Nel regno del modernismo, dove solo alla Tradizione è vietato l’ingresso

Cari amici di Duc in altum, la nostra inchiesta sui seminari prosegue oggi con un’altra testimonianza: è quella di P., che ci racconta la sua esperienza e ci spiega come, in base a quanto da lui vissuto, tanti problemi che sono al centro della crisi della fede, delle perplessità suscitate dal pontificato di Bergoglio e della confusione nella Chiesa trovano riscontro puntuale in ciò che si insegna, o non si insegna, nei seminari e nel modo in cui si vive in questi luoghi, i quali non sempre, a quanto sembra, sono centri di autentica formazione umana e spirituale.

La testimonianza odierna fa seguito a quelle già pubblicate qui, qui e qui.

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A.M.V.

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Così ho conservato la fede. Nonostante il seminario

Gentile Aldo Maria Valli, far luce sullo stato pietoso dei seminari cattolici significa andare alla radice della maggior parte dei problemi del cattolicesimo poiché è in questi luoghi che si forma il futuro clero. A tal riguardo, non si può sminuire la testimonianza di quanti portano fatti incontestabili stornando l’attenzione degli ascoltatori su immaginarie “cattive intenzioni” dei testimoni. Ci sono troppe situazioni emblematiche e non le si risolve con i discorsi di circostanza, come si è fatto fino ad ora, o demonizzando chi ha il coraggio di parlarne.

Ho fatto studi teologici agli inizi degli anni Ottanta, all’interno di una struttura seminariale di una tra le diocesi più grandi del nord d’Italia. Ero molto giovane e avevo l’inesperienza e l’illusione proprie dell’età. Mio padre, poco prima di morire, allarmato dalla mia forte inclinazione verso la vita ecclesiastica, mi chiese: “Perché giri troppo attorno ai preti? Che hai, tu, in comune con loro?”. Una domanda, questa, che rivelò tutto il suo implicito significato diversi anni dopo.

Essere in seminario significava per me entrare in uno status privilegiato che mi avrebbe sollevato da alcune fatiche della vita e dall’incertezza del futuro. Di questo ero perfettamente conscio. Anche perciò vi entrai, noncurante degli avvisi paterni. Il mio idealismo m’impedì di vedere subito che il cosiddetto “luogo di formazione”, in realtà, non forma nulla e, anzi, per me è stato un luogo piuttosto pericoloso. A parte gli inevitabili aspetti positivi che il vivere assieme può recare, non si può parlare di vera formazione ma d’informazione, poiché si ricevono nozioni tutto sommato generiche e un po’ di metodo nello studio. Gli esami sono sempre molto facili, come se ci fosse l’accordo preventivo di promuovere tutti. Ogni seminarista, allora come oggi, si forma una sua immagine personale di prete che non gli viene contestata, a meno che egli non si mostri troppo tradizionale. L’individualismo religioso, per cui alla fine ognuno è prete a “modo suo”, è più forte di ogni elemento tradizionale, segno dell’orientamento praticamente protestante invalso nei seminari.

Ecco subito una delle più grandi contraddizioni dell’istituzione seminariale postmoderna: quella di porsi in antitesi direi patologica con la formazione classica di cinquanta, sessanta anni fa, una formazione che, pur con i suoi limiti, riusciva a dare un’identità molto più definita di quella odierna, caratterizzata dal “prete fai da te”. Di conseguenza, attualmente, in luogo di formare  sacerdoti i seminari sfornano “laici che fanno i preti”, il che non è affatto la stessa cosa di “essere” preti. “Dopo il concilio noi chierici abbiamo rifiutato l’aspetto monastico che avevamo prima”, mi disse un anziano prete, e c’è veramente da crederci! La mentalità che si respira nei seminari, infatti, vuol essere intenzionalmente piuttosto secolarizzata. Una delle prime asserzioni a me rivolte, entrato in seminario, fu: “Oh, ecco finalmente qualcuno che viene dal mondo e che c’insegnerà qualcosa!”. La frase fu detta seriamente, perché nella Chiesa, allora come oggi, si guarda e si prendono lezioni dal mondo, ma aveva anche un contenuto scherzoso, poiché era fin troppo palese che ero un ragazzo tutto casa-chiesa, con nessuna caratteristica mondana. In realtà, quindi, significava: “Ecco uno che, purtroppo, non ci insegnerà nulla di quanto ci serve e viene dal mondo!”.

L’anno dopo il mio ingresso, fui mandato in una parrocchia il cui parroco, invece d’insegnarmi il mio ruolo, mi mise immediatamente a contatto con la gioventù. Dovevo arrangiarmi: o imparavo il “mestiere” da solo o naufragavo e nessuno mi avrebbe salvato. Dovevo fare il catechista e l’animatore parrocchiale, cosa tutt’altro che improvvisabile per il mio carattere timido e schivo di allora. Capii che sarebbe bastato “fare la commedia”, ma per me era impossibile fingere. Così, non riuscendo bene in queste attività, un bel giorno il parroco si arrabbiò e gli sfuggì una frase rivelatoria: “Vogliamo giovani rotti ad ogni esperienza, non come te!”. Essere navigati nel mondo ed essere “rotti ad ogni esperienza” è ciò che rendeva e rende ideale il seminarista agli occhi dei superiori ecclesiastici di un seminario. Il seminarista inginocchiato che prega da solo in cappella, magari in veste talare (cosa oramai praticamente proibita), è solo cordialmente compatito perché non offre un’immagine di “chiesa giovane” e “in uscita”, come si dice oggi.

Con questi presupposti, l’avvento e lo stile di papa Francesco non mi stupirono affatto. Infatti, già negli anni Ottanta ero stato abituato a vedere uno stile molto simile, teologicamente assai approssimativo e contestatore, animato da considerazioni sociologiche piuttosto che da spiritualità, invaghito dalle innovazioni ecclesiastiche sudamericane, liturgicamente iconoclasta, tutto improntato sull’apparire. Si doveva solo aspettare che questo “spirito” giungesse a caratterizzare perfino la persona del papa, come di fatto è accaduto.

Oggi si parla di orientamenti sincretistici da parte di Bergoglio? Ebbene, già allora li vedevo nel modo con cui si accoglievano in seminario certe persone che pregavano in cappella con mantra indù o davano la comunione, senza porsi il minimo problema, ai protestanti di Taizé venuti a trovarci.

Oggi si parla di protestantizzazione nella liturgia? Già allora la vedevo nell’opposizione incredibile verso qualsiasi elemento che potesse ricondurre alla tradizionale liturgia latina, alla pietà e alle forme simboliche antiche. I paramenti liturgici tradizionali erano usati in seminario ma solo durante il carnevale! Allora qualche seminarista indossava a mo’ di scherno mitrie damascate (messe di sbieco in segno di spregio) o piviali, ovviamente con l’accondiscendenza dei superiori. Tutto faceva ulteriormente emergere che il termine stesso di sacro era avversato e deriso.

Oggi si constata con dolore l’attività omosessuale tra il clero cattolico? Già allora ne notavo tutti i presupposti, vista l’alta percentuale di seminaristi omosessuali presenti tra noi, alcuni dei quali non facevano segreto dei loro gusti sessuali, nel totale disinteresse (o complicità?) dei superiori. Giusto un paio di esempi ne daranno l’idea. Non era mistero che qualcuno venisse da una vita gay decisamente libertina nella quale aveva imparato a far l’adescatore, cosa che, purtroppo, continuava a fare nello stesso seminario. Era inutile denunciare la cosa perché chi lo avesse fatto avrebbe suscitato il fastidio dei superiori, i quali avrebbero dovuto render conto all’arcivescovo. E quest’ultimo, a sua volta, dopo una breve indagine, avrebbe fatto cadere la cosa nel nulla. Qualcun altro, nascondendo la sua caratteristica gay che comunque gli s’intuiva, era in preda a scrupoli di coscienza al punto da chiedere all’arcivescovo: “Ma davvero lei accoglie tutti in seminario?”. Il presule lo consolò rispondendogli: “Sì, certo figlio mio, tutti!”. “Ma proprio tutti, tutti?”, riprese a domandare il seminarista scrupoloso. “Tutti, tutti!”, ribatté l’arcivescovo sorridendo per fargli ben capire gli impliciti significati del termine “tutti”.

Una volta che il seminarista adescatore e quello scrupoloso furono ordinati sacerdoti, non furono capaci d’essere o rimanere parroci. Oggi il primo entra ed esce da case di cura (poiché non fa che peggiorare nella sua compulsività sessuale) mentre il secondo è nascosto in curia, dando pure lì pena e fastidio a laici e confratelli. In sintesi se ne può dedurre che la causa prima e ultima della presenza, tra il clero, di troppi elementi psico-problematici è dovuta ai superiori e alla loro mentalità liberale e fortemente individualista. Quell’arcivescovo morì qualche anno fa e un amico che lo andò a trovare ricevette da lui una specie di confessione, nella quale ammetteva di aver “sbagliato troppo” durante il suo ministero. Confessione sincera, senza dubbio, ma oramai inutile perché i danni sono rimasti e continuano a operare il loro nefasto effetto senza che altri presuli cambino orientamento o idee.

La decadenza morale del clero, che ha iniziato a essere ampiamente conosciuta da alcuni anni in qua, non può dunque essere né casuale né imputabile alla sola liberalità di costumi della società odierna. Chi, come me, ebbe l’esperienza del seminario, lo ha immediatamente capito.

Iniziato il mio terzo anno seminariale e preso atto di tutte queste situazioni, entrai in forte crisi di coscienza. Da un lato avrei voluto proseguire il mio cammino e coronare il mio desiderio, ma mi sentivo in modo troppo evidente come un pesce fuor d’acqua, senza nessuna garanzia o tutela per il futuro, tanto più che possedevo un orientamento tradizionale che mi aveva già bollato e isolato. Dall’altro, vedevo che venivano promosse le personalità più problematiche o teologicamente eretiche, il che mi poneva profonde domande sulla serietà dei superiori: volevano davvero, essi, il bene della Chiesa? Oggi penso di no, ma credo che non ne fossero perfettamente consci. Lo stesso arcivescovo del quale ho parlato poc’anzi se ne è accorto un po’ solo poco prima di morire.

Lungi dal trovare una risposta valida, la mia crisi aumentò notevolmente e mi spinse a una decisione: andai dal rettore e gli annunciai il mio desiderio di uscire temporaneamente dal seminario. Quest’ultimo, uomo pragmatico e di poche parole, mi disse due frasi assai significative: “Ricordati che questa decisione l’hai presa tu, non io”. Il che significava: “Una volta uscito di seminario, non mi addossare responsabilità che non ho mai avuto, capito?”. E poi: “Ora che esci che farai? Non ci sputtanearai mica?”. Ero troppo ingenuo per capire la malizia di questa domanda al punto che mi meravigliai assai. Oggi, però, ne colgo tutta l’inquietante valenza. Egli, in altre parole, voleva dirmi: “Hai visto fin troppo, taci che è meglio per te!”.

Questa frase indica molto bene l’atteggiamento e la mentalità di un certo clero, il suo modo di coprire e sedare, il modo in cui protegge eventuali colpevoli. Tutte cose che oggi sono venute perfettamente alla luce e che, una volta di più, non mi stupiscono affatto.

Così terminai il seminario. L’idea di rientrarvi non si concretizzò più. Oggi ho affrontato la vita. Quanto possiedo e sono l’ho guadagnato con il mio impegno, senza percorrere piste privilegiate. Sono felice d’essere stato coerente con la mia coscienza e d’aver conservato la fede, nonostante quegli ambienti. Ho inoltre ben capito che cosa volesse dire mio padre con la domanda “Che hai, tu, in comune con loro?”, domanda che se oggi rivela un mondo clericale inquietante, rivela anche che chi non vi appartiene può essere in una situazione diversa e, forse, più positiva.

Grazie per la sua attenzione e per quella dei suoi lettori.

P.

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