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Mohammad Bin Salman Al Sa’ud è un ragazzo arabo di 32 anni, figlio del re dell’Arabia Saudita Salman Bin ’Abd Al-Aziz Al Sa’ud, ed è l’ideatore del più grande progetto di svolta economica e sociale del paese. Saudi Vision 2030.
L’Arabia Saudita dipende dagli idrocarburi per il 46% del suo PIL dagli idrocarburi e per l’88% delle entrate erariali. Dunque, periodi in cui il prezzo del petrolio si abbassa possono portare le finanze del regno in forte crisi, soprattutto perché lo Stato ha creato una forma di largo assistenzialismo nei confronti della popolazione, la quale, dipendente in gran parte dal settore pubblico, non ha sviluppato finora una adeguata capacità imprenditoriale.
Il progetto Saudi Vision 2030, presentato il 26 aprile 2016 dal vice principe ereditario al trono Bin Salman, mira, in primo luogo, alla diversificazione dell’economia. L’obiettivo è la riduzione della dipendenza dal petrolio sia permitigare la volatilità dell’economia nazionale, evitando dolorose recessioni dovute a schock esogeni, sia per sviluppare una classe imprenditoriale privata nel paese, coinvolgendo l’enorme numero di giovani in un processo di cambiamento del tessuto economico e sociale che porterà il paese a non essere più quello di prima: “Our nation holds strong investment capabilities, which we will harness to stimulate our economy and diversify our revenues.”(Saudi Arabia’s Vision 2030).
Secondo il piano del giovane principe, il contributo delle piccole e medie imprese del settore privato crescerà dall’11% al 35% del PIL. L’obiettivo è anche far scendere la disoccupazione, attualmente all’11,5%, a circa il 7%. In special modo quella giovanile, straordinariamente alta (circa 30%). Tra gli obiettivi chiave c’è l’aumento del contributo al PIL del settore privato, dal 40 al 65%, incrementando gli introiti dai comparti non petroliferi. Ad essere coinvolta nella visione del principe saudita ci sarebbe anche un’altra categoria, ancora in buona parte emarginata: le donne. Infatti, secondo il piano queste dovranno essere più coinvolte nel mercato del lavoro, passando dall’attuale 22% al 30%.Il ribaltamento dei tradizionali assi su cui si regge la pax saudita (petrolio e assistenzialismo)passa anche dal valorizzamento del Fondo d’investimento pubblico saudita, il fondo sovrano che finanzia gli investimenti all’estero. Il fondo ammonta a circa 2 mila miliardi di dollari, ma dovrebbe essere incrementato per altri 2 mila miliardi derivanti dalla parziale quotazione del 5% del più grande gigante petrolifero del mondo, Aramco. Così facendo, il fondo saudita sarà il più grande a livello mondiale, ed avrà l’obiettivo di arrivare a controllare più del 10% degli investimenti mondiali. Il progetto punta inoltre a sviluppare l’industria della difesa, cercando di ridurre la dipendenza dalle forniture estere. Questo punto si sposa perfettamente con l’altro grande asse dalla politica di Bin Salman: l’intervento in Yemen, e la definizione di una postura internazionale offensiva come non lo era mai stata. Un’industria della difesa sviluppata godrà infatti di un enorme mercato bellico nella regione. Il piano è incredibilmente ambizioso, e per certi versi, irrealistico. Certo è che su di esso il vice principe ereditario ha scommesso tutto, e da ciò dipende il futuro della sua carriera. La sfida è di rendere l’Arabia Saudita un centro economico e politico di rilevanza mondiale, sganciandola dalla “maledizione” del petrolio.
Questo piano ha trovato e troverà molte resistenze nella società del regno, e in particolare nella classe giuridico-religiosa degli Ulama, teorici e intellettuali islamici custodi della legge sacra nelle sue interpretazioni più conservatrici.La Vision promette, infatti, un aumento delle spese per attività culturali e ricreative, come musei, teatri, e associazioni. La valorizzazione del settore privato, sia a livello sociale che sul piano economico, potrebbe portare allo sviluppo di una consolidata classe media, svincolata dallo Stato, e che abbia una maggiore coscienza e forza contrattuale con il governo sui propri diritti. Forti resistenze vengono anche dalla stessa famiglia reale: parte del piano, come è già stato detto, è quello di quotare il 5% dell’Aramco per destinare i proventi al Fondo d’investimento pubblico Saudita. Ciò porterà allo scrutinio dei libri contabili dell’ente, mettendo fine all’opacità dei modi con cui i principi hanno gestito il patrimonio societario. La trasparenza è parte della campagna di riqualificazione del sistema-paese.Questa mossa ha inevitabilmente portato a uno scontro interno alla famiglia, che si delinea su una cornice più larga, quella della lotta per il trono tra il principe Bin Salman e il principe ereditario, nonché nipote del re, Muhammad Bin Nayef Al Sa’ud. Le chiavi dell’attuale indirizzo politico di Bin Salman sono Saudi Vision e il sostegno all’intervento militare in Yemen contro l’espansionismo persiano. Se entrambi avessero successo, l’entusiasmo popolare e la predilezione del re per il figlio potrebbero portare alla promozione di Bin Salman a primo ministro, avvantaggiandolo contro Bin Nayef, vice-primo ministro, nella lotta per la successione al trono.Il fallimento di Saudi Vision potrebbe comportare non solo la sconfitta di Bin Salman in questo personale scontro per il potere, ma il collasso di tutto il paese.
L’Arabia Saudita e il governo della dinastia Sa’ud si basano largamente sui proventi petroliferi, elargiti sotto forma di generosi sussidi alla popolazione. Il progetto saudita ha in mente di ridurre i sussidi, sostituendoli con il lavoro fornito dal settore privato, e finanziato da investimenti esteri. Se ciò però non dovesse funzionare si avrebbe solo un impoverimento delle più basse fasce sociali, che farebbe scricchiolare la legittimità della stessa dinastia Sa’ud. Di questo potrebbero approfittare leader tribali che tenterebbero di aprirsi un varco di autonomia in alcune porzioni territoriali del regno, spezzando il patto sociale concluso con la dinastia. Le tensioni aumenterebbero soprattutto tra gli sciiti, portando a manifestazioni di larga scala che colpirebbero il regno, indebolito dall’allontanamento delle elitè che vedrebbero nel giovane Bin Salman la causa delle tensioni in atto. L’instabilità dell’Arabia Saudita avrebbe un impatto in una dimensione regionale, per cui permetterebbe all’Iran di aprirsi ulteriori varchi d’ influenza, e in una dimensione mondiale: l’instabilità del regno potrebbe causare un forte taglio della produzione petrolifera, e dunque il rialzo dei prezzi che metterebbe in crisi diversi paesi, dipendenti da quelle importazioni per il loro fabbisogno.
La scommessa è ormai stata posta. Quella di Saudi Vision 2030 è una sfida che sarà affrontata nel prossimo decennio e che, in un modo o nell’altro, cambierà il volto della penisola arabica.
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