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Perchè l’arte comunemente non entra nel novero della ricchezza di una nazione?

Rilancio un bellissimo ragionamento del prof Malvezzi per Radio Radio TV

tramite Radio Radio TV –

Arte ed economia sono poi così distanti?
Apparentemente, ad un occhio meno attento e una cultura più limitata, parrebbe di sì: due discipline totalmente diverse, che si occupano di cose differenti con parametri totalmente distanti, non hanno a legarle alcun filo conduttore.

Sarebbe anche vero, se non fosse che ci stiamo rendendo conto, in epoca pandemica come l’una dipenda dall’altra. Più che mai il mondo della cultura pende in questo momento dalle labbra dei freddi numeri. Ma è un punto di vista illusorio, come spiega il Professor Valerio Malvezzi nella nuova puntata di “Discorsi sull’Economia Umanistica”.
Perché? Perché, come secondo Oscar Wilde “la vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita“, allo stesso modo dovrebbe fare l’economia: pendere dalle labbra dell’arte, avere un’anima dietro i freddi numeri, diventare umana e umanistica.

“L’economia è secondo me l’espressione di un bisogno. L’arte è invece l’espressione di un sogno. E’ possibile contemplarle insieme? A mio parere non solo è possibile, ma direi quasi doveroso.
Se noi guardiamo per esempio le letture di un minuto di Herman Hesse, troviamo un concetto interessante, che ci dice che la capacità dell’artista nell’esprimere la propria arte deriva prima di tutto da un atto di amore: lo stesso secondo me vale per l’economia.
Pensiamo per esempio all’atto d’amore per eccellenza di un imprenditore, cioè creare qualcosa. Quel capannone, quel carroponte, quel magazzino, esiste prima nella mente dell’imprenditore che della banca che lo finanzia. Oggi invece noi pensiamo solo al denaro, al punto che ci dicono “non ci sono i soldi per dare certi tipi di lavori”, così abbiamo giovani che hanno studiato da musicista che alla fine devono fare gli impiegati al comune, oppure artisti che devono diventare informatici.

John Maynard Keynes, uno dei più grandi economisti del secolo scorso, diceva che lo scopo dello Stato è quello di tutelare anche l’arte. Pensate che durante il New Deal egli fu uno dei principali autori del “Public Works of Art Project”, cioè un progetto che serviva a dare posti d lavoro non solo agli artisti, ma a tutti quelli che avrebbero potuto beneficiare dell’arte.

Sempre, nella storia dell’umanità, c’è stato questo riconoscimento del valore dell’arte come valore legato all’economia. Ermete Trismegisto diceva che “il peggiore dei mali è ignorare il divino”. Allora uccidere l’arte è forse – a mio modo di pensare – il meccanismo più rapido per aprire la strada all’economia del male, e non a quella del bene (ovvero l’economia umanistica).

Oggi siamo abituati a ragionare solo di economia della ragione, di intelligenze artificiali, di software, di cose che vendono i titoli in borsa. Accettiamo come normale che una madre (come successo a Torino) sia costretta a vendere la fede nuziale per dare da mangiare al figlio, siamo abituati a pensare che sia normale l’elemosina di Stato, il Reddito di Cittadinanza, a pensare che sia normale che gli anziani non abbiano una pensione dignitosa, che alcuni non abbiano più soldi per curarsi o che i giovani non riescono a trovare un posto di lavoro.

Questo modo di ragionare appartiene a dei mostri, a mostri della razionalità. Robot li chiamerei. I robot, il linguaggio dell’arte, non possono capirlo“.

da Radio Radio TV – https://www.radioradio.it/2021/05/economia-arte-malvezzi-economia-umanistica/.

Patrizio Ricci

Con esperienza in testate come il Sussidiario, Cultura Cattolica, la Croce, LPLNews e con un passato da militare di carriera, mi dedico alla politica internazionale, concentrandomi sui conflitti globali. Ho contribuito significativamente all'associazione di blogger cristiani Samizdatonline e sono socio fondatore del "Coordinamento per la pace in Siria", un'entità che promuove la pace nella regione attraverso azioni di sensibilizzazione e giudizio ed anche iniziative politiche e aiuti diretti.

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