Interessante articolo di Peace Reporter sull’assalto di Freedom Fottilla oggi oggetto di forte contrasto tra Turchia e Israele:
FONTE Peace Reporter – Francesca Borri
L’assalto in acque internazionali alla Freedom Flotilla, con reparti scelti calati dagli elicotteri tra fumogeni e proiettili alle quattro del mattino, e senza preavviso, nove attivisti turchi uccisi su una nave carica di cibo e medicine, è stato condotto con forza eccessiva. Gli israeliani sono tenuti a risarcire i familiari delle vittime. Ma per Geoffrey Palmer, già primo ministro della Nuova Zelanda, incaricato da Ban Ki-moon di chiarire la dinamica dell’accaduto e disinnescare la tensione tra Israele e Turchia, il blocco di Gaza rimane una legittima misura di autodifesa a fronte degli attacchi di Hamas. E il consiglio, dunque, per evitare il ripetersi di simili incidenti, è ai pacifisti: state a casa.
Il Rapporto Palmer giustifica il blocco di Gaza attraverso l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui ogni stato, “in caso di attacco armato”, ha diritto all’autodifesa. Ma l’articolo 51 riguarda l’inizio di una guerra: uno stato, o un gruppo terroristico, che attacca, e uno stato che si difende. Una volta che un conflitto è cominciato – e un’occupazione è una situazione di belligeranza – il riferimento non è più lo jus ad bellum, e cioè le norme che disciplinano il ricorso alla forza, ma lo jus in bello, le norme che disciplinano la condotta delle ostilità. Il senso, circoscritto, dell’articolo 51 è inequivoco: e infatti si ha diritto all’autodifesa, si precisa, solo fino all’intervento del Consiglio di Sicurezza, a cui le azioni intraprese devono essere subito comunicate – non esattamente il tipo di notifica citato dal Rapporto Palmer, secondo cui il governo di Israele ha regolarmente pubblicato la notizia del blocco sul proprio sito.
La tesi implicita del Rapporto Palmer, quindi, è la tesi di Israele: e cioè che Gaza non sia più territorio occupato dal 2005, anno in cui Ariel Sharon ordinò lo smantellamento degli insediamenti. Ma in base all’articolo 42 delle Convenzioni dell’Aja, un territorio è considerato occupato quando è sottoposto all’autorità dell’esercito nemico. Il principio è quello del cosiddetto effective control: non il presidio di ogni centimetro di terra, ma la capacità, in qualsiasi momento, di imporre la propria volontà. Un’occupazione non dipende dalla presenza di insediamenti – vietata, d’altra parte, dal diritto internazionale – né dalla presenza di strutture militari permanenti. A rilevare, è la capacità potenziale di controllare il territorio. Ed è difficile, su questo, avere dubbi: Israele, si legge nel Disengagement Plan, “continuerà ad avere autorità esclusiva sulle frontiere di terra e sullo spazio aereo, e a svolgere attività di sicurezza lungo le coste”.
Il diritto applicabile è dunque lo jus in bello: e secondo lo jus in bello, un blocco navale è illegale se ha il solo obiettivo di affamare la popolazione civile, o se comunque il danno inflitto alla popolazione civile è sproporzionato rispetto al vantaggio militare ottenuto. E questa è la ragione della singolare distinzione introdotta dal Rapporto Palmer tra il blocco della frontiera marittima e il blocco della frontiera terrestre. Una distinzione inedita: non si ritrova infatti negli Accordi di Oslo, che riservano a Israele, globalmente, la responsabilità per la external security della Striscia di Gaza, né appunto nel Disengagement Plan del 2005, né nella dichiarazione con cui Israele, nel 2007, ha definito Gaza una “entità ostile” e deciso, genericamente, di limitare il passaggio dei beni into and out, senza altra specificazione.
La distinzione, secondo il Rapporto Palmer, è invece evidente se solo si esamina la cronologia: il blocco terrestre è cominciato nel 2007 dopo la vittoria di Hamas su Fatah, il blocco navale nel 2009, durante l’operazione Piombo Fuso – come dire che il sistema delle autorizzazioni, in vigore dal 1987, i checkpoint, apparsi nel 1993, e il Muro, iniziato nel 2002, non sono parte di una politica unitaria relativa alla libertà di circolazione. Ma soprattutto, dal momento che Gaza non ha un porto adatto all’attracco dei cargo, si sostiene, è il blocco della frontiera terrestre, non il blocco della frontiera marittima, a causare la crisi umanitaria più volte denunciata dalle Nazioni Unite. Il blocco navale avrebbe come unico obiettivo il contrasto al terrorismo: nonostante sia stato lo stesso governo di Israele, davanti ai giudici della Corte Suprema, ad affermare che considera colpire l’economia, harming the economy, un legittimo mezzo di guerra.
E se i due effetti, quello del blocco della frontiera marittima e quello del blocco della frontiera terrestre, non sono cumulabili, il vantaggio militare ottenuto da Israele è allora proporzionato, conclude il Rapporto Palmer, al danno inflitto alla popolazione di Gaza. Ma il vantaggio militare di cui si discute è – testuale – un concrete and direct military advantage: e altrettanto concreto è il danno dunque a cui deve essere comparato. Perché lo jus in bello, è noto, non è un insieme di norme, ma di regole: non impone astrattamente diritti e obblighi, ma limiti: altrimenti sarebbe sempre possibile, e sempre semplice, giustificare la sua violazione – come appunto dimostra il Rapporto Palmer. Neppure un obiettivo per sua natura militare, come una caserma, è in guerra necessariamente un obiettivo legittimo: bisogna sempre accertarsi, alla luce di tutte le circostanze esistenti, che assicuri un effective contribution, un contributo effettivo, al nemico e che la sua distruzione, quindi, costituisca un definite military advantage. Il danno da valutare non è qui il danno teorico del blocco navale analizzato in sé, come se il confine di Rafah fosse aperto, o magari non fosse stato bombardato l’aeroporto: è il danno concreto causato dalla recisione dell’ultimo legame tra Gaza e il resto del mondo. Ed è proprio in nome di questa concretezza che lo jus in bello fa la proporzionalità oggetto non di una ponderazione una tantum, ma di una verifica costante – alla luce dell’eventuale modificarsi delle circostanze.
Rimane naturalmente da capire perché a una popolazione che si riconosce essere per il 61 percento food insecure, e cioè alla fame, non dovrebbero essere utili anche i rifornimenti trasportati da navi più piccole dei cargo.
Un’ultima ipotesi. In assenza di un blocco navale legittimo, uno stato ha comunque diritto a intercettare un’imbarcazione se ha il ragionevole sospetto che fornisca un effective contribution al nemico, oppure rappresenti una imminent and overwhelming threat, una minaccia imminente a cui è necessario rispondere con la forza – una minaccia tale, cioè, da giustificare il ricorso all’autodifesa ex articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ma quanto al contributo, deve trattarsi di un contributo tangibile, come armi e munizioni: non certo politico. E quanto alla minaccia, è semplicemente insensato, per una potenza nucleare, intravederne una in una manciata di pacifisti disarmati – soprattutto considerando che la Freedom Flotilla è stata assaltata quando era ancora a 72 miglia dalla costa, circa cinque ore di navigazione.
Ma se gli israeliani hanno pianificato e condotto l’operazione in modo approssimativo, e con inutile violenza, la responsabilità dell’incidente, secondo il Rapporto Palmer, è anche degli attivisti della Freedom Flotilla. Impegnati in una missione solo apparentemente umanitaria: perché l’obiettivo non era tanto consegnare cibo e medicine, si sostiene, quanto richiamare su Gaza l’attenzione internazionale, generating publicity – o come più probabilmente direbbero gli attivisti: raising awareness, sensibilizzare. Non erano necessari, infatti, tutti quei partecipanti, in larga parte giornalisti e intellettuali: sarebbe stato sufficiente, si osserva, scaricare gli aiuti nel porto di Ashdod, come proposto da Israele. Il modo migliore per evitare il ripetersi di simili incidenti, dunque, è non organizzare simili iniziative.
Anche se è proprio la questione palestinese, in realtà, in cui l’aiuto allo sviluppo finisce per foraggiare l’occupazione, e consentire il suo protrarsi indefinito, e insegnare quanto non esista niente di più politico della nozione, apparentemente tecnica e neutrale, di “crisi umanitaria”. Mai il pensiero si rivela più partigiano di quando pretende di collocarsi super partes, scrive Danilo Zolo. E mai il Rapporto Palmer si rivela meno imparziale di quando pretende di dimostrare che quelli a bordo della Freedom Flotilla non erano pacifisti, ma amici dei terroristi. All’arrivo, sarebbero stati ricevuti da Hamas, nota allarmato. Se uno sbarca a Gaza, da chi dovrebbe essere ricevuto, dal governo del Kenya?