Myanmar: Benzina e fuoco, non buoni contro cattivi

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Tony Cartalucci, LD, 5 settembre 2017

La crisi nel Myanmar, nel Sudest dell’Asia, ha confuso molti analisti geopolitici per la complessità storia e la copertura intenzionalmente ingannevole e contraddittoria data dai media occidentali. Il governo del Myanmar è diretto da Aung San Suu Kyi e dalla sua Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), saliti al potere dopo una lotta contro l’esercito che ha governato la nazione per decenni.

Aung San Suu Kyi è una creatura ed agente degli interessi statunitensi ed europei

Suu Kyi e il suo NLD ricevevano decine di milioni di dollari in aiuti statunitensi, inglesi ed europei. Furono create intere reti di facciate come organizzazioni non governative (ONG) per minare e rovesciare le istituzioni nazionali del Myanmar. La portata di questo sostegno e finanziamento è riportata da molte organizzazioni occidentali, tra cui la Campagna inglese per la Birmania, che nel suo rapporto di 36 pagine del 2006, “Fallimento del popolo della Birmania“? (PDF) dettaglia ampiamente come essa e le controparti statunitensi costruirono l’attuale impressionante dominio politico di Suu Kyi.

Il rapporto afferma esplicitamente: “Il National Endowment for Democracy (NED – cfr. Appendice 1, pagina 27) era l’avanguardia del nostro programma per la promozione della democrazia e dei diritti umani in Birmania dal 1996. Fornimmo 2500000 dollari nel FY 2003 per la Birmania sulla legislazione per le operazioni estere. Il NED utilizzerà questi fondi per sostenere le organizzazioni per la democrazia birmane e delle minoranze etniche attraverso un programma di sovvenzioni. I progetti finanziati sono destinati a diffondere informazioni in Birmania a sostegno dello sviluppo democratico, a creare infrastrutture e istituzioni democratiche, a migliorare la raccolta di informazioni sugli abusi dei diritti umani da parte delle Forze Armate birmane e ripristinare la democrazia quando si avranno aperture politiche e il ritorno di esuli/rifugiati”.

Il rapporto continuava: “Voice of America (VOA) e Radio Free Asia (RFA) hanno servizi birmani. VOA trasmette tre volte al giorno un mix di notizie e informazioni internazionali di 30 minuti. RFA trasmette notizie e informazioni sulla Birmania due ore al giorno. I siti web VOA e RFA contengono anche materiale audio e testi in birmano e inglese. Ad esempio, l’editoriale del VOA del 10 ottobre 2003, “Liberare Aung San Suu Kyi” è prominente nella sezione birmana di VOAnews.com. Il sito di RFA mette a disposizione 16 versioni audio dei discorsi di Aung San Suu Kyi dal 27 al 29 maggio 2003. La radio internazionale statunitense fornisce informazioni cruciali a una popolazione a cui sono negati i vantaggi della libertà d’informazione dal governo”.

Per quanto riguarda l’indottrinamento e l’istruzione dei futuri capi di questo blocco politico asservito all’occidente, si affermava: “Il dipartimento di Stato ha fornito 150000 dollari di fondi FY 2001/02 per dare borse di studio ai giovani attraverso Prospect Burma, un’organizzazione partner con stretti legami con Aung San Suu Kyi. Con i fondi del FY 2003/04, abbiamo intenzione di sostenere il lavoro di Prospect Burma data la competenza dimostrata dall’organizzazione nella gestione delle borse di studio ad individui a cui viene negata l’istruzione dalla continua repressione della giunta militare, ma impegnati al ritorno della democrazia in Birmania”. Per quanto riguarda l’Open Society di George Soros, criminale finanziario, e la sua interferenza nella politica interna di Myanmar, il rapporto affermava:

La nostra assistenza all’Istituto Open Society (OSI) (fino al 2004) fornisce un sostegno parziale al programma per concedere borse di studio agli studenti fuggiti dalla Birmania e che desiderano continuare gli studi fino alla laurea o post-laurea. Gli studenti in genere frequentano scienze sociali, sanità, medicina, antropologia e scienze politiche. La priorità è data agli studenti che esprimono la volontà di tornare in Birmania o lavorare nelle comunità dei rifugiati per la riforma democratica ed economica del Paese”. Il rapporto, scritto nel 2006 quando un altro fantoccio statunitense, Thaksin Shinawatra, guidava la Thailandia come primo ministro, fino alla sua dipartita l’anno dopo, dettagliava il ruolo che la Thailandia giocava per sconvolgere e rovesciare l’ordine politico del Myanmar: “L’anno scorso il governo degli Stati Uniti ha iniziato a finanziare un nuovo programma dell’Organizzazione internazionale per la migrazione (OIM) per fornire servizi sanitari basilari ai migranti birmani al di fuori dei campi profughi ufficiali, in collaborazione con il ministero della Sanità Pubblica tedesco. Questo progetto era sostenuto dal governo tailandese e ha ricevuto copertura favorevole dalla stampa locale. Sforzi come questo, volti a trovare modi positivi per lavorare con il governo tailandese in aree d’interesse comune, contribuiscono a creare un sostegno ai programmi finanziati dagli Stati Uniti per aiutare i gruppi per la democrazia birmani”.

Il ministro dell’informazione Myanmar, Pe Myint, ad esempio, frequentò la Fondazione Memorial Media of Indochina, finanziata da NED e Open Society, a Bangkok. Un cablo diplomatico statunitense reso disponibile da WikiLeaks rivela quanto fosse integrale tale formazione nello sviluppo dello Stato cliente degli Stati Uniti che ora domina il Myanmar. “Titolo: “Panoramica delle organizzazioni dei media birmane basate nella Thailandia settentrionale“, che dichiarava nel 2007: “Altre organizzazioni, alcune in ambito esterno alla Birmania, aggiungono anche opportunità educative per i giornalisti birmani. Per esempio, la fondazione Memorial Media of Indochina di Chiang Mai ha completato l’anno scorso i corsi di formazione per giornalisti del sudest asiatico, inclusi birmani. I principali finanziatori dei programmi di formazione giornalistica nella regione sono NED, Open Society Institute (OSI) e vari governi e amministrazioni europei… Un certo numero di attivi programmi di formazione sui media attirano gli esuli e i residenti dalla Birmania a Chiang Mai per corsi di giornalismo che vanno da una settimana ad un anno. Questi programmi di formazione identificano i giornalisti che potrebbero essere attivi nelle comunità della Birmania, così come nelle ONG in Thailandia, aiutandoli ad assicurarsi posizioni per riferire sui media birmani nella regione.

I programmi di formazione contribuiscono a garantirsi che le generazioni future potranno sostituire i fondatori delle organizzazioni attuali”. Il cablo collega anche i finanziamenti statunitensi all’atteggiamento prevedibilmente “pro-americano” adottato da chi riceve tali finanziamenti: “Nel rinnovo dei contatti dei diplomatici statunitensi che interagiscono con i media stranieri, la comunità dei giornalisti in esilio rimane fermamente pro-americana. Gruppi come DVB e The Irrawaddy cercano continuamente maggiori informazioni dai funzionari statunitensi ed utilizzano frequentemente interviste, comunicati stampa e clip audio pubblicati sui siti web del governo USA. Un colloquio dal vivo con un diplomatico statunitense è merce preziosa, che può anche instillare una sana concorrenza tra i notiziari rivali nel scovare uno scoop. Un colloquio con Irrawaddy del 2006 di EAP DAS Eric John fu replicato in diversi articoli e diffuso ampiamente in tutta la comunità in esilio e sui media principali. I finanziamenti del governo USA svolgono un ruolo in questa buona volontà…” Senza dubbio, Suu Kyi e coloro che occupano i vertici del suo governo, sono il prodotto di decenni di sostegno, formazione e indottrinamento di Stati Uniti e Regno Unito.

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I “terroristi rohingya” sostenuti dai sauditi non rappresentano i rohingya più di quanto lo SIIL rappresenti i sunniti
Una narrativa infelice si afferma sui media alternativi, raffigurando la minoranza rohingya del Myanmar come “islamisti” che adottano la “jihad”. In realtà, la minoranza rohingya in Myanmar vi ha vissuto per generazioni. Fino a poco tempo fa, vivevano in armonia con i vicini buddisti in tutto il Paese, anche nello Stato Rakhine. Molti dei punti di discussione adottati contro i rohingya sono letteralmente copiati dai gruppi estremisti statunitensi nel Myanmar. Le affermazioni secondo cui il termine “rohingya” sia semplicemente finto, perché in realtà sarebbero illegali bengalesi che dovrebbero essere espulsi dal Myanmar, sono i punti fondamentali dei sostenitori violenti di Suu Kyi, i “monaci della rivoluzione zafferano” di anni prima. I sostenitori sempre più autoritari di Aung San Suu Kyi, molti presenti durante la rivoluzione di zafferano del 2007, sono i primi agitatori della crisi sui rohingya.

Mentre i media occidentali tentano di ritrarre l’esercito come responsabile delle violenze, sono spesso i militari che intervengono per fermare gli estremisti che attaccano i villaggi rohingya e i campi profughi che cercano di distruggere e bruciare. Fu il governo militare a cercare di concedere la cittadinanza ai rohingya, cui si oppose violentemente il partito politico di Suu Kyi e i suoi sostenitori, concludendolo una volta che Suu Kyi è andata al potere. Ultimamente i media occidentali hanno notato l’emergere dei terroristi filo-rohingya che avrebbero effettuato numerosi gravi attentati contro unità di polizia e militari nello Stato Rakhine. Naturalmente, alcun gruppo terroristico esiste senza un sostanziale sostegno politico, finanziario e materiale. E come altri conflitti politicamente convenienti, eruttati in Libia, Siria, Yemen e Filippine, il finanziamento statunitense-saudita è evidente nelle ultime violenze in Myanmar.

The Wall Street Journal in un recente articolo intitolato: “Gli abusi in Birmania sui musulmani rohingya creano una violenta reazione“, afferma: “Ora questa politica immorale ha creato un gioco violento. L’ultima insorgenza musulmana scoppia coi militanti rohingya, sostenuti dai sauditi, contro le forze di sicurezza birmane. Mentre le truppe governative si vendicano sui civili, rischiando d’ispirare ancor più i rohingya alla lotta”. L’articolo afferma inoltre: “Chiamato Haraqat al-Yaqin, in arabo “Movimento della Fede”, il gruppo risponde a un comitato di emigrati rohingya alla Mecca e a quadri di capi locali con esperienza di guerriglia all’estero. L’ultima campagna, che prosegue da novembre con attacchi e attentati che hanno ucciso diversi agenti di sicurezza, è stata approvata dal clero in Arabia Saudita, Pakistan, Emirati ed altrove. I rohingya “non sono mai stati una popolazione radicalizzata”, osserva ICG, “e la maggioranza della comunità, anziani e capi religiosi hanno precedentemente definito le violenze controproducenti”. Ma questo sta rapidamente cambiando. Haraqat al-Yaqin fu fondato nel 2012 dopo che i disordini etnici nel Rakhine uccisero circa 200 rohingya ed ora si stima che abbia centinaia di combattenti”.

Mentre molti osservatori notano che le violenze a cui i rohingya sono sottoposti provocherà una reazione violenta, le insorgenze armate non emergono spontaneamente. Atti di violenza isolati, bande organizzate con capacità limitate sono possibili, ma la violenza che Wall Street Journal descrive non è una “reazione”, è militanza motivata da interessi politici esteri e finanziata da stranieri che operano con la scusa della “reazione”.

Aung San Suu Kyi e terroristi “rohingya”: benzina e fuoco, non buoni contro cattivi

L’attuale regime cliente che presiede il Myanmar, creato e perpetuato dal denaro e dal sostegno statunitensi, affronta un terrorismo intenzionalmente finanziato ed organizzato dal più vicino alleato degli USA in Medio Oriente, l’Arabia Saudita. È una combinazione di benzina e fuoco, gli strumenti di un solo incendiario che intenzionalmente crea una conveniente confusione geopolitica. Va notato che lo Stato Rakhine è il punto di partenza di uno dei vari progetti cinesi dell’One Belt One Road, che collega con un’infrastruttura il porto di Sittwe in Myanmar alla città meridionale della Cina di Kunming. Non solo le violenze nello Stato Rakhine minacciano gli interessi cinesi, ma creano anche il pretesto per il coinvolgimento militare diretto degli Stati Uniti, sia sotto forma di “aiuto antiterrorismo”, come offerto alle Filippine per combattere i terroristi dello Stato islamico sostenuti da USA-Arabia Saudita, o sotto forma di “intervento umanitario”.

In entrambi i casi, il risultato saranno militari statunitensi piazzati in una nazione direttamente confinante con la Cina, nell’Asia sudorientale, proprio ciò che i politici statunitensi vogliono da decenni. Ad esempio, il Progetto per un nuovo secolo americano (PNAC) in un documento del 2000 intitolato, “Ricostruire le difese americane” (PDF), dichiarava apertamente l’intenzione di stabilire una presenza militare ampia e permanente nell’Asia sudorientale. La relazione affermava esplicitamente che: “…è il momento di aumentare la presenza delle forze statunitensi nel Sud-Est asiatico”. Riferiva in dettaglio, affermando: “Nel Sud-Est asiatico, le forze statunitensi sono troppo sparse per rispondere adeguatamente alle crescenti esigenze della sicurezza. Dal ritiro dalle Filippine nel 1992, gli Stati Uniti non hanno avuto una significativa presenza militare permanente nell’Asia sudorientale. Né le forze statunitensi nell’Asia nord-orientale possono facilmente operare o schierarsi rapidamente nel Sud-Est asiatico, certamente non senza mettere la presenza in Corea a rischio. Fatta eccezione per i pattugliamenti delle forze navali, la sicurezza di questa regione strategicamente significativa e sempre più tumultuosa è stata abbandonata dagli statunitensi”.

Notando la difficoltà di mettere truppe statunitensi laddove lo si desidera, il documento del PNAC notava: “Questo sarà un compito difficile che richiede sensibilità verso i diversi sentimenti nazionali, ma è ancor più impegnativo con l’emergere di nuovi governi democratici nella regione. Per garantire la sicurezza dei nostri alleati e delle nazioni recentemente democratizzate in Asia orientale, gli Stati Uniti possono contribuire a garantirsi che l’ascesa della Cina sia pacifica. Infatti, nel tempo, il potere statunitense e degli alleati nella regione può fornire la spinta al processo di democratizzazione nella Cina stessa”. Va notato che il riferimento del documento all’emergere di nuovi governi democratici nella regione va agli Stati clienti creati dagli Stati Uniti per conto dei propri interessi, e non costituiscono in alcun modo dei “governi democratici” che rappresentano gli interessi del popoli dai “sentimenti nazionali” che in primo luogo si oppongono alla presenza militare statunitense nella regione. Nel 2000, gli Stati Uniti avevano diversi potenziali regimi clienti, tra cui Suu Kyi in Myanmar, Thaksin Shinawatra in Thailandia e Anwar Ibrahim in Malesia. Da allora, rimane solo Suu Kyi, mentre Shinawatra e sua sorella sono fuggiti all’estero, e Ibrahim è in carcere.

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Conclusioni

È importante che anche lettori ed analisti capiscano diversi punti chiave della crisi in Myanmar:
– Aung San Suu Kyi e il suo partito sono mere creazioni degli interessi statunitensi e europei;
– i rohingya hanno vissuto in Myanmar per generazioni;
– i terroristi rohingya, sostenuti dai sauditi, non rappresentano il popolo rohingya più di quanto lo Stato islamico rappresenti i sunniti in Siria e Iraq;
– Questi “militanti” sono ampiamente sostenuti e diretti dall’Arabia Saudita e non rappresentano la legittima “reazione” alle violenze anti-rohingya;
– Gli Stati Uniti non cercano un “cambio di regime” in Myanmar, ma di spezzare gli interessi cinesi, annullare i legami Cina-Myanmar e, se possibile, piazzare militari statunitensi al confine con la Cina.
Più ci si allontana da questi fatti, come gli analisti iniziano a fare, più lontani dalla verità ci si ritroverà mentre il conflitto in Myanmar continua. Lettori ed analisti dovrebbero sospettare delle narrazioni basate sulla retorica ideologica o costruite sull’analogia geopolitica, piuttosto che su prove concrete su finanze, logistica e motivazioni socioeconomiche. In Myanmar, il movimento di Suu Kyi, le violenze anti-rohingya e la presunta “reazione” sono accompagnati da prove estremamente evidenti e significative. È un testamento della gravità e complessità della manipolazione che l’occidente è ancora capace d’intraprendere mettendo in pericolo non solo la maggioranza della popolazione del Myanmar, buddista o rohingya, che desidera vivere in pace, ma l’intera regione mentre gli Stati Uniti tentano di continuare a perseguire l’egemonia regionale.

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Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

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