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Primavera Araba: modelli, conseguenze, attualità

FONTE  Ora Pro Siria  di Amer Al Sabaileh (rivista il Margine)

FONTE Ora Pro Siria di Amer Al Sabaileh (rivista il Margine)

Tutti ci chiediamo perché la rivolta popolare egiziana e tunisina sono state non violente, a differenza di quella libica e ora di quella siriana, così segnate da atti di violenza efferata e da distruzioni. In realtà, per poter rispondere a questa domanda, bisogna guardare ai modelli della “rivoluzione” dal punto di vista delle potenze internazionali, cioè il blocco dei Paesi amici degli USA (Egitto, Marocco, Giordania, Arabia Saudita e paesi del Golfo) e il blocco dei Paesi definiti dai primi come “poteri del male” (Iran, Siria, Hezballah libanese).

Dopo la rivolta egiziana, sembrava che gli USA si liberassero dei loro vecchi amici. I paesi alleati degli Stati Uniti, in particolare l’Arabia Saudita e il Qatar, hanno capito che poteva verificarsi anche il rovesciamento del loro regime. Si sono verificati, infatti, tentativi di rivolta nell’est dell’Arabia, soffocati immediatamente con la forza.

Poi, davanti agli occhi di tutto il mondo, che assiste passivamente, i Sauditi hanno mandato le loro truppe in Bahrain per opprimere il grande movimento popolare del Paese. Come si può allora credere alla sincerità delle affermazioni di questi regimi che si ergono ora a sostenitori delle rivendicazioni del popolo siriano alla libertà e alla democrazia?

Oggi non si può parlare, nel caso della Siria, di una sollevazione popolare contro un regime dittatoriale corrotto, come è stato in Tunisia prima e in Egitto poi. L’impressione che si ricava dalle poche immagini che giungono dalla Siria è piuttosto di una situazione di caos e di violenza organizzata da bande armate che vogliono destabilizzare il Paese, confermata dal fatto che questa violenza si dirige soprattutto contro la popolazione civile.

La rivolta siriana infatti non appare simile ai modelli precedenti, ma sembra piuttosto creata dall’esterno, così che non è possibile parlare di una rivoluzione popolare come quella che ci mostravano le immagini di piazza Tahrir in Egitto.Non difendo sicuramente il regime siriano, tant’è vero che in Siria ci sarebbero stati tutti gli elementi per giustificare una rivolta popolare: tuttavia si ritiene che la crisi siriana attuale non presenti i caratteri di una lotta per i diritti umani e la libertà. Inoltre la pressione esercitata fin da subito sul regime siriano sarebbe stata sufficiente per permettere un transito verso una fase di maggiore democrazia nel Paese: in realtà non c’è la volontà di cogliere i segnali positivi che vengono dal regime siriano in vista di una soluzione, ma anzi si vuole spingere la Siria nel caos e nella violenza con il rischio di trascinare nella catastrofe anche i paesi confinanti (Libano, Giordania, Iraq e Turchia). Le forze usate per questo piano di destabilizzazione della Siria sono quelle dell’islam radicale, salafita, già utilizzate in Afganistan, al tempo della guerra contro i Russi, poi in Iraq e anche in Libia nella recente guerra fatta passare come guerra di liberazione dal regime di Gheddafi. L’utilizzo di queste forze è veramente rischioso perché si è già visto come poi siano difficilmente gestibili.

Chi utilizza queste forze per i propri interessi (storicamente l’Arabia Saudita e attualmente anche il Qatar), lo fa soprattutto per dare stabilità al proprio regime, in quanto gli elementi principali per fare scoppiare una rivoluzione esistono manifestamente anche nei Paesi “moderati” che hanno in comune tre fattori: (1) sono amici dichiarati di Israele e dell’America, (2) esiste al loro interno un legame molto stretto tra business e potere e (3) vi svolgono un ruolo particolare le mogli dei dittatori, implicate pesantemente nella corruzione nel campo della finanza.

“La rivoluzione”: dagli amici dell’America ai suoi nemici
Il regime siriano, pur destinato a finire perché basato sulla paura e sull’assenza di un vero dialogo politico, non presenta nessuna delle tre costanti dette prima: di conseguenza una rivolta avrebbe richiesto tempi lunghi di maturazione. Allora, per far precipitare la situazione, si è ideata la guerra libica, che non appartiene al modello della primavera araba ma che ha determinato subito l’intervento militare della NATO e dei paesi arabi alleati, quali Giordania e Qatar. Intervento facile, perché la Libia non ha importanza dal punto di vista geopolitico: è in gran parte deserto e procura vantaggi enormi (è un mare di petrolio). Mentre l’attenzione della gente è concentrata sulla Libia, viene creata la figura del cugino di Baschār El-Asad, l’uomo che coniuga business e autorità: è il cugino corrotto che ha in mano la finanza del Paese, prima sconosciuto al mondo arabo ora improvvisamente noto. Poi iniziano gli scontri armati nella località di Dara‘a, causati all’inizio da un fatto forse non rilevante: l’incapacità del governatore di risolvere un problema locale legato a una crisi momentanea.

In realtà la decisione di far cadere il regime siriano era già stata presa da tempo, negli anni novanta, ma l’astuzia politica di Asad padre era riuscita sempre a contrastare questo progetto. Anche la guerra nel sud del Libano e poi la guerra di Gaza avevano l’obiettivo di colpire la Siria.

Dopo la prima fase della crisi siriana, quando i media non avevano ancora attaccato Baschār, si comincia a fare il nome del fratello, Maher, descrivendolo come un pericoloso assassino. Mentre Baschar è riformista ma debole, il fratello è autoritario e sanguinario. Infine si fa comparire la figura di Asma, la moglie corrotta di Baschār El Asad. Progressivamente si creano cioè le tre costanti secondo il modello descritto sopra. D’altronde l’America sa di non potere intervenire militarmente in Siria per non mettere a rischio la sicurezza di Israele e allora cerca di indebolire il regime, come fece a suo tempo con Saddam in Iraq, creando punti di instabilità e di conflitto in varie direzioni. Gli integralisti islamici utilizzati come strumento di destabilizzazione della Siria sono gli stessi creati in Libia con l’avallo delle potenze occidentali.

Credo che nessuno possa immaginare le disastrose conseguenze che la caduta della Siria potrebbe originare, ben peggiori dello scenario iracheno. Il pericolo è legato agli strumenti utilizzati per rovesciare il regime, già introdotto in Libia: le forze radicali (salafite) sponsorizzate dal Qatar. Il Qatar ha manifestato di essere lo sponsor ufficiale di tutti i gruppi radicali inaugurando la moschea più grande della regione, sotto il nome del fondatore del wahabismo Mohammad Bin Abd al Wahab, e inoltre con l’istituzione di un ufficio di rappresentanza per i Taliban a Doha, la capitale del Qatar. Anche i fratelli musulmani ora dichiarano che con l’America si può trattare, con questa nuova America che difende i diritti degli stati alla libertà e alla democrazia.

Gli americani, ad esempio, favoriscono il ritorno di Hamas in Giordania: ma di un Hamas nuovo, pragmatico, politico. Questo spiega perché certi Paesi debbano servirsi ora, per realizzare i loro piani, di forze islamiche estremiste, prima messe al bando e combattute con tutti i mezzi. E spiega il ruolo ambiguo giocato dal Qatar in Libia, e il suo sforzo attuale per avere lo stesso ruolo in Siria. L’esportazione di questi gruppi sarebbe controllabile dopo? Temo che la risposta sia assolutamente negativa: dunque dobbiamo temere già da ora le conseguenze catastrofiche di questa politica.

Il ruolo del Qatar nell’appoggio ai Fratelli musulmani dovunque in Medio Oriente ormai è chiaro. A dire il vero, pare che il progetto di islamizzare i paesi arabi abbia avuto il consenso americano con la supervisione del Qatar. Questo è ormai confermato dalla generosità del Qatar nell’offrire tutti i mezzi possibili per attuare il progetto dei “Fratelli musulmani”, dal sostegno economico a quello dei media (Al Jazeera). Anche Hamas ha abbandonato la Siria, preferendo l’alleanza con il Qatar, il quale l’ha accolto a braccia aperte trovando un’altra carta vincente da giocare. Recentemente, il Qatar è riuscito a far ritornare i leader di Hamas in Giordania da cui erano stati espulsi nel 1999. Ciò solleva molte domande riguardanti il futuro di questo movimento e il futuro della Giordania.

La Nuova Hamas è definita una Hamas politicamente più matura, addomesticata, pronta ad adottare la resistenza popolare. In realtà il suo ritorno rappresenta l’inserimento degli interessi di molti giocatori. Per i “Fratelli Musulmani” sarebbe la forza necessaria per poter arrivare al potere. La presenza di Hamas come forza politica darà ai “Fratelli Musulmani” quello che ancora gli è necessario: la popolarità per ottenere un numero maggiore di consensi. La popolarità di Hamas è concentrata e fortemente presente nei campi profughi palestinesi in Giordania.
L’alleanza tra Qatar, Hamas e “Fratelli Musulmani” oggi corrisponde al desiderio americano-israeliano di mettere fine alla questione palestinese. In realtà, l’ingovernabilità siriana potrebbe portare a un caos regionale, con prezzi da pagare altissimi. Giocare alla trasformazione della regione è un fatto gravissimo: la Giordania è il paese cruciale della zona, è il garante della stabilità e una qualsiasi imprudenza volta a cambiare la sua faccia potrebbe generare risultati catastrofici.

È importante notare qui che molti di questi islamisti sono stati scarcerati recentemente. Anche in Giordania ne sono stati rilasciati recentemente 222. La Gran Bretagna ha appena deciso la liberazione di uno dei più pericolosi salafiti e pretende che la Giordania lo accolga e rispetti i suoi diritti. In poco tempo questi nemici di un tempo stanno diventando tutti ricchi. Molti di loro entrano in politica e hanno rapporti con Israele. La televisione israeliana, ad esempio, ha dato spazio su un suo canale al rappresentante dei salafiti egiziani (il partito An-Nur). In Egitto gli integralisti sono riusciti a emergere nelle elezioni, ottenendo i voti delle masse povere e ignoranti alle quali danno soldi forniti dall’Arabia Saudita. È noto che l’Arabia Saudita è storicamente quella che appoggia i salafiti mentre il Qatar, attraverso l’emittente Al Jazeera, finanzia e sostiene i fratelli musulmani. Se questi sono gli strumenti per attuare il piano, ci si deve chiedere da dove essi entrano in Siria.

Non può essere l’Iraq a farli entrare, dal momento che si è dichiarato contrario a una alleanza contro la Siria; la Turchia ha minacciato l’ingresso di truppe turche sul suolo siriano per la protezione dei civili ma poi ha desistito da questa sua intenzione, perché in Turchia ci sono 17 milioni di alawiti che hanno immediatamente attaccato il governo di Erdogan; tant’è vero che recentemente il ministro degli esteri turco, in una sua visita in Iran, ha dichiarato che non può essere la Turchia a tenere sotto controllo la Siria. In Libano ci sono stati scontri armati a Tripoli, per opera di milizie finanziate dall’uomo politico libanese, Hariri, con il denaro dell’Arabia Saudita ma l’esercito libanese ha bloccato queste truppe al confine con la Siria. Non resta che la Giordania, nella quale vi sono attualmente 43 mila libici con la scusa della necessità di ricevere le cure mediche; ma di essi solo 15 mila sono negli ospedali. Perché questi libici si trovano in Giordania? Probabilmente sono gli stessi che hanno fatto la guerra in Libia e che sappiamo essere stati finanziati dal Qatar.

Il regime siriano dunque si trova a combattere contro queste bande di salafiti, non contro il popolo siriano come si vuole fare credere. Come mai questi combattenti sono muniti di armi anti-missile di fabbricazione francese? Proprio questo modello di armi è stato acquistato recentemente dal Qatar dalla Francia.

Questo gioco è estremamente pericoloso. La lezione afgana dovrebbe avere insegnato che queste forze, una volta create, non sono altrettanto facilmente eliminabili. La posizione della Giordania poi è particolarmente delicata perché essa, non avendo risorse e ricchezze proprie, è costretta a dipendere dagli aiuti che le vengono dall’esterno, rendendosi così soggetta ai ricatti degli Stati più forti e ricchi.

Inoltre, sembra che la Giordania sia progressivamente sottoposta a una pressione pesante che la sta mettendo in ginocchio. Occorre essere molto attenti per non cadere nella trappola delle falsificazione mediatica, creata da canali satellitari quali Al Jazeera e El Arabiya e riprodotta fedelmente dai media occidentali che danno una visione falsata della crisi siriana.
Tutto questo rappresenta la contraddizione più forte oggi: i Paesi del Golfo, che non hanno mai conosciuto la democrazia, chiamano altri Paesi ad adottare un processo democratico volto a concedere più libertà ai popoli, mentre loro stessi non hanno mai sperimentato neppure le elezioni.

Tutti i sostenitori della pace devono almeno preoccuparsi per questo piano di islamizzazione della zona medio-orientale in senso radicale. Il timore è che questa regione venga frantumata in tanti staterelli confessionali, tanti piccoli Stati deboli che giustificherebbero la presenza di Israele come Stato ebraico e garantirebbero la sua sicurezza secondo un piano antico ma ancora attuale, che rischia ora di vedere la sua realizzazione. Questo porterebbe a far perdere al Medio Oriente quel carattere di incontro di civiltà, religioni e culture che rappresenta una ricchezza che ha caratterizzato l’Impero Ottomano.

Qui mi sento costretto a fare un appello ai tutti gli amici cristiani e alle Chiese perché siano lucide e presenti nel decidere il futuro di questi popoli. Bisogna, in tutti modi, salvare l’identità religiosa e il tessuto culturale dell’Oriente perche non è ragionevole che il destino dei Paesi che rappresentano la culla storica della civiltà come Giordania, Siria, Libano e Egitto venga deciso dall’enorme ricchezza economica posseduta da alcuni piccoli stati privi di qualsiasi cultura, storia, religione e umanità. Infine, è rilevante osservare l’ultima fatwa rilasciata recentemente dal Mufti dell’Arabia Saudita, in cui ha chiamato alla distruzione di tutte le chiese in Arabia.

Patrizio Ricci

Con esperienza in testate come il Sussidiario, Cultura Cattolica, la Croce, LPLNews e con un passato da militare di carriera, mi dedico alla politica internazionale, concentrandomi sui conflitti globali. Ho contribuito significativamente all'associazione di blogger cristiani Samizdatonline e sono socio fondatore del "Coordinamento per la pace in Siria", un'entità che promuove la pace nella regione attraverso azioni di sensibilizzazione e giudizio ed anche iniziative politiche e aiuti diretti.

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