Ora Pro Siria – Viaggio in Siria (1)

Da ORA PRO SIRIA una sorprendente testimonianza della vita-vita

http://oraprosiria.blogspot.it/2015/10/viaggio-in-siria-1.html , vale la pena di leggere:

Dal 17 al 26 ottobre mi sono recata in Siria, ospite delle monache Trappiste di Azeir, un villaggio cristiano affacciato sulla valle verdeggiante in cui scorre il fiume che separa la Siria dal Libano, non lontano da Tartous.

Su questa collina boscosa cinque suore italiane (a cui presto si uniranno due postulanti locali) stanno costruendo un luogo bellissimo e semplice dedicato alla preghiera, al silenzio, all’incontro personale con Dio, che offra agli ospiti l’occasione di incontro con un’esperienza che ogni giorno vive nell’orizzonte della libertà, cioè della coscienza di chi è l’uomo e per quale ragione sta al mondo.

Tra gli ospiti, incontro Layla, insegnante e poetessa di Aleppo che tra queste mura silenziose cerca di curare la ferita profonda della devastazione della sua città. Mi racconta dei palazzi sventrati, tra le cui macerie, con le mani, lei e i suoi famigliari cercavano i corpi dei vicini. Layla parla italiano e mi aiuta a comunicare con i cristiani del luogo e a superare la barriera insormontabile della lingua araba; con lei vado a visitare e portare un messaggio di amicizia ai bambini della scuola statale del villaggio, a cui dono del cioccolato che ho portato con me.

Il giorno successivo, l’autista del taxi che mi conduce nella Valle dei Cristiani e papà di due alunni della scuola mi racconta che i suoi due bimbi sono tornati trionfanti tenendo come una reliquia la barretta di cioccolato che non vogliono che nessuno mangi perché “l’hanno portato dall’Italia proprio per me!”… La scuola è povera ma dignitosa e organizzata con ordine; il maestro George mi dice con uno sguardo luminoso: “noi cerchiamo di rendere la vita più bella con tutti gli strumenti che abbiamo”.

‘Rendere la vita più bella’ è veramente la sfida di oggi: scopro con sconcerto che proprio tutti se ne vogliono andare. Il ritornello comune è: “non c’è più niente per me, non c’è possibilità per il mio futuro”. Nell’incontro con una famiglia cristiana di Bayda emerge tutto il dramma degli sfollati da Aleppo: la mamma rimasta vedova si reca tre volte alla settimana a lavorare a Latakia, la figlia Miriam di 16 anni frequenta con impegno il liceo artistico, il piccolo Daoud va alla scuola elementare, deve restare lunghe ore in casa da solo ma si comporta con piena responsabilità; poche frasi dicono la durezza della condizione di sfollati: “eravamo benestanti ora siamo quasi dei miserabili … Non siamo né vivi né morti…”. E Miriam si domanda: “per cosa restare qui? Restiamo per morire?”.

La difficoltà principale a cui tutti devono far fronte è l’aumento spropositato del costo della vita: gli alimenti, le medicine, qualsiasi servizio costa 10 volte più di quanto era prima della guerra. Tutti vogliono andare in Germania, convinti che come rifugiati avranno il servizio sanitario, la previdenza, la sovvenzione da parte dello Stato e la certezza di ottenere prima o poi un lavoro dignitoso.

Anche la prospettiva di finire in fondo al mare non è così terribile dopo aver vissuto i bombardamenti giorno e notte ad Aleppo o a Homs: “se muoio in mare sarà lo stesso che morire sotto le bombe” … “viviamo nella paura: adesso arrivano! Ed ogni uomo armato che viene nella nostra direzione ci fa sussultare”.

Le sanzioni internazionali strangolano ogni impresa locale e favoriscono il proliferare delle mafie e dei profittatori di tutti generi, sulla pelle degli sfollati e della gente comune.
Anche il vescovo di Tartous mons. Antoine Shbeir mi conferma che, pur essendo la cittadina di mare al riparo da bombardamenti, i giovani e le famiglie se ne vanno perché non reggono il costo della vita: lo stipendio mensile ormai basta solo a malapena a pagare l’affitto. Ma, aggiunge: “ora con l’intervento dei russi hanno ripreso un po’ di speranza e alcuni che erano decisi ad andarsene stanno ripensandoci”.
Il lavoro della ricostruzione umana sarà enorme, si è davvero rotta la convivenza e si è instaurata la sfiducia e il sospetto, Quello che prima della guerra era normale – stare fianco a fianco sunniti, alawiti, cristiani- ora è diventato tremendamente difficile: la ferita di tanta violenza, dei tradimenti, delazioni, di inimmaginabili vendette, lascia un rancore e una diffidenza che ai più pare impossibile sanare.
Tra i bambini della scuoletta di Azeir, ci sono gli orfani di due panettieri locali che si erano trasferiti a Homs per fare funzionare il forno ogni giorno e sono stati uccisi dai ‘musallaheen’, cioè i ribelli, solo perché ogni giorno lavoravano e quindi erano considerati sostenitori del governo. E gli abitanti delle cittadine cristiane situate sotto il Castello (il Crack des Chevaliers) ricordano con raccapriccio i massacri efferati che tra quelle mura sono stati compiuti dalle bande e il tormento dei proiettili che piovevano su di loro notte e dì.

I cristiani che prima erano l’elemento di moderazione nella società ora sono considerati, dai seguaci del Califfato, dei kuffar: infedeli; un ‘Califfato’ il cui sogno alberga nei pensieri di molti più sunniti di quanto si pensi … Come del resto ‘infedeli’ sono considerati anche i sunniti ‘laici’ come il Mufti Hassoun o il ministro al Moallem..

I cristiani mi parlano con sdegno della devastazione e sfacelo operato da quelli che noi ora chiamiamo ‘ribelli moderati’ nelle chiese di Rableh e di Qaryatayn, da cui tutte le antiche bellissime sacre immagini sono state rubate prima della distruzione..
Lo slogan scandito nei primi giorni della ‘rivoluzione’ “alawiti nella tomba, cristiani a Beirut” si è rivelato realtà, e ormai non vi sono più remore nel ribadirne l’intento.

Su ogni casa campeggia almeno un poster con la foto del ‘martire’: non c’è famiglia in cui manchi un figlio, o fratello, o marito, morto tra le fila dell’esercito siriano. All’entrata di Tartous sussulto passando sotto interi muri tappezzati da questi volti, soprattutto di ragazzi, che rappresentano il tributo del popolo a questa guerra che non ha voluto, e di cui ‘non ne può più’.

Eppure piccoli segni di speranza col passare dei giorni si presentano (e concordiamo di promuovere in Italia il modo per supportarli) : gente che ancora osa credere nella possibilità di guardare l’altro con rispetto, di rinnovare in sé la speranza e la decisione della convivenza sperimentata in passato e da affermare ancora nel futuro:

– l’insegnante cristiana di musica che ogni mattina va a a fare lezione nel vicino villaggio sciita e anche nel villaggio sunnita

– i cristiani di Homs che tornano nel quartiere al Hamidiyah e il pellegrinaggio di musulmani e cristiani al convento gesuita in cui riposa padre Frans Van der Lugt

– le suore che gestiscono egregiamente la scuola ‘al Amal’ ( La Speranza) di Marmarita aperte agli sfollati provenienti da ogni parte di Siria

– i cooperanti salesiani sfollati da Aleppo che vogliono rimettere in piedi piccole attività lavorative: l’inizio di possibili attività di promozione della donna, laboratori di cucito, stamperie …

– la professoressa sfollata che non vuole vedere i suoi figli emigrare e vorrebbe allestire un salone vicino alla Parrocchia come biblioteca e centro di incontro giovanile

Percorriamo l’incantevole valle di Myssiaf (come sarà bella la Siria senza guerra!), ad uno degli innumerevoli posti di controllo il militare restituisce alle suore e a me i documenti con questo saluto: “La Siria è illuminata dalla vostra presenza”.

Aiutateci a restare. Questo grande compito , ridestare la speranza dei cristiani per trovare le ragioni per restare e radicare la speranza in un fondo umano più vero, è l’impegno che si assumono le Monache: perchè tutto ricomincia da una testimonianza che rimette in moto il riconoscimento della ragione per cui val la pena rimanere e sperare che ci sia un futuro. O come dice suor Marta: “Adesso basta piangerci addosso, muoviamoci! Anche qui , dove non c’è certamente l’ottimo delle condizioni, puoi dare un senso alla tua vita, sostenendo gli altri, operando per la dignità della vita e per la bellezza, che è dono gratuito!”.

Fiorenza

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