Paolo VI: la Chiesa può solo pregare
Pier Paolo Pasolini e Paolo VI, due figure che non potrebbero essere più lontane. Eppure è forse la penna di Pasolini quella che più è riuscita a cogliere, tra i suoi contemporanei, l’essenza del pontificato di Montini.
Lo fece con un articolo del 22 settembre 1974 nel quale commentava il “discorsetto” – così Pasolini – che Paolo VI tenne a Castel Gandolfo l’11 settembre di quell’anno.
Un intervento ignorato dai media, ma che lo scrittore definisce “storico”; e con questa parola, aggiunge, “intendo riferirmi all’intero corso della storia della Chiesa, cioè della storia umana”.
“Un fulmineo sguardo dato alla Chiesa dal «di fuori» – scrive Pasolini – è bastato a Paolo VI a capirne la reale situazione storica: situazione storica che rivissuta poi «dal di dentro» è risultata tragica”.
“Le ammissioni che ne sono seguite sono dunque ammissioni storiche nel senso solenne che ho detto: tali ammissioni infatti delineano la fine della Chiesa, o almeno la fine del ruolo tradizionale della Chiesa durato ininterrottamente duemila anni”.
Montini, secondo lo scrittore, ha infatti ammesso “esplicitamente che la Chiesa è stata superata dal mondo; che il ruolo della Chiesa è divenuto di colpo incerto e superfluo; che il Potere reale non ha più bisogno della Chiesa, e l’abbandona quindi a sé stessa; che i problemi sociali vengono risolti all’interno di una società in cui la Chiesa non ha più prestigio”.
“Il mondo”, continua Pasolini, “ha superato la Chiesa (in termini ancora più totali e decisivi di quanto abbia dimostrato il “referendum [sul divorzio, tenuto quell’anno ndr]”)”.
Ed “è chiaro che tale mondo, appunto, non «prega» più”. Un cenno, quest’ultimo, più che felice, perché spiega con un’immagine icastica la lontananza abissale che separa la società moderna, la gente comune, dalla Chiesa.
Certo, ci si può illudere che certe attività e talune manifestazioni pubbliche – e qui Pasolini si riferiva al Giubileo che si sarebbe celebrato di lì a poco – abbiano un qualche valore.
Ma “sia chiaro per gli uomini religiosi che queste manifestazioni pomposamente teletrasmesse, saranno delle grandi e vuote manifestazioni folcloristiche […] Ho fatto l’esempio della televisione perché è il più spettacolare e macroscopico. Ma potrei dare mille altri esempi”.
Cenno quest’ultimo anch’esso significativo: non mancano certo esempi di come addirittura la santa messa spesso sia ridotta a puro folclore, un teatro nel quale il sacerdote si riduce a intrattenere il pubblico presente (ma resta la consacrazione, il Vangelo, l’eucaristia, che tutto salvano).
Di fronte a questa tragica situazione, scrive Pasolini, Paolo VI intravede come “unica soluzione” quella di “pregare”, che nel suo articolo lo scrittore si premura di mettere tra virgolette.
In realtà, nel suo “discorsetto” Montini parla in altri termini, ma con quella parola Pasolini ne fa una sintesi geniale quanto perfetta.
Non interessa in questa sede analizzare la soluzione alternativa indicata da Pasolini, cioè quella di una Chiesa che si proponga di guidare le masse nell’opposizione al Potere (ipotesi ideologica, come spiegava don Giacomo Tantardini, che ben conosceva questo scritto; e quindi deviante).
Né dilungarci sulla data in cui Paolo VI fece quel suo accorato intervento, cioè a un anno esatto dal golpe in Cile, del quale a Montini, persona di rara intelligenza per quanto riguarda le cose del mondo, non sfuggivano di certo le implicazioni presenti e future.
Né, infine, indugiare sui tentativi di strumentalizzazione della Chiesa da parte del Potere, che certo non sono mancati anche dopo il ’74 né mancheranno, data la natura del Potere e le tentazioni conseguenti.
Interessa in questa sede fissare quella lontana consapevolezza riguardo il rapporto tra la Chiesa e la societas moderna e su quell’unica soluzione suggerita da Paolo VI.
Una consapevolezza “incancellabile”, scrive Pasolini, come è proprio di una verità disvelata, che il tempo ha reso solo più evidente.
Una situazione, peraltro, già prefigurata da Charles Péguy in una frase spesso citata da don Giacomo: “Quando si parla di (della) scristianizzazione, quando si dice che c’è un mondo moderno e che è perfettamente scristianizzato, totalmente incristiano, si vuol dire esattamente che ha rinunciato a tutto il sistema, nel suo insieme, che si muove interamente fuori dal sistema: la rinuncia di tutti a tutto il cristianesimo”.
A fronte di tale tragedia, altrettanto tragicamente spesso ignorata e negata dalla Chiesa, con negazione che condanna alla reiterazione ossessiva di tanta vacuità folcloristica, l’unica soluzione resta quella suggerita da Paolo VI: “pregare”.
Tale il suggerimento implicito di don Giacomo quando spiegava che “Chi prega si salva” è la cosa più importante e più bella che abbia mai fatto la rivista 30Giorni.
Non solo un libretto di preghiere – come altri, magari più bello di altri -, ma unica prospettiva realistica per la santa Chiesa di Dio.
fonte:https://www.associazionedongiacomotantardini.it/paolo-vi-la-chiesa-puo-solo-pregare/