Il pasticcio di piazza Maidan

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Per USA  e UE, p.zza Maidan è simbolo di rivolta pro-democrazia. Ma per la Crimea russofona, è solo un simbolo di arroganza anti-russa. di Ricci Patrizio La Crimea non è la Cecoslovacchia nel 1968 e non c’è nessun Jan Palach a immolarsi.  La presenza dei russi è stata richiesta dalla Regione Autonoma dopo l’occupazione del …

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Le “tre Ucraine” nella crisi di Kiev

fonte: http://www.lacosablu.it/le-tre-ucraine-nella-crisi-di-kiev/ Gli schieramenti in lotta in Ucraina, per quanto in apparenza eterogenei, rappresentano in maniera piuttosto chiara e diretta la divisione sociopolitica del Paese, che corrisponde ad una divisione tra la parte settentrionale e occidentale e la parte meridionale e orientale dell’Ucraina. Questa linea di faglia geografica e politica risponde a sua volta a …

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QUARESIMA: GREGORIOS III (SIRIA), “DIGIUNO PER SOFFERENZE DEI PAESI ARABI”

fonte Società per l’Informazione Religiosa – S.I.R. “DIGIUNO PER SOFFERENZE DEI PAESI ARABI” Il digiuno e la preghiera come strumenti efficaci per fronteggiare tutti quei “sentimenti di disperazione, di depressione e di disillusione” che nascono davanti alle “sofferenze dei nostri Paesi arabi, la Siria, il Libano, l’Egitto, l’Iraq, la Giordania e la Terra Santa”. È …

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PICCOLO VADEMECUM SULLE RIVOLTE MODERNE (UCRAINA, SIRIA E NON SOLO)

infermiera-ucraina_980x571DI ALESSANDRO IACOBELLIS  fonte: eurasia-rivista.org

Il format andato in onda in Ucraina ha trasposto in Europa molti dei tratti distintivi che l’opinione pubblica mondiale ha già imparato a conoscere precedentemente in altri Paesi.

La presente analisi non si concentrerà tanto sui motivi di questa ondata globale di rivolte e (pseudo)rivoluzioni, quanto sulle peculiarità ricorrenti, in particolare quelle mediatiche. Quel che è certo è che stiamo assistendo a quello che l’eminente geopolitico statunitense Zbigniew Brzezinski aveva predetto già diversi anni fa: il “risveglio dei popoli”. Un ruolo fondamentale in questo processo è ricoperto dall’”internetpolitik”, cioè dallo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione che annullano ormai non solo le distanze fisiche, ma anche quelle “mentali”.

La circolazione delle idee è istantanea e di fatto rappresenta una nuova ondata del fenomeno della globalizzazione moderna (partita negli anni ’90 in ambito economico e finanziario). Si potrebbe definirla quasi “globalizzazione delle coscienze”. Il risultato è un ribellismo confuso e privo di ideologie di base, fondato su una critica radicale al potere in quanto tale senza però alcun progetto chiaro e costruttivo per il dopo. Anzi, molto spesso queste forze (pseudo)rivoluzionarie per quanto motivate e militanti non solo non rappresentano la maggioranza della popolazione dei rispettivi Paesi, ma sono addirittura minoranza anche all’interno della galassia dell’opposizione.

Si pensi alla Siria: le prime proteste, tanto mitizzate dall’Occidente, erano sì all’insegna di una confusa lotta ala corruzione e volontà di modernizzazione sociale e politica immune da fondamentalismi religiosi, ma quanto erano effettivamente rappresentative della realtà del Paese? I social-network hanno rivoluzionato il modo di pensare il rapporto con la sfera pubblica anche nelle aree del mondo non ancora contagiate dal virus della “società aperta” definita da Karl Popper, ma queste avanguardie sono destinate (perlomeno oggi) ad essere messe in minoranza da realtà sociali ancora ben distanti dai loro parametri.

L’esempio migliore in questo caso resta l’Egitto. Le proteste contro Mubarak di inizio 2011 portavano in piazza coacervi di individui e gruppi assolutamente eterogenei, con agende politiche spesso inconciliabili (o anche con nessuna e solo voglia di scontrarsi con la polizia, vedi gli ultras delle squadre del Cairo), unite soltanto dal nemico comune da abbattere (il regime). Il Movimento del 6 Aprile (che raccoglieva il grosso dei giovani cyber-attivisti tanto incensati dagli organi di informazione nostrani) è stimato avere non più di 70.000 seguaci. Ma essendo un movimento “virtuale” (presente soprattutto su Facebook) nella società moderna risulta avere un peso spropositato rispetto alla sua incidenza reale nella società egiziana. Non è un caso quindi che la Piazza Tahrir, che tanto ha fatto esaltare l’Occidente per le sue domande di democrazia diretta e giustizia sociale, alla prova delle urne si sia scontrata con la dura realtà dei fatti: il trionfo di formazioni religiose conservatrici o addirittura apertamente reazionarie, come i salafiti e la sostanziale irrilevanza dei “giovani democratici”.

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Gregorios III Laham: “A seminare divisione tra cristiani e musulmani sono i ribelli stranieri”

Gregorios III Laham, Patriarca melchita di Antiochia, di tutto l’Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme, non ha dubbi: “Se non ci fossero pressioni indebite e milizie straniere nel nostro Paese, i siriani potrebbero risolvere la crisi da soli”. La speranza di aprire corridoi umanitari per aiutare la popolazione secondo quanto prevede la Risoluzione del Consiglio …

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Siria, Valle dei Cristiani a ferro e fuoco

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da agenzia stampa Infopal

21/2/2014

Al-Akhbra – Firas Choufi. Nella città di Zara, nel circondario di Krak des Chevaliers, le feroci battaglie tra l’esercito siriano e i gruppi estremisti armati riecheggiano per tutta Wadi al-Nasara, il nome arabo della Valle dei Cristiani. Ogni giorno, gli abitanti della valle seppelliscono nuove vittime. Quelli che non sono scappati adesso hanno deciso di non abbandonare mai la Siria.

La voce dell’autista si mischia al suono del vento da neve che martella la nostra auto, mentre attraversa a tutta velocità la strada che da Hawash porta a Zara, nella Wadi al-Nasara, a ovest della città di Homs. “Questa strada è sporca di notte”, osserva l’uomo. Due uomini siedono sul retro, i fucili infilati fuori dalla finestra. Hai paura, ma cerchi di darti un contegno.

Fuori è buio pesto, ed è noto che, rintanati nel castello crociato di Krak des Chevaliers, i militanti dell’opposizione siriana prendono di mira questa strada. Ma secondo l’autista la situazione adesso è più sicura, dopo che l’esercito siriano ha stabilito nuove postazioni e incrementato le proprie misure di sicurezza. I minuti passano lentamente, con le immagini delle morti e delle decapitazioni ingiustificate di Wadi al-Nasara che ti ronzano in testa, ancora e ancora.

Chi combatte a fianco dell’esercito siriano si è riconciliato con la morte. Parlano dei compagni uccisi in tono pratico e triste. Rifugiati nelle case della valle, gli abitanti potrebbero non dover affrontare la morte quanto loro, ma rimangono alte le probabilità di essere uccisi da un proiettile vagante, così come dal cecchinaggio quasi quotidiano dei militanti. E, sebbene nelle ultime due settimane i rinforzi dell’esercito in preparazione della liberazione di Krak des Chevaliers abbiano migliorato le condizioni della strada, viaggiare di notte è ancora rischioso.

Dietro le barriere di sabbia, la maggior preoccupazione non è il freddo. Nizar, un combattente pro-regime, aggiusta il suo cappello di lana e soffia aria calda sui palmi, mentre divide lo sguardo tra i mirini a visione notturna e noi. “Non puoi permetterti di aver freddo o di chiudere gli occhi. I militanti tentano di intrufolarsi ad ogni ora. Spero che lo facciano, così posso mostrarveli nel mirino”.

Tra i combattenti stanziati qui, si trovano soldati dell’esercito, membri nelle Forze di Difesa nazionali e combattenti del Partito Sociale Nazionalista Siriano. Ma la maggior parte di loro, in realtà, sono residenti dei villaggi vicini.

Il flagello delle decapitazioni

La maggior parte dei cristiani che rimane nella regione non fa conto che la salvezza possa venire dalla cristianità occidentale. Quelli che non sono scappati dicono che ora preferiscono morire qui, piuttosto che ricevere la “carità dell’uomo bianco”.

Tony, che lavora in un ristorante di shawarma [pietanza mediorientale a base di carne] nel villaggio di Hawash, non vuole andarsene. Come lui, la madre di Hassam, dal villaggio di Hanbara, che è stato ucciso nel conflitto, vuole stare vicino alla sua tomba così da poterlo visitare ogni giorno. Innumerevoli altri, come loro, vogliono restare. La Siria è l’unica casa che hanno.

Il 29 gennaio, durante un attacco ad un checkpoint della Difesa Nazionale nella città di Ammar al-Hosn, i militanti si sono divertiti a mutilare i corpi delle truppe che presidiavano il checkpoint. Ad un corpo hanno cavato gli occhi, e ne hanno decapitato un altro, portandosi via la testa. Nelle ultime settimane, i militari hanno decapitato molte altre persone, tra cui combattenti delle Forze di Difesa Nazionale, un combattente del Ssnp di nome Hanna Karam, e anche dei civili, di recente un giovane chiamato Fadi Matta, di Mamarita.

Durante il tour ai checkpoint dell’esercito siriano in giornata, la nostra guida ha avanzato la supposizione che l’obiettivo delle decapitazioni stia avendo l’effetto opposto a quello voluto tra gli abitanti della valle, che ora sono più convinti ad imbracciare le armi contro i militanti. Infatti, con i crescenti attacchi contro i residenti, quasi ogni giorno arriva alle barriere di sabbia un nuovo gruppo di combattenti dai villaggi circostanti, come Bahzina, Hanambra, Shallouh, Hawash, per arruolarsi contro i militanti. Alcuni vengono dalle università, altri dal lavoro nei ristoranti, in campagna, o da varie altre professioni. Uno dei combattenti ha detto: “La vita sul campo di battaglia ti ruba tutto. Pensi solo ad uccidere i militanti o ad immaginarti morto”.

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Ucraina: quale giustizia?

La grande tristezza di piazza Indipendenza a Kiev. di Patrizio Ricci In quest’articolo dovrei parlarvi dell’Ucraina ma porto un terribile disagio, una sofferenza. Ho visionato una grande quantità di documenti che sono riuscito a reperire. Sono ore passate a leggere, a esaminare decine di video… fino al mal di stomaco per la crudezza di certe …

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