Pubblichiamo l’intervento integrale di don Samuele Cecotti pronunciato a Milano il 6 aprile scorso nel corso della II Giornata della Dottrina Sociale organizzata e promossa da Nuova BQ e Osservatorio Van Thuan.
Da qualche tempo il dibattito politico europeo (e non solo) è animato dalla contrapposizione tra sovranismo e globalismo, populismo e liberal-radicalismo con sovranismo e populismo spesso associati, così come globalismo e liberal-radicalismo. Categorie che sembrano aver sostituito quelle di destra e sinistra che datavano all’Assemblea nazionale della Francia rivoluzionaria ed erano poi state rinverdite nel quadro dell’hegelismo otto-novecentesco e dei suoi figli più o meno legittimi.
A dire il vero destra e sinistra più che scomparse paiono ridefinirsi con la sinistra sempre più coincidente con il fronte globalista (in UE declinato anche come europeismo) liberal-radicale e la destra (almeno quella in ascesa, spesso altra e alternativa alle forze storiche europee di centro-destra) sempre più coincidente con ciò che si dice populismo/sovranismo. Se tale dinamica si confermerà nel tempo sarà forse naturale la ridefinizione del quadro politico e lo “slittamento a sinistra” di quelle forze del vecchio centro-destra “ortodosse” rispetto all’ideologia liberal-radicale globalista.
Innanzi a questo nuovo scenario politico-ideologico la Dottrina sociale della Chiesa che giudizio può offrire? Anche stando alla sola Europa, certamente è necessario distinguere caso da caso consapevoli che il populismo del polacco Kaczynski non è identico a quello dell’ungherese Orban, tanto meno a quello della Le Pen – in Francia va attentamente considerato anche il movimento dei Gilets jaunes e le 25 proposizioni che costituiscono la sua charte officielle – o di Kurz (e del leader FPÖ Strache) in Austria, della AfD in Germania, di Vox in Spagna, di FdI e Lega in Italia. Tuttavia si può tracciare un quadro generale e dunque offrirne una considerazione complessiva.
Se si considerano le forze partitiche che incarnano in Europa questo nuovo fenomeno del populismo/sovranismo e gli attori politico-culturali che lo rappresentano sulla scena pubblica, non si possono non rilevare molteplici elementi di ambiguità e di sostanziale continuità con l’errore filosofico-politico moderno. A solo titolo d’esempio il riferirsi al principio moderno di sovranità e ad una concezione giuspositivista della legge, magari per “resistere” alle ingerenze dell’UE o delle Agenzie Internazionali, oppure per rivendicare la prevalenza della legge dello Stato su principi giuridici (che, in realtà, sono opzioni ideologiche) affermati da organismi comunitari e/o internazionali.
La volontà di resistere all’imposizione dell’agenda ideologica di cui l’UE e le varie Agenzie ONU si fanno sistematici strumenti non è in se stessa biasimevole, tutt’altro. Ma una resistenza impostata sul principio di sovranità e sul paradigma giuspositivista si rivela, non solo destinata al fallimento, ma tutta interna a quella stessa ratio moderna (in senso filosofico) che, nel suo coerente sviluppo, ha generato proprio quel globalismo che si intenderebbe arrestare e quella agenda ideologica liberal-radicale che si dice di voler combattere.
È però forse opportuno non dare per scontato che dietro un linguaggio strutturalmente ipotecato dalla modernità filosofico-politica si dia un pensiero altrettanto ipotecato così come la stessa eventualità d’una ipoteca relativa non solo il lessico ma pure il pensiero necessita di essere analizzata attentamente prima di concludere circa l’appartenenza di populismo/sovranismo al campo ideologico della modernità politica. Si dovrà cioè considerare l’ipotesi che l’utilizzo di un certo lessico e persino l’adozione di certe categorie e certi concetti sia più il risultato del tentativo maldestro di concettualizzare e dire pubblicamente una resistenza entro l’unico orizzonte concettuale noto (quello moderno) piuttosto che la appartenenza convinta a quell’orizzonte ideologico-concettuale. Si potrebbe cioè pensare che la resistenza sovranista/populista si esprima in categorie della modernità per ignoranza di alternativa.
Il compito della Dottrina sociale della Chiesa innanzi a questo nuovo fenomeno dato dalla resistenza sovranista/populista potrebbe essere proprio quello di confutare ancor più rigorosamente la modernità politica (principio di sovranità, giuspositivismo, libertà liberale, etc.) che sembra accomunare sovranisti/populisti e globalisti/europeisti offrendo, al contempo, una alternativa concettuale per rifiutare il globalismo, l’ideologia liberal-radicale, etc. e poter così dire le istanze resistenziali entro categorie classico-cristiane, le uniche realmente alternative alla modernità filosofico-politica perché le uniche vere!
È allora fondamentale andar oltre il dibattito pubblico e la retorica partitica dei protagonisti del sovranismo/populismo per cogliere quelle istanze popolari, più o meno spontanee, che costituiscono la vera resistenza tanto all’ideologia liberal-radicale quanto a europeismo/globalismo e che sono alla base del consenso elettorale tributato alle forze populiste/sovraniste.
Le masse popolari che votano contro il progetto dell’UE e contro l’agenda globalista non lo fanno certo avendo in mente il concetto politico-filosofico di sovranità e neppure il paradigma giuspositivista anche quando la loro resistenza è rappresentata da leaders politici che a quei concetti fanno riferimento.
Anzi si può scorgere nella resistenza popolare al globalismo (generatrice del fenomeno politico del populismo/sovranismo) il riemergere carsico del Reale socio-politico negato e/o adulterato dalla modernità ideologica: il populus come realtà etico-giuridica, l’idea di natio che nulla ha a che vedere con il nazionalismo ideologico figlio della Rivoluzione francese e del romanticismo ottocentesco, l’idea di patria con il compreso vincolo morale tra le generazioni nella tradizione.
Sarà allora compito preziosissimo quello di ridire la realtà di ciò che è popolo, nazione, patria così da offrire ai resistenti (siano essi elettori o eletti, semplici cittadini o leaders politici) un lessico e un orizzonte concettuale adeguato alla loro causa resistenziale.
Se il popolo detto sovrano nelle Costituzioni occidentali contemporanee altro non è che una somma aritmetica di individui tra loro identici (il principio di “uno vale uno”) perché numericamente e non qualitativamente considerati, non così prima del razionalismo politico illuminista fattosi ordinamento costituzionale con la Rivoluzione francese.
La considerazione astratta e numerica dell’uomo porta a considerare non la realtà storica concreta della persona umana come “figlio di …”, “marito di …”, “padre di …” che, ad esempio, è capofamiglia di quella certa casa, è artigiano in quella certa arte, è membro di quella comunità locale, appartiene a quella certa etnia e parla quella certa lingua, etc. L’uomo è ridotto ad una unità aritmetica: è UN cittadino, nel senso che è un “UNO” come cittadino. E come “UNO” uguale a ogni altro “UNO”.
Il popolo, che poi si dice sovrano, non sarà allora che la somma di tutti gli “UNO” a formare un insieme aritmetico computabile quantitativamente e neutro qualitativamente. A delimitare il confine di un popolo così inteso, stando coerentemente alle premesse, non sarà nulla di reale ma di meramente convenzionale/fattuale.
Date le premesse razionalistiche, la delimitazione dei popoli sovrani entro confini geografici nazionali otto-novecentesca non regge se non come tappa d’un processo il cui esito ultimo tendenziale non può che essere la Repubblica Universale (di cui il globalismo è l’ideologia apologetica) di un popolo unico coincidente con la somma di tutti quegli “UNO” che sono gli uomini-cittadini del mondo. Una costruzione come l’UE ne sarà una tappa intermedia (continentale) così come gli Stati moderni lo sono stati precedentemente.
La risposta al globalismo/europeismo, di tutta evidenza, non può essere dunque la riaffermazione dello Stato moderno, prodotto artificiale uscito della Rivoluzione, (qui tutta l’ingenuità di certa leadership sovranista), sarebbe come voler curare una metastasi cancerosa con una fase precedente della stessa neoplasia.
Bisogna piuttosto recuperare il significato vero di popolo, la sua essenza. Tornare alla realtà dell’ordine socio-politico così come colto dalla classicità e dalla cristianità.
Scrive il pagano Cicerone «Populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Eius autem prima causa coeundi est non tam inbecillitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio»[1] (De re publica I, 25, 39) (trad: Il popolo non è ogni aggregato di gente riunito in un qualche modo, ma un insieme di persone associato per consenso della legge e per una comunità di vantaggi. La prima causa del suo aggregarsi è non tanto la debolezza quanto una certa qual disposizione naturale degli uomini all’aggregazione). Questa definizione di popolo diviene “cristiana” e così attraversa i secoli, citata da sant’Agostino (il popolo è «coetus juris consensu et utilitatis communione sociatus» De civ. Dei, II, 21), nell’Alto Medioevo sant’Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie la ribadisce: «Populus est humanae multitudinis, juris consensu et concordi comunione sociatus». E così pure san Tommaso d’Aquino: «populus est coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus» (S.th. I-II, 105, 2).
Questa definizione ci consegna tre verità: 1) I popoli sono realtà naturale (forma d’aggregazione naturale tra gli uomini), nel senso che gli uomini per natura sono sociali; 2) si dà popolo solo dove gli uomini sono uniti in società secondo diritto; 3) si dà popolo solo dove gli uomini sono uniti in vista d’una comune utilità, in ultima analisi, del bene comune.
Il diritto senza il quale non si dà popolo, con ogni evidenza, fa riferimento a quell’ordine obbiettivo di giustizia che precede e fonda ogni diritto positivo. Solo nella conformità al diritto naturale la socialità umana è vincolo che genera e mantiene in vita un popolo. Consentire al diritto (naturale prima che positivo) implica il conoscerlo e il riconoscerlo come normativo e ciò è compito della ragione. L’uomo, con la sua ragione naturale, è in grado di conoscere la legge inscritta dal Creatore, di conoscere cioè quell’ordine obbiettivo di giustizia per il quale si può discernere il bene dal male. Ma l’uomo è animale sociale anche nel conoscere, è animale culturale ovvero conosce sempre a partire da un già conosciuto trasmessogli da chi lo ha preceduto e ricevuto con l’istruzione (familiare in primis). La conoscenza della legge naturale si fa così cultura lungo le generazioni, si specifica e si declina nel particolare di ciascuna comunità umana, si fa tradizione. Ecco allora che si dà popolo solo in presenza di una comune tradizione tale per cui la moltitudine degli uomini in società possa avere ed abbia un reale consenso sul diritto.
Il termine che classicamente meglio esprime questa dimensione di comunione intergenerazionale[2] nella tradizione di una collettività umana è quello di natio indicante un gruppo umano legato da vincoli di comune origine, con lingua, usi, costumi e istituti giuridici comuni[3].
Le nationes, classicamente intese, non coincidono con gli Stati, ci possono essere entità statuali che al proprio interno comprendono più nationes così come una stessa natio può essere presente in più Stati. L’esempio del Sacro Romano Impero, la cui eredità giunse sino al ‘900 con l’impero asburgico, è illuminante circa una statualità europea multinazionale.
La natio non coincide con la comunità politica ma non è ad essa estranea o indifferente, piuttosto è realtà sociale che concorre (con la famiglia) a definire l’identità di ciascuna persona e della res publica.
È nella natio, intesa come comunione intergenerazionale di una collettività umana nel vincolo d’una comune tradizione, che la cultura si forma e cresce, che l’ordine naturale di giustizia è sempre meglio conosciuto e vissuto, che ciascuno riceve la propria identità nativa.
La natio, come la famiglia, è realtà che precede l’individuo, che ciascuno di noi non sceglie ma in cui nasce e si ritrova ad esistere. Si appartiene ad una natio per nascita in un legame naturale e non elettivo che è l’estensione lungo i secoli e tra molti del legame familiare. Sotto questo aspetto un altro concetto capitale è quello di patria, intesa come terra (ma anche cultura, tradizione, comunità) dei padri. La patria è la terra dei propri avi, è il luogo (fisico o morale-culturale) dove si vive l’identità ricevuta a partire dalla famiglia e che ci lega ad una storia, in una catena intergenerazionale. Verso la patria, la morale cattolica ha sempre riconosciuto dei doveri analoghi a quelli dovuti verso i genitori, la patria è una estensione della paternità.
La natio è realtà storico-naturale che offre alla persona umana una lingua, una cultura, un diritto! L’autorità politica, per la Dottrina sociale della Chiesa, deve porsi innanzi alla/e natio/nationes a lei soggetta/e con attitudine di servizio. L’autorità politica deve cioè servire la/e natio/nationes custodendone la tradizione, favorendone lo sviluppo organico secondo la propria identità storica, cogliendo nella tradizione della natio l’originale contributo di quella collettività alla giustizia e al bene comune.
L’autorità deve esercitarsi, rispetto alla vita organica della natio, con l’unico criterio della verità/giustizia discernendo quanto è conforme all’ordine naturale da quanto non lo è, quanto è vero e buono da quanto non lo è. Questo è e deve essere l’unico criterio, dentro e conformemente al quale lo sviluppo armonico e organico della/e tradizione/i della/e natio/nationes deve essere custodito e promosso.
La distanza da quanto avvenuto e avviene negli Stati moderni, nell’UE e nella prospettiva globalista è di ogni evidenza. Si può riconoscere, almeno in analogia, lo stesso intento dietro le politiche di disgregazione della famiglia e dietro quelle di dissoluzione delle identità nazionali. Dissolvere l’identità storica di una natio, relativizzare il legame con la patria (ovvero con i padri, gli antenati e la loro eredità) presuppone la stessa idea di uomo e di popolo che giustifica l’azione disgregatrice a danno della famiglia: è l’idea illuminista astratta dell’uomo e del popolo come somma numerica di individui.
Dietro all’ideologia europeista/globalista e all’ideologia liberal-radicale sta una stessa opzione di fondo che si traduce poi in ciò che l’arcivescovo Giampaolo Crepaldi ha chiamato “male comune”. Il progetto ideologico in opera almeno dal 1789 passa tanto attraverso l’agenda liberal-radicale dei “nuovi diritti” quanto attraverso il globalismo dissolutore delle nationes perché teso alla costruzione di una “nuova umanità” di individui senza radici, liberati da ogni vincolo naturale/tradizionale, da ogni vincolo relazionale che non sia liberamente costituito e liberamente annullabile.
Tutto ciò che ci precede e che si dà a noi come dato reale indipendente dalla nostra volontà (la famiglia in cui siamo generati, la natio/patria in cui nasciamo, la natura umana cui apparteniamo e che ci fa quello che siamo) è oggetto di odio e di azione dissolutoria da parte di quella modernità che ha fatto della libertà luciferina la propria opzione fondamentale.
È battaglia tra due visioni inconciliabili dell’uomo e del mondo, quella classico-cristiana (ordine obbiettivo delle cose, diritto naturale, identità storiche dei popoli come bene, nationes/patrie come luoghi dell’umano, famiglia) e quella moderna (assenza o inconoscibilità della Realtà, diritto come convenzione e arbitrio formale, libertà con il solo criterio della libertà, uomo come individuo apolide e senza radici, dissoluzione di ogni legame stabile familiare/sociale).
La resistenza al globalismo-liberal-radicalismo è dunque non solo lecita ma doverosa. Tuttavia non sempre le forze che conducono tale resistenza lo fanno per le ragioni vere, con chiarezza di analisi e con i giusti argomenti. Nel campo sovranista/populista molta è l’ambiguità e molta la confusione.
La Dottrina sociale della Chiesa può e deve essere quella luce intellettuale che rende manifesto l’errore della modernità politica mentre mostra la possibilità d’una polis “come Dio comanda” e così facendo offre alla resistenza le vere ragioni per resistere e il positivo per cui impegnarsi.
[1] «P o p o l o non è ogni unione d’uomini aggregati casualmente, ma l’unione d’una moltitudine legata in società nel consentire al diritto e nella comunanza d’utilità. La sua prima causa d’unirsi è non tanto la debolezza, quanto lo è una forma d’aggregazione direi naturale tra gli uomini».
[2] Per il valore essenziale del vincolo intergenerazionale nell’esser uomo cfr. C. Caffarra, discorso Il rapporto inter-generazionale, Vidiciatico 25 giugno 2011, in http://www.gliscritti.it/blog/entry/921
[3] Per leggere in unità i concetti di populus e di natio è forse utile ricordare la definizione che dà sant’Agostino di popolo «populus est coetus multitudinis rationalis, rerum quas diligit concordi communione sociatus» (De civ. Dei, XIX, 24) dove alla razionalità dei componenti è unito un comune giudizio di dilezione circa il bene e il male, il desiderabile e l’indesiderabile, il bello e il brutto, giudizio comune possibile solo in presenza di una comune cultura/tradizione.