L‘articolo di Giovanna Parravicini su Aleksej Navalny, pubblicato sul sito di CL, esalta il coraggio e il sacrificio del noto critico del Cremlino, evidenziando il suo impatto sulla società russa e il suo impegno per la libertà. Tuttavia, un’analisi approfondita del testo rivela significative omissioni nella rappresentazione di Navalny.
Una delle principali criticità risiede nella mancata discussione della natura complessa e controversa di Navalny. Lungo l’arco della sua attività politica, è stato descritto dai media occidentali come un faro di resistenza contro la corruzione in Russia. Questa immagine, però, si presta a interpretazioni fortemente influenzate dalla narrazione e dalla terminologia occidentali, promosse da un establishment che mira a contrapporsi e a disgregare la società russa.
Adottando una visione occidentale che cataloga il governo russo come un “regime autocratico” e Putin come uno Zar, Navalny ha lanciato una critica incisiva alla realtà russa, dipingendola come intrinsecamente problematica e corrotta. A differenza di figure storiche quali Solzhenitsyn, tuttavia, Navalny non ha mai formulato una critica esplicita nei confronti della società occidentale, nonostante questa mostri segnali preoccupanti di un’evoluzione verso un autoritarismo sempre più evidente. Tale tendenza si manifesta con un crescente divario sociale, un’autorità sanitaria che sopprime il dissenso privilegiando l’interesse collettivo rispetto alla libertà individuale, una rappresentatività politica ormai solo simbolica, l’adozione di politiche sempre più invasive che mirano a riformare radicalmente la vita e il pensiero delle persone, e una libertà di parola progressivamente assediata e limitata.
In questo quadro, sarebbe auspicabile che l’urgenza di interrogarsi, la responsabilità e il risveglio dell’umanità enfatizzati venissero valorizzati con pari intensità anche quando si riflette sulla nostra società. Tuttavia, un’analisi critica sulla gestione della pandemia e sui temi appena menzionati, brilla per la sua assenza sulle stesse pagine che hanno ospitato l’articolo.
Un punto critico dell’articolo è l’insufficiente contestualizzazione di Navalny all’interno dell’ampio scenario politico russo e delle sue relazioni internazionali. Benché Navalny venga percepito come un simbolo di resistenza contro un regime ritenuto autocratico, il suo seguito, limitato al 2%-5% della popolazione, lo identifica come una minoranza nell’ambito dell’opposizione russa. In questo contesto, il Partito Comunista si distingue per una presenza decisamente più rilevante. Presentare Navalny come un’icona universale di resistenza semplifica eccessivamente la politica russa, ignorando la diversità e la complessità delle forze oppositive nel paese e, soprattutto, il fatto che il movimento di Navalny abbia spesso rispecchiato visioni e interessi propri dell’Occidente, attualmente in contrapposizione con la fede cristiana. Parimenti, l’idea che Navalny rappresenti la principale figura dell’opposizione liberale in Russia è problematica, dato che il liberalismo, così come inteso nell’Occidente contemporaneo, sta evolvendo verso nuove forme di autoritarismo incentrate sul controllo.
Inoltre, è rilevante che la morte di Navalny sia stata subito interpretata come omicidio di stato ed utilizzata dai leader occidentali come occasione per un’escalation marcata con la sottoscrizione di accordi minacciosi verso la Russia, riarmo generalizzato e sanzioni moltiplicate. Mentre proprio ieri, il capo dei servizi segreti ucraini ha sottolineato che la causa della morte di Navalny è stato un evento naturale (trombosi). Del resto, bastava leggere i titoli delle prime pagine dei giornali per rendersi conto di come la prospettiva di rinnovato bellicismo e il riarmo dell’Europa, con conseguente giustificazione di compressione delle libertà individuali, sia ormai la strada scelta che inciderà profondamente, in senso negativo, sulle nostre vite. La mancata discussione di queste interpretazioni e del ruolo che la figura di Navalny ha giocato (volontariamente o meno) nella narrativa occidentale e nella politica interna russa rappresenta una lacuna significativa nell’articolo. La responsabilità di un profondo conoscitore della Russia è anche non ignorare la valenza politica e la strumentalizzazione che certe parole offrono. Pur riconoscendo che “sul Navalny «politico» e le sue posizioni si può discutere. Non tutti, certamente, erano d’accordo con i programmi da lui presentati in passato..” Come non evocare, ad esempio, il simbolismo della rosa in relazione alla Rosa Bianca, quel celebre collettivo di resistenza che sfidò la dittatura nella Germania nazista?
Altro importante punto critico riguarda la rappresentazione della libertà. Le parole attribuite al gruppo rock DDT durante un concerto in memoria di Navalny, «A noi russi, lui ha parlato della libertà. E ne ha parlato bene. Ci ha ricordato che tutti noi possiamo diventare liberi nel senso migliore della parola». E ha voluto dettagliare: «Perché la fede senza libertà è fanatismo, fanatismo bello e buono. E il lavoro senza libertà è schiavitù. Una schiavitù pesante, pesantissima. E l’amore senza libertà è dispotismo. Niente esiste senza libertà. Tutto si tinge di nero», esprimono una visione della libertà che, sebbene potente, non risuona con tutti. La libertà, come concetto, può avere molteplici interpretazioni, e l’articolo sembra adottare una visione specifica che si presta grandemente ad ambiguità e richiama proprio il trascorso di Navalny, senza riconoscere chiaramente altre prospettive.
L’accostamento di questo tipo di libertà invocato e quella richiamata dalla figura del cardinale Van Thuan è particolarmente illuminante. Van Thuan, che ha trascorso anni in prigione a causa della sua fede, offre un esempio di libertà che emerge nonostante le circostanze esterne, radicata nella fede cristiana e nell’amore incondizionato, anche verso i propri persecutori. Questa visione della libertà, che trova forza nel cuore e nella fede piuttosto che nelle circostanze materiali, offre un contrasto significativo con la narrazione intorno a Navalny.
In definitiva, l’articolo di Parravicini celebra giustamente il coraggio e il sacrificio di “un uomo che si è giocato fino alla fine, con tutta la sua umanità”, ma una riflessione critica suggerisce la necessità di una narrazione più complessa e sfumata. La discussione sulla libertà, in particolare, richiede un riconoscimento delle diverse interpretazioni e esperienze, che possono divergere su cosa significhi lottare per la libertà. È significativo, in questo contesto, ricordare che durante il suo soggiorno in Germania, a seguito di un episodio di avvelenamento mai del tutto chiarito, Navalny compilò una lista di 6000 sanzioni da proporre all’Occidente contro il proprio paese, nonostante sia noto che le sanzioni rappresentino uno strumento spesso ingiusto, utilizzato dall’Occidente esclusivamente nei confronti dei paesi non alleati.
La vicenda del cardinale Van Thuan ci offre una prospettiva illuminante per approfondire il concetto di libertà, insegnandoci il valore di guardare oltre l’idealizzazione acritica di determinate figure e l’importanza di evitare semplificazioni della complessa realtà contemporanea. Quest’ultima è caratterizzata da un confronto serrato tra forze contrapposte, in cui i domini della libertà e dell’oppressione si intrecciano in vari aspetti e non possono essere confinati a specifici ambiti terreni. Anzi, non può essere ignorato, parlando di libertà, che nel nostro mondo occidentale stanno ormai prevalendo certe agende ideologiche, come quelle proposte dal progetto “ricostruiamo meglio” (“build back better”), nelle sue più svariate e discutibili “agende” di ispirazione maltusiana.
Anche dal lato spirituale, bisogna infine considerare che la nostra esperienza non può essere ridotta a un singolo evento di conversione che, per quanto significativo, richiede tempo e maturazione per influenzare anche la prospettiva politica. Van Thuan ci insegna l’importanza di andare oltre le narrazioni riduttive: le battaglie per la libertà, pur nascendo da un impulso profondo, devono essere continuamente purificate e contestualizzate nella complessità della realtà.