[ad_1]
Oggi si parla spesso di «emergenza educativa», e così l’educazione sembra qualcosa di inquietante. Dovremmo invece pensare che educare è sì difficile, ma anche naturale. Non dobbiamo far diventare l’educazione più difficile di quello che è. Dovremmo riscoprire la bellezza dell’educare, di questa avventura che può essere appassionante e coinvolgente.
Educare viene da educere, condurre fuori. Condurre dove? E fuori da che cosa? Benedetto XVI, nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2012 (Educare i giovani alla giustizia e alla pace), spiega che si tratta di «condurre fuori da se stessi per introdurre nella realtà, verso una pienezza che fa crescere la persona» e che «tale processo si nutre dell’incontro di due libertà, quella dell’adulto e quella del giovane», con il primo che deve essere pronto a donare se stesso e il secondo che deve essere disposto a lasciarsi guidare.
Condurre fuori. Da ciò che di negativo c’è nel cuore di ognuno di noi, fuori dalle miserie interiori, fuori dalla pigrizia intellettuale e morale, fuori dall’egoismo, fuori dalla paura. Verso la pienezza umana, verso la consapevolezza di sé, verso la generosità, il bene, il buono e il bello. Fuori dal peccato e verso la libertà dal peccato. Condurre fuori dal male e introdurre nel bene.
Il verbo educere dà fiducia: il problema educativo non sta nell’inculcare qualcosa in qualcuno. È piuttosto un suscitare risorse che sono già nella persona. Oggi ci accostiamo all’educazione partendo spesso da una visione negativa, e sfiduciata, perché pensiamo di dover riempire un contenitore vuoto, e ci sembra di non riuscire mai a riempirlo adeguatamente. Se invece pensiamo di dover suscitare qualcosa che già c’è, tutta l’opera educativa ci si presenta in un’altra luce. Ci permette di vedere l’educazione come un rapporto non univoco ma biunivoco e circolare, uno scambio nel quale ognuno trasmette qualcosa all’altro.
Più che la sfida educativa in sé, oggi è cambiato profondamente l’ambiente. C’è tanta confusione. Messaggi che si fondono insieme, si sovrappongono, dando luogo a una cacofonia con pesanti risvolti sul piano intellettivo e morale.
Facciamo fatica a capire che cosa succede e che cosa ci succede. Facciamo fatica a leggere nell’esperienza umana in generale e nella nostra in particolare. Siamo da un lato troppo divertiti (in senso letterale, da divertere : portati altrove) e da un altro lato troppo spaventati, perché i moderni miti dell’apparire, del benessere e dell’efficienza (imposti dai mass media con un martellamento al quale è difficile sottrarsi) ci costringono ad ammettere che non siamo mai all’altezza.
Sul piano morale, in questa confusione non sappiamo più distinguere il bene dal male, il buono dal cattivo, il bello dal brutto.
Questo ambiente sociale e culturale cacofonico e confondente è il risultato della miscela di soggettivismo spinto (io sono la misura di tutto) e di edonismo (fine ultimo dell’uomo è il piacere).
La miscela soggettivismo-edonismo determina due conseguenze: il rifiuto della norma morale, vissuta come inconcepibile limitazione dell’io che cerca piacere e soddisfazione (facciamo caso a quanto sono di moda termini come «realizzazione», «realizzarsi», «autorealizzarsi»), e l’uso strumentale della relazione con l’altro. La relazione con l’altro è vista infatti solo in modo funzionale: l’altro è colui che mi serve per raggiungere il mio scopo di piacere- realizzazione o è colui con il quale mi confronto in una lotta costante per verificare chi vince la battaglia dell’apparire e dell’emergere dall’anonimato.
Il binomio soggettivismo-edonismo ha un terzo compagno inseparabile: il pragmatismo. Ciò che conta, in questa ricerca del piacere individuale, è l’esperienza. Facciamoci caso: quante volte sentiamo dire, anche da bravi genitori: «L’importante è che mio figlio faccia le sue esperienze, poi sceglierà lui». Un ragionamento che in termini educativi è alquanto zoppicante. Non si tratta di fare qualcosa e poi scegliere. Mi drogo e poi scelgo? Divento un alcolizzato e poi scelgo? Spingo l’auto a duecento all’ora e poi scelgo?
Eppure oggi si procede proprio così. Siamo esortati a passare da un’esperienza all’altra, con l’illusione che poi (sempre poi, ma quando?) si possa decifrare l’esperienza stessa e quindi scegliere. Ma scegliere che cosa?
Il guaio è che ciò non avviene solo nei confronti degli oggetti (prendo questo paio di scarpe, lo provo e poi decido se fa per me o no). Avviene anche nei confronti delle persone! Prendo questo ragazzo, questa ragazza, quest’uomo, questa donna, ci vivo un po’ assieme e poi decido se mi va bene.
Ora la domanda è: in questo contesto, come può avvenire l’educazione alla fede? Senza la pretesa di dare ricette, penso che il primo passo sia avvertire e far avvertire la presenza di Dio, del nostro Dio al quale possiamo rivolgerci come Padre perché è lui che, per amore, ci ha donato la vita. Il nostro Dio che ci ama così tanto da aver voluto incarnarsi, così da donarci la salvezza attraverso il sacrificio di suo Figlio Gesù. Se non sottolineiamo questo sconvolgente mistero d’amore, se non fondiamo la nostra vita e il nostro essere su questa verità, se non la meditiamo, se non la contempliamo, ben difficilmente possiamo anche solo incominciare un percorso educativo nel segno della fede.
Come rendere presente e viva, per noi, per i nostri figli, per i nostri bambini, ragazzi e nipoti, questa verità d’amore? Le vie possono essere diverse, ma credo che la prima consista nell’amore che il papà e la mamma, e anche il nonno e la nonna, nutrono l’uno nei confronti dell’altra. È su questo terreno che l’amore di Dio viene respirato, vissuto, toccato con mano.
Voglio soffermarmi in particolare sull’amore fra i coniugi. Mi sembra che troppo spesso si sorvoli su questo aspetto. L’amore tra il papà e la mamma, tra due persone che vivono concretamente il dono reciproco, che vivono supportandosi e non sopportandosi, che dimostrano comunione di intenti e di valori, che vivono la solidarietà e la stima, che si nutrono l’uno dell’altra, che vivono la fedeltà e l’indissolubilità: ecco, questo amore è la migliore e più convincente immagine dell’amore di Dio per noi. È lo specchio dell’amore unico e incondizionato di Dio per ogni creatura, e i bambini, fin da quando sono molto piccoli, sono perfettamente in grado di coglierlo e di apprezzarlo. Con il tempo, secondo le tappe dello sviluppo, il papà e la mamma incominceranno a introdurre alcune coordinate religiose, ma il loro amore reciproco resterà la prima e più grande lezione. Tutto ciò non significa che la mancanza di un’esperienza d’amore fra i genitori precluda ai figli la possibilità di un percorso di fede. Il Signore trova vie imperscrutabili per manifestarsi e lo Spirito soffia dove vuole. Ma certamente l’amore vissuto in famiglia attraverso il rapporto dei genitori ha una grande importanza.
Quella che va riconosciuta, smascherata e, possibilmente, combattuta è la triade soggettivismo-edonismo-pragmatismo.
Per noi cristiani ciò che conta non è l’io, ma l’io in relazione (relazione non strumentale) con il tu. Non è la ricerca del piacere, ma la ricerca della felicità. Non è l’accumulo di esperienze, ma è il giudizio morale sul tipo di esperienza.
Alla centralità dell’io occorre sostituire la centralità della relazione. Alla centralità del piacere individuale effimero occorre sostituire il riconoscimento di una felicità più autentica, piena e durevole. Alla centralità dell’esperienza in sé e per sé occorre sostituire la capacità di valutazione.
Che cosa dunque dobbiamo tirar fuori, che cosa dobbiamo educere dall’educando? Dobbiamo tirar fuori, suscitare, sollecitare la sua propensione naturale al giudizio morale su di sé, sugli altri e sulla vita intera. Dico «tirar fuori» e non «mettere dentro», lo ripeto, perché questa propensione fa parte di noi, è nella nostra natura. Ma va stimolata, incoraggiata, valorizzata.
In poche parole, decisiva è la formazione della coscienza morale. Che si pratica come? Educando alle virtù morali.
Dire coscienza vuol dire consapevolezza, ragionamento, valutazione, giudizio. E dire morale significa che questo ragionamento va fatto in termini di bene-male, buono-cattivo, bello-brutto. Questo è il tipo di giudizio decisivo per l’uomo morale. E questo tipo di giudizio è facilitato, non limitato, se la nostra visione del mondo e della vita è aperta alla trascendenza, cioè al riconoscimento di un Dio creatore che ci ama e ci dona norme oggettive.
Anche l’ateo può valutare l’uomo e la vita in termini morali. Il credente non ha il monopolio della moralità. Ma certamente il credente, che considera se stesso come figlio e vede la vita come dono, è incoraggiato a non mettersi in primo piano, a non fare di sé la misura di tutto, a non usare l’altro come un mezzo.
Non è di moda parlare di virtù morali. E il fatto che non sia di moda dimostra a che punto siamo arrivati, soffocati da soggettivismo-edonismo-pragmatismo.
Ma quali sono le virtù? E quali dobbiamo mettere in primissimo piano? È il Catechismo della Chiesa cattolica a spiegarlo molto bene. Sono le quattro virtù cardinali, che si chiamano così proprio perché hanno funzione di cardine: «Quattro virtù hanno funzione di cardine. Per questo sono dette cardinali; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza» (1805).
«La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo (…). La prudenza è la “retta norma dell’azione”, scrive san Tommaso sulla scia di Aristotele. Essa non si confonde con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione. Essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura. È la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza. L’uomo prudente decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio. Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare» (1806).
«La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto (…). La giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l’armonia che promuove l’equità nei confronti delle persone e del bene comune. L’uomo giusto, di cui spesso si fa parola nei Libri Sacri, si distingue per l’abituale dirittura dei propri pensieri e per la rettitudine della propria condotta verso il prossimo. “Non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia” (Lv 19,15). “Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo” (Col 4,1)» (1807).
«La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa» (1808).
«La temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (1809).
Non ci sarebbe molto da aggiungere, se non qualche domanda: quante volte ci interroghiamo sulle virtù? Quanto siamo consapevoli del loro ruolo e della loro importanza in termini educativi? Quanto siamo consapevoli di questo tesoro di sapienza umana che ci è assicurato dalla Chiesa attraverso Catechismo, al quale possiamo attingere a piene mani?
I progetti educativi vanno benissimo, ma noi cattolici dobbiamo sapere che il progetto fondamentale l’abbiamo già!
Dobbiamo tirar fuori dall’educando la propensione a riconoscere in ogni circostanza il vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo, e questa è la prudenza.
Dobbiamo tirar fuori la propensione a riconoscere che cosa va dato a Dio e al prossimo (ecco l’importanza di vedere la vita come relazione), e questa è la giustizia.
Dobbiamo tirar fuori la propensione a essere fermi e costanti nella ricerca del bene, e questa è la fortezza.
Dobbiamo tirar fuori la propensione a essere equilibrati e sobri, senza eccedere nell’utilizzo dei beni a nostra disposizione, e questa è la temperanza.
È importante dare un nome alle virtù. Le fa sentire più vicine e riconoscibili. Sul terreno morale ogni cosa ha un nome ed è distinguibile dall’altra. L’ambiguità viene dal demonio.
Come si raggiungono e si mantengono le virtù morali? Cito ancora il Catechismo: «Le virtù umane acquisite mediante l’educazione, mediante atti deliberati e una perseveranza sempre rinnovata nello sforzo, sono purificate ed elevate dalla grazia divina. Con l’aiuto di Dio forgiano il carattere e rendono spontanea la pratica del bene. L’uomo virtuoso è felice di praticare le virtù» (1810).
«Con l’aiuto di Dio» vuol dire che non siamo soli (e questa consapevolezza deve aiutarci a sconfiggere il senso di inadeguatezza) e che il risultato non dipende soltanto dai nostri sforzi. È una consapevolezza molto liberante.
«Per l’uomo ferito dal peccato non è facile conservare l’equilibrio morale. Il dono della salvezza fattoci da Cristo ci dà la grazia necessaria per perseverare nella ricerca delle virtù. Ciascuno deve sempre implorare questa grazia di luce e di forza, ricorrere ai sacramenti, cooperare con lo Spirito Santo, seguire i suoi inviti ad amare il bene e a stare lontano dal male» (1811).
Fondamentale è abbandonarsi nelle braccia del Signore. Non è un cedere rispetto alle nostre facoltà: al contrario, è un aiuto grandissimo.
Ogni credente lo sperimenta: nei momenti più difficili, complicati e decisivi la risorsa più importante non è il nostro sforzo, ma la grazia del Signore.
E quindi le virtù morali di cui sopra hanno bisogno di radicarsi nelle cosiddette virtù teologali, che si chiamano così perché si riferiscono direttamente a Dio. Sono la fede, la speranza e la carità.
«La fede è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità. Con la fede l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente» (1814).
«Ma “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26). Se non si accompagna alla speranza e all’amore, la fede non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo corpo» (1815).
«Il discepolo di Cristo non deve soltanto custodire la fede e vivere di essa, ma anche professarla, darne testimonianza con franchezza e diffonderla» (1816).
«La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo» (1817).
«La virtù della speranza risponde all’aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna. Lo slancio della speranza preserva dall’egoismo e conduce alla gioia della carità» (1818).
«La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio» (1822).
«Gesù fa della carità il comandamento nuovo. Amando i suoi “sino alla fine” (Gv 13,1), egli manifesta l’amore che riceve dal Padre. Amandosi gli uni gli altri, i discepoli imitano l’amore di Gesù, che essi ricevono a loro volta. Per questo Gesù dice: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). E ancora: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15,12)» (1823).
Dice san Paolo: se non avessi la carità non sarei nulla. La carità, dice il Catechismo, è superiore a tutte le virtù. È la prima delle virtù teologali. Ancora Paolo: «Queste le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità» (1 Cor 13,13).
«La pratica della vita morale animata dalla carità dà al cristiano la libertà spirituale dei figli di Dio. Egli non sta davanti a Dio come uno schiavo, nel timore servile, né come il mercenario in cerca del salario, ma come un figlio che corrisponde all’amore di colui che “ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19)» (1828).
«La carità ha come frutti la gioia, la pace e la misericordia; esige la generosità e la correzione fraterna; è benevolenza; suscita la reciprocità, si dimostra sempre disinteressata e benefica; è amicizia e comunione» (1829).
Voglio concludere con le parole di Benedetto XVI: «Fate cose belle, ma soprattutto fate diventare le vostre vite luoghi di bellezza» (discorso al mondo della cultura, Lisbona, 12 maggio 2010).
Un esame di coscienza quotidiano potrebbe incominciare così: che cosa ho fatto oggi per far diventare la mia vita e quella degli altri luoghi di bellezza?
Aldo Maria Valli
[ad_2]