L’utopia di John Lennon non è un sogno, è un incubo

di Melanie Phillips, 1 gennaio 2019 The Times

L’altra sera, alla vigilia di capodanno in Times Square a New York, si è osservata ancora una volta una sacra tradizione. Bebe Rexha è stata l’ultima cantante a cantare la canzone di John Lennon, Imagine, immediatamente prima del conto alla rovescia dei 60 secondi per il rintocco di mezzanotte, scandito in modo pirotecnico.

La canzone è scelta per questo sacro spot annuale perché è ritenuta da molti un inno ad un mondo migliore. “Immagina che non ci siano frontiere”, cantava Lennon, “Non è difficile da fare / Nessuno per cui uccidere o morire / E nessuna religione / Immagina tutta la gente vivere una vita in pace / Puoi darmi del sognatore / Ma non sono il solo / Spero che un giorno ti unirai a noi / E il mondo sarà unito”.

C’è stato un tempo in cui sono stata trascinata da questo inno all’armonia universale, come lo sono stati molti della mia generazione, i baby-boomer. Niente più divisioni o conflitti, ma pace sulla Terra e fratellanza tra gli uomini. Cosa c’è di meglio? Ma poi sono cresciuta. Perché quello che ci veniva detto di immaginare non era una ricetta per amare l’intera razza umana, ma una negazione della nostra stessa umanità.

Amare tutti allo stesso modo non è soltanto impossibile, per quanto degno. Se fosse possibile, non sarebbe amore. Provate questo esperimento col pensiero. Pensate a quelli che amate più profondamente e più appassionatamente: potrebbero essere i vostri bambini, il vostro coniuge o qualcun altro d’importante. Ora immaginate di dir loro che li amate quanto il resto del mondo, e che quel che accade al resto del mondo per voi è importante quanto quel che accade a loro.

Come pensate che li farebbe sentire? Amati, speciali e preziosi per voi? Lo pensate davvero?

Perché l’amore richiede una gerarchia, un elemento di discriminazione o unicità. Questo è il motivo per cui proteggeremmo dai pericoli i nostri cari più amati, o ci cureremmo del loro benessere e dei loro interessi, prima di proteggere o occuparci di qualsiasi altra persona.

La disparità di trattamento è intrinseca nell’amore. Senza differenze non può esserci amore, soltanto l’uguaglianza nell’indifferenza. Per di più, soltanto imparando ad amare le persone più vicine si può iniziare ad amare gli altri.

Lo stesso vale per le culture e le nazioni come per gli individui. Se i leader amano la loro nazione (anziché amare soltanto l’esercizio del potere) è più probabile che rispettino l’amore che le altre nazioni nutrono per sé stesse. L’universalismo sostiene che l’affiliazione culturale è sospetta perché è esclusiva. Naturalmente alcune affiliazioni, che siano alla nazione, alla cultura, alla religione o alla tribù, portano al conflitto. Ma se non ci si associa a nient’altro che a se stessi, si esiste solo per se stessi.

Se non ci fossero culture che definiscono gruppi particolari, nessuno condividerebbe nulla con nessun altro. Non ci sarebbe nessun interesse comune in alcuna particolare società, e quindi nessuna armonia di valori o di obiettivi condivisi: soltanto una battaglia per la supremazia tra individui sradicati.

L’utopia di Lennon quindi non è un sogno, ma un incubo: una formula per una distopica guerra di tutti contro tutti.

La ricerca dell’utopia produce sempre risultati spaventosi. Anche se è impossibile da realizzare, i suoi seguaci credono che chiunque si opponga alla perfezione del mondo sia per definizione un nemico del bene e quindi vada schiacciato.

Lo abbiamo visto accadere molte volte: dai cristiani millenaristi medievali agli islamici apocalittici, con la loro fede comune che tutto ciò che si frappone alla perfezione del mondo va abbattuto; dalla rivoluzione francese al comunismo e al nazismo e da lì alla nostra era di autoritarismo culturale, con la caccia agli eretici e ai dissidenti delle ortodossie sessuali, etniche, intellettuali ed altre ancora.

Perché il mondo immaginario della canzone di Lennon è tutto intorno a noi. La nostra cultura cerca di eliminare tutte le divisioni. Non ci può essere una gerarchia di valori. Tutto è relativo. Non ci sono verità o bugie oggettive, soltanto narrazioni in competizione. Tutti i pareri sono sbagliati, tranne il parere che le attuali ortodossie sono sbagliate; nel qual caso la vostra carriera professionale o la vostra reputazione sociale sarà distrutta. Nessuna cultura è migliore o peggiore delle altre. Nessun gruppo ha il diritto di definirsi come una nazione o governarsi sulla base di una cultura condivisa.

Ci è stato detto qualche settimana fa da niente di meno che la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha affermato che gli stati nazionali dovrebbero essere disposti a cedere la propria sovranità. I loro popoli non hanno il diritto di obiettare, perché il popolo di un paese sono semplicemente quelli che vivono permanentemente in quel posto e non “un gruppo che definisce se stesso un popolo”. Per la Merkel, sembra, non esiste qualcosa come “un popolo”; soltanto gente.

C’è un’alternativa a questa visione universalista. Un regime nel quale le persone aderiscono ad una particolare cultura che, a differenza di altri, li impegna a curarsi l’uno dell’altro e a trattare ognuno con rispetto; in cui aderiscono alla razionalità e all’evidenza; con il quale credono nella libertà individuale, nella giustizia e nella dignità di ciascun individuo.

Questi valori sono racchiusi in quei progetti comuni chiamati “un popolo” e una nazione, i cui membri li difenderanno per amore e lealtà contro tutti coloro che vogliono distruggere la loro indipendenza e le loro caratteristiche particolari e quindi minacciano la loro capacità di fare del bene non solo a quelli che appartengono alla loro comunità, ma al mondo in generale.

Immagina!

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