Nella moda, copiare è di moda

Mi perdonerete, spero, voi non-addetti-ai-lavori, se me ne esco con due articoli di fila dedicati al tema moda. Poi cambio argomento. L’articolo di oggi non lo volevo nemmeno scrivere (ggiuro!), ma me l’ha strappato dalle dita una notiziola che sta rimbalzando di sito in sito in queste ore, tra i sostenitori della moda etica.
Ma per tenervi un po’ col fiato sospeso, la notizia ve la darò in itinere, e per non snaturare troppo le mie pagine inizierò con un ampio preambolo di Storia.

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C’era una volta, tanto tempo fa, un mestiere secondo me appassionantissimo, sul quale meriterebbe di essere fatta una serie TV. Sto parlando del mestiere della spia industriale, e, nello specifico, della spia industriale del fashion. Negli anni centrali del ‘900, a cavallo del grande conflitto mondiale, l’Europa pullulava di spie industriali che si introducevano introdursi a una sfilata di moda parigina, spacciandosi, magari, per il marito della contessa di Canicattì: osservavano con occhio clinico i capi sulla passerella, uscivano, facevano rapidamente bozzetti di quanto visto, e poi li mandavano per direttissima ai clienti attraverso un volo charter, magari facendosi precedere da un telegramma con l’elenco dei materiali da procurarsi per replicare i capi.
Non ci credete? Beh, pensate solamente a questo: negli anni ’50, l’iconica (e super-innovativa) gonna a ruota à la Christian Dior fu messa in vendita da Macy’s, a New York, prima ancora che le clienti del sarto parigino potessero ricevere quelle originali. Copiare i capi d’alta moda era una vera e propria arte, praticata con dedizione e impegno soprattutto negli Stati Uniti. Vi era come un tacito accordo tra i grandi magazzini statunitensi e i piccoli atelier europei: stante che le acquirenti americane non avrebbero in ogni caso avuto modo di attraversare l’oceano per procurarsi i capi originali, i grandi stilisti europei chiudevano un occhio e lasciavano fare. Anzi: in alcuni casi, selezionavano essi stessi, tra i capi della loro collezione, quelli “sacrificabili” e ne fornivano il cartamodello ai grandi magazzini newyorkesi, con un contratto che regolamentava la produzione di queste copie autorizzate.

A descrivere nel dettaglio questi meccanismi è un grazioso libretto a firma di Jan Whitaker, Service and Style, secondo il quale i grandi magazzini di inizio ‘900 si erano addirittura specializzati per offrire alle clienti un servizio differenziato: uno di fascia alta, per chi voleva le copie esatte dei capi delle maison europee, e uno di fascia media, per chi si accontentava di un capo fortemente ispirato ai trend parigini. In realtà, pure la fascia bassa non aveva di che lamentarsi: chi era abile a cucire (cioè, praticamente qualsiasi donna sulla faccia del pianeta) poteva approfittare di pubblicazioni tipo il Vogue Pattern Book, che – siete liberi di non crederci, però è vero – metteva in vendita a pochi dollari i cartamodelli di quegli stessi capi di lusso che erano stati mostrati sulla rivista.

Insomma, il paradiso del plagio – sennonché si trattava di un plagio autorizzato (o, comunque, tacitamente accettato) che, oltretutto, non danneggiava pressoché nessuno. Con l’esclusione delle grandi dive, nessuna cittadina americana (nemmeno una americana ricca) avrebbe mai avuto agio di visitare gli atelier parigini per farsi confezionare un abito griffato “originale”. E, in ogni caso, sarebbe stato ridicolo il tentativo di impedire il proliferare di copie “ispirate a”, in un’epoca in cui ogni donna aveva una macchina da cucire (o una sarta di fiducia) e bastavano buona volontà e una foto ritagliata da un magazine per confezionarsi con le proprie mani un vestito simile a quello indossato dalla tal diva del cinema.

E quindi, perché sto per lamentarmi del fenomeno del plagio nel mondo della moda, spingendomi a dire che è un altro tra i grandi problemi che la fast fashion porta con sé?

Beh, perché nel corso degli anni le cose sono cambiate.
Oggi, a copiare i modelli di uno stilista, non è più la sciura Adelina del secondo piano che confeziona per la nuora un vestito simile a quello di Kate Middleton. Oggi, a copiare i modelli di uno stilista (esordiente) sono i grandi i marchi della moda a basso costo: colossi come Zara, Mango, Forever 21, con una pervasività e un impatto tali da costituire una seria minaccia per chiunque.
E quando dico “chiunque”, intendo proprio “chiunque”.

Nel 2008, Zara è stata denunciata da Louboutin (!! Presente, Louboutin? Quello che vende scarpe da 900 euro) a causa di un presunto plagio: il marchio low cost aveva messo in commercio una scarpa molto simile, nelle forme, a quella dello stilista parigino – e, soprattutto, caratterizzata dall’iconica suola rossa. Che è da sempre il marchio di fabbrica delle décolleté francesi.
Alla fine, è stata Zara a vincere la causa: il giudice ha ritenuto che le scarpe low cost avessero delle caratteristiche peculiari che le rendevano non confondibili con quelle parigine. Simili sì, ma non confondibili.
In questo caso, è pur vero che ben difficilmente il cliente-medio di Louboutin deciderà “beh, sai che c’è? A me, della scarpa, l’unica cosa che interessava è la suola rossa, mo’ vado da Zara e risparmio un mese di stipendio, furbo che sono!”. Però, come osserva Riccardo Falcinelli in Cromorama, “è chiaro che Louboutin nella sostanza ha perso la sfida: se tutti si mettono a produrre scarpe dalle suole di colori diversi, per esempio scarpe nere con la base turchese, nel giro di un decennio l’idea perderà di smalto, riconoscibilità e paternità. Del resto chi ricorda oggi (se non gli addetti ai lavori) quale marca ha lanciato per prima i post-it gialli?”.
E se Louboutin ha sentito il bisogno di trascinare in tribunale una ditta che se ne sta in tutt’altra fascia di mercato, invece di restare a guardarla dall’alto in basso con sdegno e commiserazione, probabilmente il pericolo è percepito come ben reale.

Mettiamola così: in un modo o nell’altro, Louboutin sicuramente sopravviverà, forte del prestigio guadagnatosi nel jet-set. Quello che spiace e che innervosisce, invece, è quando i grandi marchi del low-cost copiano le creazioni di stilisti esordienti o di piccoli marchi a diffusione locale. Ché, a parte il danno oggettivo (è difficile esordire, se le tue collezioni sanno di “già visto”), mi verrebbe da dire “ma santa la miseria, fatturi 2.260 milioni di euro all’anno: ce li avrai i soldi per assumere una squadra di bravi stilisti, invece di copiare le idee altrui come un mentecatto?”.

Fate conto che questa domanda io la stia rivolgendo direttamente a Mango, che – notizia di oggi – ha avuto l’infelice idea di copiare il modello di una borsa estiva che, ormai da anni, caratterizzava le collezioni di Dharma Door, un marchio australiano con un discreto seguito. In questo caso, il web è insorto, anche perché la proprietaria di Dharma Door non l’ha presa niente affatto bene e ha saputo toccare le corde giuste per far montare il caso: la cosa deprimente è che Dharma Door è un marchio etico e fairtrade, e dietro a ognuna di quelle borse che Mango copia a cuor leggero c’è tutto un modo di sapienza e di artigianato che, ‘nsomma… Mango, ma che davvero avevi bisogno di abbassarti a questo?

Pensate che sia un caso isolato?
Assolutamente no.

Provate ad approfondire cercando su Google, probabilmente dopo qualche minuto vi cascherà la mascella.
È pur vero che proporre ai clienti abiti a basso costo ispirati ai trend delle passerelle d’alta moda è, effettivamente, la vocazione commerciale dei marchi della fast fashion. Ma tra “ispirazione” e “copia pedestre”, passa un bel po’ di strada, e questi marchi hanno la spiacevole tendenza ad accontentare le velleità fashion dei loro clienti portando in vetrina dei capi che non sono ispirati a; sono proprio una copia quasi esatta!
Da un lato, le moderne tecnologie (con le sfilate di stilisti esordienti trasmesse in streaming in tempo reale. O con le foto ad alta risoluzione per cui basta zoommare per capire che tipo di bottoni sono stati usati e cogliere l’esatto colore Pantone del pizzo) rendono il plagio facile come non è mai stato. Da un altro lato, ammesso che il plagiato ti becchi, basta un piccolo risarcimento per farlo stare buono. Anche perché, in molti casi, la legge è comunque dalla tua parte: basta che il design subisca una anche solo minima variazione (tipo la famosa scarpa di Zara con la suola rossa, quasi identica, ma non del tutto, alla scarpa di Louboutin) perché i tribunali stabiliscano che non v’è, tecnicamente, plagio.

Peggio ancora, pare che non esista negli USA una legge che tutela la proprietà intellettuale di un certo disegno di moda (o, quantomeno, non esisteva nel 2012, quando Elizabeth Cline scriveva il suo Siete pazzi a indossarlo). Sono tutelate dalla legge sui copyright le stampe (cioè i disegni sulla stoffa, per capirci), e anche il design dei gioielli, ma non il modello di un capo d’abbigliamento. Intervistata dalla Cline, la fondatrice del Fashion Law Istitute spiega che, secondo la legge statunitense, i vestiti sono oggetti esclusivamente funzionali (sic!) e dunque non possono essere soggetti a copyright. Sicché, protetti da una legislazione favorevole, alcuni marchi americani come Forever 21 fanno della copia pedissequa il loro stile di vita.
(No, ma sul serio. A un certo punto hanno plagiato il merchandising di Planned Parenthood, rendiamoci conto).

Laddove è scattata la denuncia, Forever 21 ha sempre optato per chiudere la questione offrendo alla controparte un convincente accordo extragiudiziario. Talvolta se ne è pure uscita con lanci di agenzia alquanto pittoreschi, tipo: il fatto è che il nostro team di stilisti è piccolissimo, la maggior parte dei mostri modelli e delle nostre stampe le compriamo direttamente dai fornitori: loro ci propongono un capo, e se a noi piace ne autorizziamo la produzione. Che ne sappiamo, noi, se i nostri fornitori copiano?

Una comoda scusa (chissà poi se è vera), ma che a me fa inorridire sotto un altro punto di vista: ma che razza di marchio di moda è, uno che non ha una sua identità, non ha un suo stile, e campa facendo una veloce cernita tra i bozzetti che gli vengono proposti da povere modiste presumibilmente malpagate in qualche buco del Terzo Mondo? Se è vero che molte di noi comprano un vestito non solo per coprirsi, ma anche per esprimere qualcosa di sé, quanto è deprimente pensare di star dando i propri soldi a un marchio che si cura così poco delle sue clienti da affidare al caso persino l’immagine del marchio stesso?

È per questo che a me piace comprare in modo etico e da piccoli marchi: ditte che probabilmente sono gestite da un manipolo di colleghi che si chiamano per nome, quando non, addirittura, da una singola imprenditrice che ha rischiato il tutto per tutto, s’è lanciata, e ricorda e conosce ad uno ad uno i suoi clienti.
È mondo più onesto, più buono, più lento, all’antica; più vicino a quella che secondo me è l’economy of Francesco di cui (vivaddio) la Santa Sede promette di parlarci presto. Ecco perché non trovo fuori luogo queste incursioni economico-modaiole, di tanto in tanto, su queste pagine.

(Il prossimo articolo, comunque, riguarda la Chiesa e i pesci parlanti. Sarà appassionante).

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