Nati per amare

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pere

di Costanza Miriano

Vuoi venire a parlare di amore ai giovani?

No. Ovviamente non voglio, perché i giovani sono l’uditorio più complicato e più difficile da convincere, e io mi spavento sempre un sacco quando devo mettermi davanti a loro. E poi mi fanno sentire vecchia di età, ma non abbastanza da diventare autorevole. Ma siccome me lo chiedi tu, e per giunta con quella faccia piena di entusiasmo, come faccio a dirti di no? Quindi tecnicamente la risposta è: no, non voglio, ma sì, vengo.

E così per colpa di Pierluigi Bartolomei sabato mattina mi sveglierò in Toscana, dopo avere fatto due incontri venerdì sera (Prato e Arezzo), e fresca fresca, nel pigiama leopardato appositamente comprato, salirò molto prima dell’alba su un treno per Roma dove alle 11 alla Terrazza Borromini parlerò di amore ai fidanzati, o agli aspiranti tali (venite tutti anche singoli, così ci abbiniamo), o anche a quelli che sono stati fidanzati venticinque anni fa. Contemporaneamente, da altri posti bellissimi di Roma, faranno lo stesso Pierluigi, Beatrice Fazi e padre Pietro Marini. Venerdì avrà aperto col botto Franco Nembrini.

Quindi, quanto a esserci ci sarò. Sveglia non so, in piedi di sicuro. Ma come si fa a parlare ai giovani di amare per sempre? Credo che il lavoro educativo sia IL problema dell’Occidente. Il problema per antonomasia. E di certo io non ho la soluzione. A dire il vero credo che quello che ci è richiesto sia un lavoro artigianale. Un colpo di pialla alla volta. Per tentativi. Sperando di sbagliare piano almeno con i nostri figli. Di fare poco male, o di farne in modo che sia rimediabile.

Prima di educarci all’amore dobbiamo educarci, o essere educati alla vita. E come dicevo questo è IL problema dell’Occidente sazio e stanco, disabituato alle frustrazioni, poco familiare con la fatica che qualche decennio fa era naturalmente imposta dalle condizioni di vita, un occidente dove si cresce con l’idea che il desiderio abbia comunque diritto di essere in qualche modo soddisfatto. Ci pensavo qualche giorno fa davanti a una sterminata parete di biscotti, in un grande negozio molto chic. E pensavo che quello era niente in confronto a certi meravigliosi supermercati americani: ne ricordo uno in particolare in California, nel quale i tipi di pane si moltiplicavano a perdita d’occhio, occupando una parete lunga a occhio e croce quanto la Muraglia cinese. Una sterminata sfilata di un’infinità di tipi e marche, e, per ogni tipo, ogni variante possibile: con i semi di lino di girasole di curcuma di chia, con o senza lievito, con sale sopra o solo dentro, integrale, crisp, thin, crunchy, cotto ben cotto medio, a fette a quadrati a tocchetti e via dicendo. Potevi pattinare ore nelle corsie (purtroppo non ho incontrato il grande Lebowski in accappatoio) piene di ogni possibile merce. Ora, io non ho niente contro la varietà di cibo. Né contro la gente che ha dei gusti precisi (provate a chiedere a mio marito, da me supplicato perché andasse a cercare il chococaviar della Venchi al 75% in piena estate, visto che, nei negozi, zelanti commesse mi offrivano tavolette di cioccolato con la stessa percentuale di cacao, pensando che potesse essere lo stesso, e io le guardavo come se mi stessero offrendo un ratto scuoiato, perché se non è quel cioccolatino io muoio). Lo so, sono viziata anche io come molti (di sicuro come i clienti di quel supermercato di Los Angeles).

Ai miei figli quando fanno gli schizzinosi sul cibo racconto sempre di quando Pinocchio dice schifato che non gli piacciono le pere, salvo poi, affamato, finire per mangiarle sbucciate, passare alla buccia e infine buttarsi anche su torsoli, semi e picciolo. Loro mi guardano compassionevoli – quanto è noiosa, poverina – perché sanno benissimo che se non mangeranno quello che è nel piatto anche se riuscirò a darmi un contegno da madre dignitosa e non darò loro niente altro, sarà solo questione di minuti, poi potranno andare alla credenza e fare il pieno di grassi idrogenati appena mi giro dall’altra parte. Insomma, fino a che pensiamo che sia nostro diritto supremo e assoluto scegliere, desideriamo soddisfare il nostro gusto, come è giusto che sia.

Credo che in fondo, ma proprio al fondo della questione, questo derivi dal rifiuto dell’idea che noi non ci diamo da soli, ma siamo dati a noi stessi da un creatore. È l’antropologia contemporanea, come spiega benissimo David Henderson in un articolo, appena uscito in USA. Sembra parlare di omosessualità, ma in realtà va più a fondo. Parla di persona e sessualità. Secondo l’antropologia cristiana c’è un ordine di creazione che trascende l’individuo, e le esperienze che ognuno può fare sono sempre incorniciate da un’esperienza primaria, quella di essere creati uomo o donna. Parlare di orientamento sessuale indipendente, non necessariamente coincidente con quello biologico (“uno sbaglio della mente umana”, lo ha definito il Papa), perpetua invece una visione della persona umana come unica fonte di significato e ordine dell’universo. La vittoria del movimento per i diritti dei gay – uso volutamente questa parola di propaganda – nel ventesimo secolo non è altro che “un’ulteriore iniziazione a una prospettiva già cupa e nichilista in cui le persone stanno perdendo di vista la bontà della loro esistenza”. E aggiunge che usare la parola orientamento “assoggetta tutte le persone a ciò che è essenzialmente un’antropologia gay”. Dove ovviamente noi non stiamo a giudicare la condotta sessuale di nessuno, ma la capacità di relazione che è scritta nel rapporto tra maschile e femminile, unico a cui è consegnata la fecondità. Come dice un mio amico sacerdote, questa è una generazione di eunuchi, incapaci di sposarsi, perché imbevuti fin nel midollo dell’idea secondo cui le relazioni affettive e sessuali devono servire per “farmi stare bene”.

E dunque, se non sono sicuro che starò bene, dopo avere provato e riprovato in pienezza, tutto di quella relazione, magari lascio perdere, anche perché difficilmente nel mio percorso sono stato abituato alle frustrazioni. Chi me lo fa fare? Perché rischiare di perderci qualcosa?

Invece noi siamo convinti che valga la pena di perderci non solo qualcosa, ma tutto. E anzi, che se non si perda tutto non sarà valsa la pena. Fondiamo questa certezza in Dio, che è il garante della relazione che desideriamo. Perché tutti, credenti e non, desideriamo questa pienezza, un amore che sia perfetto, totale, eterno, esclusivo, indefettibile. Noi siamo nati per amare, questo è certo (chi ha scelto questo bel titolo per gli incontri?), questo è impresso a fondo nel nostro cuore. Solo che non ne siamo capaci, e solo in Dio si attinge la grazia di rispondere – balbettando, esitando, cadendo, provando e riprovando – a questo desiderio. Certi che noi siamo dati a noi stessi da qualcuno che ci ama di un amore pazzo, un mendicante che aspetta la nostra risposta di amore senza esigerla, ma pronto a entrare in una storia d’amore con noi.

Siamo stati donati a noi stessi – “io sono Tu che mi fai” – ma non ci apparteniamo, ed è molto più bello così. Siamo nati maschio o femmina, e quella fatica che ci tocca fare per parlare il linguaggio dell’altra specie (nel mio caso la fatica è multipla perché l’esemplare che mi è stato dato in dotazione non solo parla un linguaggio diverso, ma non parla proprio), non è un errore di programmazione, ma è esattamente il percorso che Dio ha scelto per salvarci dalla solitudine, dall’egoismo, dalla tentazione di non perdere la nostra vita.

Quindi, educare i giovani – questa è la mia esperienza prima di tutto di madre – è impossibile, se non mostrando una bellezza, l’evangelizzazione per inseguimento che dice papa Francesco. E anche se io non ho niente di particolarmente significativo da mostrare, o per cui farmi inseguire (non ho una storia esemplare, né diversa da quella di moltissime altre), posso raccontare che c’è una bellezza che ho intuito e che da allora inseguo, nella relazione con il mio sposo: il volto dello Sposo che, lui solo, ci rende capaci di ri-amare. Solo questo possiamo, perché amati senza misura. E posso raccontare che ne vale veramente la pena. E che il sacramento ha la potenza incredibile e misteriosa e soprannaturale di trasformare i cinque pani e i due pesci del nostro amore debole e difettoso e incostante in qualcosa che possa nutrire una folla – noi e i nostri figli e quelli che incontreremo – anche se quando si è fidanzati sembra impossibile che quella poca roba possa diventare così tanto. Possa diventare per sempre.

Ps Mi dicono che venerdì ci si iscrive, ma se potete venire solo al mio incontro, sabato (come mi hanno detto molti che venerdì lavorano), all’ingresso dite che siete miei cugini.

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