordine storico: l’Italia, scrive Calà Ulloa, «[…] è cresciuta all’ombra del soglio di Pietro» (p. 37) e la compagine di popoli diversi presente al suo interno trova un collante di unità soltanto nell’appartenenza alla religione cattolica e nel comune riferimento alla vicina Roma, capitale della cristianità.
Ma, al di là delle ragioni storiche, nella contingenza politica del momento, un intervento francese a favore del Papa si renderebbe più che mai necessario perché, secondo il marchese, il governo italiano «[…] esiste solo a condizione di essere il braccio della rivoluzione» (p. 61) e, di fronte alla sconfitta garibaldina di Mentana, si orienta sempre più verso la conquista di Roma.
Non solo: secondo Calà Ulloa, la monarchia italiana, per raggiungere questo obiettivo, starebbe ormai guardando con favore a un’alleanza con la Prussia di Otto von Bismarck (1815-1898), in funzione anti-francese. Per questo, se l’Impero francese ponesse fine al disegno di casa Savoia di unificare la penisola italiana in un’unica monarchia e restaurasse i legittimi sovrani, eliminerebbe dalla scena politica internazionale un possibile alleato della Prussia in caso di guerra sul confine del Reno e si assicurerebbe l’amicizia con l’Impero e con tutti gli Stati della penisola italiana.
Napoleone III ha letto le riflessioni di Calà Ulloa? Non lo sappiamo. è certo comunque che l’imperatore francese, se mai si è interessato alle soluzioni prospettate dal marchese napoletano, deve averle abbandonate nel giro di pochi anni, visto che, come è noto, la politica internazionale francese, dopo Mentana, correrà su binari completamente diversi. Infatti, nell’imminenza dello scoppio della guerra con la Prussia, per rafforzare la Francia in funzione anti-prussiana, Napoleone III non cerca l’amicizia del Papa e dei principi spodestati della penisola italiana, ma cede alle pressioni del governo italiano, ritirando da Roma la guarnigione di cinquemila unità, in cambio della promessa dell’appoggio da parte di centomila soldati italiani sulla frontiera del Reno.
Lo Stato pontificio, abbandonato dalla Francia, resta così alla mercé dell’esercito italiano al comando del generale Raffaele Cadorna (1815-1897) che il 20 settembre 1870 irrompe in Roma, determinando di fatto l’annessione dello Stato della Chiesa al Regno d’Italia. Intanto Napoleone III, che non ottiene i centomila soldati che gli erano stati promessi in cambio dell’abbandono di Roma, osserva da estraneo le vicende della Città Santa e concentra i suoi sforzi bellici in una guerra dalla quale uscirà sconfitto.
Il marchese Pietro Calà Ulloa muore nel 1879 e quindi fa in tempo a verificare che lo sviluppo degli equilibri internazionali e della situazione politica della Penisola avviene in netto contrasto con quanto da lui auspicato nello scritto del 1867. Tuttavia non ci sembra possibile consentire con Corrado Augias quando, nella prefazione al libro, definisce «ingenua» la valutazione fatta da Calà Ulloa delle forze in campo, così come la speranza che il processo unitario possa retrocedere.
Infatti, lungi dal chiudere gli occhi su quanto stava avvenendo, egli intuisce che, all’indomani di Mentana, il governo italiano non solo non intende rinunciare a Roma, ma ritiene che il modo migliore per impadronirsene sia quello di giungere a un accordo diplomatico con la Francia. Del resto, scrive, «[…] a Firenze si crede che la Francia col suo intervento ha voluto soltanto impedire una soluzione rivoluzionaria, ma che la vorrà risolvere diplomaticamente nel senso delle aspirazioni e delle cupidigie italiane» (p. 66).
Alla luce di queste chiarificazioni, come valutare il pensiero di un autore che da un lato auspica un’Italia federata sotto la presidenza del Papa, ma che dall’altro lato sa che gli orientamenti politici della Francia compromettono un ritorno allo spirito del trattato di Zurigo?
Forse a rendere vive le pagine del marchese napoletano non è tanto la prospettata soluzione federalista della questione dell’unità d’Italia — peraltro ampiamente e diversamente teorizzata da autori come Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), Vincenzo Gioberti (1801-1855), Giuseppe Ferrari (1811-1876) e Carlo Cattaneo (1801-1869) —, quanto la percezione della «posta in gioco», che Calà Ulloa ritiene stare alla base del progetto di casa Savoia di unificare l’Italia sotto la propria dinastia e di far scomparire il potere temporale del Papa: se il Regno d’Italia nella sua fisionomia voluta dai Savoia non crolla, scrive Calà Ulloa, «[…] sarà la rivoluzione a intonare l’inno del trionfo. E l’Europa deve aver compreso ormai che la rivoluzione italiana è cosmopolita. Se non si dissolve questa unità innaturale di elementi eterogenei, si scriverà la parola fine alla sovranità dei papi e con questa alla civiltà e alla libertà. Sarà la rivolta luterana nel suo sviluppo finale, che, con la distruzione del potere temporale, farà concentrare le forze sociali nelle mani del solo potere politico» (p. 85).
La questione della federazione italiana, quindi, non attiene soltanto alla sfera politica, ma investe prima di tutto la sfera religiosa e civile. Proprio in difesa di un ordine civile che trae dalla religione cattolica la sua linfa vitale, Pietro Calà Ulloa ha voluto scrivere un ultimo accorato appello.
Giuseppe Bonvegna
riportiamo di seguiti alcuni stralci del panflet del Marchese Pietro Calà Ulloa (Napoli, 15 febbraio 1801 – Napoli, 21 maggio 1879) PIETRO CALÀ ULLOA, Unione non unità d’Italia, ARGO, Lecce 1998,
La confederazione è la sola cosa possibile in Italia, perché poggia sul genio della nazione. La sua divisione, precedente alla dominazione romana, nasceva dalla configurazione stessa della penisola. Era confederata 1’Italia, per secoli, prima della conquista romana, che possiamo considerare come la prima invasione barbarica della penisola. Crollato l’impero d’Occidente, 1’Italia tornò spontaneamente alla sua costituzione naturale. E fu allora che divenne l’anima e lo spirito del mondo. I difensori più illustri dell’indipendenza italiana l’hanno sempre intesa, e servita, attraverso leghe e confederazioni. Era quasi un istinto di conservazione, nella consapevolezza che per l’Italia essere una significava era schiavizzata. L’unità può dare forza, ma non indipendenza. L’unità è una schiavitù ragionata, la peggiore delle schiavitù. Per quanti amano veramente la loro patria l’indipendenza non può che essere nella coscienza. E certamente in questi ultimi tempi costoro hanno dato prova di saper combattere.
L’Italia è composta da popoli differenti per origine costumi, lingua, abitudini. Fra di loro vi è solo l’unità della religione, della letteratura e della gloria. Lo spirito italiano è per eccellenza uno spirito di rivalità e antagonismo. Questa è l’opera dei secoli. È da più di un millennio che questo antagonismo è sempre vivo e costante, fra il nord e il sud della penisola; ed esisteva sin dalle rivalità fra la razza greca e romana, da una parte, e quella allobroga e gallica, dall’altra. Nato il regno longobardo, la storia ci mostra il papa sempre circondato e difeso dagli stati del sud contro gli invasori del nord. I longobardi – i piemontesi dei nostri giorni non riuscirono mai a insediarsi stabilmente nelle province che formano il regno di Napoli. La stessa rivoluzione sembrò per un momento capire tale esigenza di federazione, quando si era figurata una suddivisione dell’Italia in regioni. Certo le regioni, senza i loro principi legittimi, sono della realtà illusone; ma si poteva sperare nel tempo, col mutare dei tempi… Gli atteggiamenti incerti incoraggiano sempre i temerari. Trionfarono gli unitari oltranzisti, ma hanno cantato troppo presto vittoria. Col miraggio di una grande potenza, hanno creato solo un’immensa schiavitù. E dopo essersi impantanati nella melma della rivoluzione, gli italiani si son messi a recitare la commedia delle antiche grandezze. Si è invocata l’unità per giustificare la violenza. Ma quand’anche fossero riusciti a fare l’unità d’Italia, non si può assolutamente sostenere che avrebbero fatto l’unione degli italiani.
La costante resistenza del regno di Napoli, l’insurrezione di Palermo e i torbidi siciliani ‘avrebbero dovuto convincere i più ostinati. La stessa Torino ha mostrato, appena tre anni fa, quante passioni infuocate covino sotto la cenere; e vi scorse anche il sangue. Ma non poteva cancellare le tracce di quello versato a Gaeta e a Castelfidardo: è qui che i combattenti offrirono l’autentica immagine eroica del dovere e dell’onore. È vero, la città di Torino dopo ha cercato di mascherare il proprio egoismo ruvido e focoso, le sue ambizioni localistiche, con l’aspirazione verso Roma. L’opinione dei giornali, il consiglio della provincia, la città e il suo municipio, le associazioni con le loro risoluzioni, lamentarono ad alta voce i sacrifici di sangue e di denaro fatti dal Piemonte; ma la meta era Roma, si diceva, solo Roma, a cui la rivoluzione italiana non può rinunciare: la rivoluzione non può abdicare. E nondimeno, andando un po’ più a fondo, si sarebbe visto con facilità cosa voleva davvero Torino. La menzogna di Roma era soltanto un orpello, una concessione che si accordava alle esigenze municipali. La Roma che richiedevano i caudatari del conte di Cavour non avrebbe colpito al cuore Torino meno di quanto non lo faccia oggi Firenze. E non sarà la Permanente a poter smentire. Torino insorgeva perché non voleva perdere né il titolo nè le prerogative di capitale.
Si capisce benissimo il malcontento dei torinesi. La secolare capitale di Casa Savoia decaduta al rango di città di provincia.! Ma dopo aver aspirato e faticato ad annettersi gli altri tenitori d’Italia, dopo aver misconosciuto e rimescolato tanti interessi, dopo essersi arricchita con le spoglie di altri popoli, questa città poteva mai credere di essere a suo volta cancellata? Se era vero che l’aspirazione era Roma, l’unità d’Italia con al centro Roma, Torino doveva pur aspettarsi che il governo vi sarebbe stato trasferito. E Napoli, la città di Federico II e Alfonso d’Aragona, Firenze, la città dei Medici e dei Lorena, Milano, la città dei Visconti e degli Sforza: tutte queste capitali, la cui storia, i monumenti, le leggi, i ricordi erano stati come depennati dalla forza, dovevano, loro sì, farsi assorbire da Torino?
mare senza sponde. E noi, la cui vita da quattro anni è soltanto un brivido di terrore, scagliati come siamo nell’inquietudine senza fine del dolore e dell’angustia, fummo i soli forse a deplorare il decadimento di casa Savoia!
Gli autori di Una rivoluzione iniziano con l’essere colpevoli e finiscono vittime.
Torino ferita al cuore è ora in grado di capir? quali sono state le sofferenze di Napoli, quando dal rango di una delle più splendide capitali d’Europa si vide ridotta alla condizione di città di provincia. Noi non siamo cosi poco magnanimi da non capire le angosce odierne di Torino, anche se Torino aveva spinto la sua cruenta ironia fino a prendersi gioco delle tendenze autonomistiche dei napoletani. Ma presto la legge Pica fu applicata anche a casa Savoia: allontanata dal proprio suolo, strappata alle proprie radici, fu condannata a un domicilio coatto. venne a cercare a Palazzo Pitti il riposo un goduto nel castello di Moncalieri. Ma non aveva capitale. Il re che dopo Villafranca avrebbe potuto dirigere il movimento italiano, deve ora subirlo; e oggi si sarà accorto che il conte di Cavour l’ha trascinato in un mare senza sponde. E noi la cui vita da quattro anni è soltanto un brivido di terrore, scagliati come siamo nell’inquietudine senza fine del dolore e dell’angustia, fummo i soli forse a deplorare il decadimento di casa Savoia!
(…)
Si sono distrutte le nazionalità e ogni forma di federazione, per avere un potere tribunizio nelle mani di un cesare. È la stessa parola di nazionalità che in certi momenti ha della mistificazione. Tacito afferma che le parole ingannano i popoli che non sono più degni della libertà. Leggendo le speciosa verba, re mania, aut subdola dello storico latino, ci si accorge di leggere un tremendo giudizio sugli italiani unitari dei nostri giorni. Le diffidenze e le divisioni si sono moltiplicate con i sospetti e i rigori. Grazie all’unità si è fatto odiare il nome stesso di libertà, lo si è colpito al cuore, e già si mostrano i suoi pretesi apostoli come gli spartani additavano gli iloti ubriachi ai loro figli. I nostri nipoti pagheranno cari 1 crimini dei loro antenati.
Si è pensato di risuscitare l’unità dell’impero e delle sue legioni e la potenza delle aquile latine. E noi abbiamo ascoltato per sette anni questa parola, attraverso le ambizioni più fustigate della penisola. Anch’io ho ascoltato questa parola nel mio esilio, in questi luoghi fatti per nutrire lo spirito, in questa Roma dove si cammina su tante rovine e sulla polvere delle fortune dell’impero! E si credeva di averne rilevato la potenza, in un’Italia dove la giustizia era misconosciuta, la debolezza oppressa, la brutalità vittoriosa! Mancava che si arrivasse a riaprire il Colosseo per darvi o ricevervi la morte. In sette anni non si è riusciti che a suscitare gli applausi dell’antico popolino del circo e le adulazioni interessate, già elargite ai cesari di Roma. Se quest’impero effimero non crolla, sarà la rivoluzione a intonare l’inno del trionfo. E l’Europa deve aver compreso ormai che la rivoluzione italiana è cosmopolita. Se non si dissolve questa unità innaturale di elementi eterogenei, si scriverà la parola fine alla sovranità dei papi e con questa alla civiltà e alla libertà. Sarà la rivolta luterana nel suo sviluppo finale, che, con la distruzione del potere temporale, farà concentrare le forze sociali nelle mani del solo potere politico. E i giorni di Tiberio e di Caracalla non saranno un fenomeno unico negli annali della tirannide.
autore : Marchese Pietro Calà Ulloa (Napoli, 15 febbraio 1801 – Napoli, 21 maggio 1879) è stato un magistrato, politico e saggista italiano.chi è l’autore:
Nacque a Napoli (secondo altri a Lauria), nel 1801, dal Duca di Lauria Francesco e da Donna Elena O’ Raredon, nobildonna irlandese. È il primo di tre fratelli fedelissimi alla dinastia borbonica (gli altri due sono Girolamo e Antonio).
Frequentò il Real Collegio Militare della Nunziatella, ma si dedicò solo per brevissimo tempo alla carriera militare. Successivamente si dedicò allo studio, con una imponente produzione di saggi di argomento storico e letterario. Dopo aver svolto le funzioni di avvocato nel 1836 fu assunto alla Corte suprema di Napoli.
Esercitò dapprima le mansioni di magistrato in Sicilia e, da Procuratore del Re a Trapani, si deve proprio all’Ulloa se, nel 1838, emerse per la prima volta ufficialmente in un atto giudiziario la parola “mafia”. Costituzionalista, è tra coloro che parteciparono al progetto di dettato costituzionale, tardivamente approvato da Francesco II.
Fedele ai Borbone, Pietro Ulloa fu l’ultimo Presidente del Consiglio napoletano di Francesco II, carica che gli venne conferita da Francesco II in estremis, quando cioè ormai aveva lasciato Napoli. Ricoprì l’incarico di premier anche nel governo in esilio a Roma.
Ritornato a Napoli (1870) si dedicò agli studi storici, tra i quali i più noti sono: Intorno alla storia del reame di Napoli di Pietro Colletta (1877) e l’opera in gran parte ancora inedita Sulle rivoluzioni del regno di Napoli. Le sue numerose opere sono interessanti per la luce che gettano sull’ultimo periodo storico visto da parte borbonica.
Pietro Ulloa è considerato inoltre uno dei padri dell’idea confederativa meridionalistica: furono infatti particolarmente apprezzate le sue argomentazioni in materia, secondo alcuni di origine neoguelfa (tesi peraltro dimenticate per oltre un secolo e solo recentemente riscoperte) su una possibile unione confederativa della penisola italiana, alternativa alla unità d’Italia.