di Gian Micalessin – – it.sputniknews.com
La decisione dei giudici dei Strasburgo fa piazza pulita delle pretese dei fondamentalisti dell’accoglienza cancellando il pretesto del “porto sicuro” e avvallando la politica dei “porti chiusi” introdotta da Matteo Salvini. Altro che violazione dei diritti umani. Altro che diritto al “porto sicuro”. L’Italia non può esser accusata di nulla e può continuar a tenere alla larga la Sea Watch e le altre navi delle Ong che con il pretesto della ricerca di un “porto sicuro” pretendono d’approdare solo e soltanto a casa nostra.
A dirlo non è Matteo Salvini, ma una Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo difficilmente sospettabile di parzialità nei confronti dell’Italia. Si tratta, infatti, della stessa Corte che nel 2012 ci condannò per i “respingimenti” dei migranti verso la Libia di Gheddafi. La stessa che lo scorso 13 giugno ci ha sanzionato per aver condannato all’ergastolo a vita un conclamato mafioso.
In effetti una sentenza sfavorevole all’Italia sul cosiddetto appello dei migranti che da bordo della Sea Watch richiedevano “misure urgenti” per “impedire serie e irrimediabili violazioni dei diritti umani” sarebbe stato macroscopico. Costringere l’Italia a far approdare quella nave sarebbe significato legalizzare il “modus operandi” delle Ong che, in barba alle leggi internazionali, si arrogano il diritto di far arrivare in Europa persone prive di qualsiasi diritto all’accoglienza. Non a caso la decisione della Corte, riassunta in un comunicato stampa di una cartella e mezza, specifica come le 34 persone raccolte in mare dalla Sea Watch provengono da Niger, Camerun, Guinea, Mali, Costa d’Avorio, Ghana, Burkina Faso e Guinea Conakri.
Il dettagliato elenco delle nazionalità non è casuale. Inserirlo serve a dimostrare come nessuno degli appellanti provenga da paesi dove sono in corso quelle guerre o quelle carestie che – in base ai criteri della Convenzione di Ginevra – giustificano il riconoscimento del diritto all’asilo. Dunque gli “ospiti” della Sea Watch sono migranti irregolari a cui non è concesso mettere piede sul continente.
Già da questo punto di vista decisione dei giudici di Strasburgo rappresenta un boomerang per la Sea Watch e per tutte le altre navi delle Ong. Ma il contraccolpo più grosso in termini di precedenti giuridici riguarda la capziosa argomentazione sul cosiddetto “porto sicuro” addotto da Sea Watch e “compagni” per rivendicare il diritto a sbarcare sempre e soltanto in Italia.
Sulla base di quell’argomentazione Sea Watch, come tante altre navi delle Ong, si è rifiutata sia di sbarcare i suoi ospiti in un porto libico, sia di far rotta verso le tranquille coste della Tunisia assai più vicine alla zona in cui ha raccolto in mare i suoi 34 ospiti. In compenso ha trascorso ben dodici giorni di fronte alle acque territoriali di Lampedusa. Da quella sosta prolungata emergono due considerazioni che possono aver influenzato la decisione favorevole all’Italia della Corte per i Diritti Umani.
La prima, importantissima in termini di precedenti, è che a bordo della Sea Watch non c’è alcuna emergenza e quindi non sussiste l’urgenza di offrire un “porto sicuro”. In una corretta interpretazione del diritto della navigazione l’obbligatorietà e l’urgenza di offrire un porto sicuro ad una nave con a bordo dei naufraghi si basa infatti sulla necessità di toccare terra per mettersi al riparo da condizioni di pericolo come il mare in tempesta o avarie capaci di far affondare il natante e mettere a rischio la vita dei suoi occupanti. Questa non è certo la condizione di una Sea Watch che da 13 giorni attende all’ancora al limite delle acque territoriali di Lampedusa.
Ma quell’indugiare davanti alle coste italiane fa soprattutto capire quanto fantasioso sia il timore di una “violazione dei diritti umani” da parte dell’Italia su cui si basa l’appello dei migranti. Nessuno, sano di mente, attenderebbe per dodici giorni di entrare in una paese dove teme vengano violati i suoi diritti. Soprattutto avendo la possibilità di far verso rotta luoghi considerati meno ostili. Ma questa possibilità non è mai stata neppure presa in considerazione dalla Sea Watch che si è guardata bene dallo sfruttare quei dodici giorni per cercare l’approdo in un porto spagnolo o francese. E tanto meno ha bussato alle porte di quell’Olanda di cui batte bandiera e dove in dodici giorni di navigazione sarebbe potuta comodamente arrivare.
In prospettiva dunque la decisione della Corte di Strasburgo fornisce all’Italia un indispensabile presupposto giuridico per difendere la chiusura dei porti e tenere alla larga le navi delle Ong che con il pretesto del “porto sicuro” assediano per giorni o settimane gli approdi italiani.
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