dal sito Aurora un articolo vermante ‘completo’ autore: Aisling Byrne Counterpunch 06-08 gennaio 2012 – Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
La guerra con l’Iran è già iniziata“, ha scritto di recente un autorevole commentatore israeliano, descrivendo “la combinazione di guerra invisibile e pressione internazionale” applicata sull’Iran. Anche se non detto, il “premio strategico” della prima fase di questa guerra contro l’Iran è la Siria; la prima campagna ampiamente basata sul potere settario. “Oltre al crollo della stessa Repubblica Islamica,” il re saudita Abdullah avrebbe detto, la scorsa estate, “nulla indebolirebbe l’Iran più della perdita della Siria“.
A dicembre, alti funzionari degli Stati Uniti erano espliciti circa la loro agenda sul cambio di regime in Siria: Tom Donilon, consigliere per la sicurezza nazionale degli USA, ha spiegato che “la fine del regime del [presidente Bashar al-] Assad costituirebbe la più grande battuta d’arresto dell’Iran nella regione – un colpo strategico che sposterebbe ulteriormente l’equilibrio di potere nella regione, a danno dell’Iran“. Poco prima, un funzionario chiave dell’attuazione di questa politica, il Sottosegretario di Stato per il Medio Oriente Jeffrey Feltman, aveva dichiarato, nel corso di un’audizione al Congresso che gli Stati Uniti, che avrebbe “inesorabilmente perseguito la nostra strategia a doppio binario di sostegno all’opposizione e di strangolamento diplomatico e finanziario del regime [siriano] fino a raggiungere il risultato“.
Quello che stiamo vedendo in Siria è una campagna deliberata e calcolata per far cadere il governo di Assad, in modo da sostituirlo con un regime “più compatibile” con gli interessi statunitensi nella regione. Il progetto per questo programma è essenzialmente una relazione del 2009 presentata dal neo-conservatore Brookings Institute per un cambio di regime in Iran. Il rapporto – “Quale via per la Persia?” – continua ad essere l’approccio generico strategico degli USA al cambio di regime nella regione.
Una rilettura di esso, insieme al più recente “Verso una Siria post-Assad” (che adotta la stessa lingua e prospettiva, ma si concentra sulla Siria, ed è stata recentemente prodotta da due think-tank neo-conservatori statunitensi) illustra come gli sviluppi in Siria siano stati modellati secondo lo stesso approccio illustrato in dettaglio nella relazione “Quale via per la Persia?“, ma con lo stesso obiettivo: il cambiamento di regime. Gli autori di questi rapporti, tra gli altri, sono John Hannah e Martin Indyk, entrambi ex alti funzionari neo-conservatori dell’amministrazione George W. Bush/Dick Cheney, e sostenitori del cambiamento di regime in Siria. Non è la prima volta che vediamo una stretta alleanza tra neo-con anglo-statunitensi ed islamisti (inclusi, come delle relazioni dimostrano, alcuni con legami con al-Qaida) che lavorano insieme per attuare un cambio di regime in uno stato “nemico”.
Probabilmente, la componente più importante in questa lotta per il “premio strategico” è la deliberata costruzione di una narrazione, in gran parte falsa, che parla di manifestanti democratici disarmati uccisi a centinaia e migliaia mentre protestano pacificamente contro un regime oppressivo e violento, una “macchina assassina” guidata dal “mostro” Assad. Mentre in Libia, la North Atlantic Treaty Organization (NATO) sosteneva che avesse “rapporti non confermati di vittime civili” perché, come il New York Times ha scritto di recente, “l’alleanza aveva creato la propria definizione per ‘confermarlo’: solo una morte che la stessa NATO ha indagato e confermato può essere confermata tale”. “Ma poiché l’alleanza ha rifiutato di indagare sulle accuse“, scrive il Times, “il numero di vittime per sua definizione, non riusciva a muoversi da zero“.
In Siria, vediamo l’esatto contrario: la maggior parte dei media occidentali tradizionali, insieme con i media degli alleati degli USA nella regione, in particolare i canali televisivi al-Jazeera e la saudita al-Arabiya, effettivamente collaboravano con la narrativa e l’agenda del “cambiamento di regime“, senza quasi porsi domande o senza indagare sulle statistiche e informazioni avanzate dalle organizzazioni e dai media finanziati o di proprietà dell’alleanza Stati Uniti/Europa/Stati del Golfo, gli stessi paesi che istigano il cambiamento di regime in primo luogo.
Le accuse di “massacri”, “campagne di stupro contro le donne e le ragazze nelle città prevalentemente sunnite“, “torture” e persino “stupri di bambini“, sono riportate dalla stampa internazionale che si basa in gran parte su due fonti – l’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo con sede in Gran Bretagna ed i Locali comitati di coordinamento (LCC) – con il minimo di ulteriori controlli o verifiche.
Nascosto dietro la rubrica – “non siamo in grado di verificare queste statistiche” – la mancanza di integrità dei media mainstream occidentali nel riportare le notizie, è stata crudamente resa evidente dall’insorgere degli eventi in Siria. Un decennio dopo la guerra in Iraq, sembrerebbe che nessuna lezione dalla demonizzazione di Saddam Hussein e delle sue presunte armi di distruzione di massa, del 2003, sia stata tratta. Le tre principali fonti dei dati relativi al numero di manifestanti uccisi e di persone che manifestano, i pilastri della narrazione, fanno tutte parte dell’alleanza del “cambio di regime”. L’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo, in particolare, avrebbe ricevuto finanziamenti tramite un fondo a Dubai che raccoglie (in modo da essere negabile) denaro occidentale e del Golfo (la sola Arabia Saudita, secondo Elliot Abrams, ha assegnato 30 miliardi di dollari USA per “alleviare le masse” della primavera araba).
Quello che sembra essere un’anonima organizzazione con sede in Gran Bretagna, l’Osservatorio è stato fondamentale nel sostenere le affermazioni sull’uccisione di migliaia di manifestanti pacifici, gonfiando cifre e “fatti”, e spesso esagerando i pretesi “massacri”, e perfino un più recente “genocidio”. Anche se afferma di fare base nella casa del suo direttore, l’Osservatorio è stato descritto come il “front office” di un grande media propagandistico gestito dall’opposizione siriana e dai suoi sostenitori. Il ministero degli esteri russo ha dichiarato crudamente: “L’ordine del giorno del Consiglio di transizione [siriano] [è] composto a Londra dall’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo … E’ anche da lì che le immagini ‘horror’ sulla Siria vengono fabbricate per fomentare l’odio verso il regime di Assad”. L’Osservatorio non è legalmente registrato né come azienda né come ente di beneficenza nel Regno Unito, ma opera in modo informale, non ha sede, né personale e il suo direttore riceve ricchi finanziamenti. Riceve le informazioni, si dice, da una rete di “attivisti” in Siria, il suo sito in lingua inglese è una pagina singola, mentre al-Jazeera, invece ospita un blog aggiornato minuto per minuto sin dall’inizio delle proteste.
Il secondo, la LCC, è la parte più evidente delle infrastrutture mediatiche dell’opposizione, e i loro dati e relazioni rientrano anch’essi solo nel contesto di questa narrazione principale: in un’analisi dei loro rapporti quotidiani, non riuscivo a trovare un unico riferimento a un qualsiasi insorto armato ucciso: i morti riportati erano “martiri”, “disertori”, persone uccise in “manifestazioni pacifiche” e descrizioni simili.
Il terzo è al-Jazeera, il cui biasimevole ruolo nel “segnalare” il Risveglio è stato ben documentato. Descritto da un analista dei media come il “sofisticato portavoce dello stato del Qatar e del suo ambizioso emiro“, al-Jazeera è parte integrante delle “aspirazioni in politica estera” del Qatar. Al-Jazeera ha, e continua, a fornire supporto tecnico, attrezzature, sostegno e “credibilità” agli attivisti e organizzazioni dell’opposizione siriana. I rapporti mostrano che, già nel marzo 2011, al-Jazeera stava fornendo supporto informativo e tecnico agli attivisti dell’opposizione siriana in esilio, che anche dal gennaio 2010 hanno coordinato le loro attività di comunicazione da Doha. Dopo quasi 10 mesi, tuttavia, e nonostante il quotidiano assalto dei media internazionali, il progetto non è andato esattamente come previsto: un sondaggio di YouGov commissionato dalla Qatar Foundation, ha mostrato la scorsa settimana che il 55 per cento dei siriani non vuole che Assad si dimetta e il 68 per cento dei siriani disapprova le sanzioni imposte della Lega Araba al loro paese. Secondo il sondaggio, il sostegno ad Assad effettivamente è aumentato dall’inizio degli eventi attuali – il 46 per cento dei siriani riteneva Assad un presidente “buono” per la Siria, prima delle manifestazioni nel paese – cosa che certamente non si adatta con la falsa narrativa che viene spacciata.
Sbandierandolo come un successo della loro campagna di propaganda, il sommario del sondaggio conclude: “La maggior parte degli arabi crede che il presidente siriano Bashar al-Assad dovrebbe dimettersi a causa dei brutali trattamenti dei manifestanti da parte del regime… l’81% degli arabi [desidera] che il Presidente Assad si dimetta. Credono che la Siria starebbe meglio se elezioni libere e democratiche si svolgessero sotto la supervisione di un governo di transizione“.
Resta da chiedersi verso chi Assad è esattamente responsabile, nei confronti del popolo siriano o del pubblico arabo? Una confusione di linee che potrebbe forse essere utile ai due principali gruppi di opposizione siriani, che hanno appena annunciato che, mentre sono contrari all’intervento militare straniero, non considerano “un intervento arabo” straniero. Non sorprende che non un solo grande giornale o notiziario mainstream abbia riportato i risultati del sondaggio di YouGov – non si adatta alla loro linea.
Nel Regno Unito, la volontaria Muslim News era l’unico giornale a riferire i risultati, eppure solo due settimane prima, nel periodo immediatamente successivo delle esplosioni dei kamikaze a Damasco, sia il Guardian, che altre fonti, poche ore dopo le esplosioni, pubblicarono articoli non confermati dei blogger, tra cui uno che era “certo che alcuni dei corpi … fossero quelli dei manifestanti”. “Hanno messo i corpi prima“, ha detto, “hanno preso dei morti da Dera’a [a sud] e hanno mostrato i corpi ai media a Jisr al-Shughour [vicino al confine turco.]“
Articoli recenti hanno gettato seri dubbi sulla correttezza del falso scenario spacciato quotidianamente dalla stampa mainstream internazionale, in particolare le informazioni emesse dall’Osservatorio siriano per i diritti umani e dal LCC. A dicembre, il gruppo d’intelligence statunitense Stratfor aveva ammonito: “La maggior parte delle più gravi affermazioni dell’opposizione [siriana], si è rivelata essere grossolanamente esagerata o semplicemente falsa… rivelando molto di più i punti di debolezza dell’opposizione che il livello d’instabilità interna del regime siriano.” Durante i nove mesi di rivolta, Stratfor ha consigliato prudenza sulla precisione del resoconto generalizzato sulla Siria: a settembre ha commentato che “con le due parti di ogni guerra … la guerra delle percezioni in Siria non fa eccezione“. Le relazioni dell’Osservatorio siriano per i diritti umani e del LCC, “come quelli del regime, dovrebbero essere considerate con scetticismo“, sostiene Stratfor, “l’opposizione capisce che ha bisogno del sostegno esterno, in particolare del sostegno finanziario, se vuole essere un movimento più robusto di ora. A tal fine, ha tutte le ragioni per presentare i fatti sul terreno in modo da ottenere l’appoggio straniero“.
Come il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov ha osservato: “E’ chiaro che lo scopo è provocare una catastrofe umanitaria, per avere un pretesto per invocare l’interferenza estera in questo conflitto“. Allo stesso modo, a metà dicembre, American Conservative ha riferito: “Gli analisti della CIA [Central Intelligence Agency] sono scettici per quanto riguarda la marcia verso la guerra. Lo spesso citato rapporto delle Nazioni Unite, secondo cui più di 3.500 civili sono stati uccisi dai soldati di Assad, si basa in gran parte su fonti dei ribelli e non è corroborata. L’Agenzia si è rifiutata di sostenere tali affermazioni. Allo stesso modo, i resoconti sulle defezioni di massa dall’esercito siriano e delle battaglie campali tra disertori e soldati sembrano essere falsi, con poche defezioni confermate in modo indipendente. Le affermazioni del governo siriano secondo cui viene assalito da ribelli armati, addestrati e finanziati dai governi stranieri sono più vere che false.” Recentemente, a novembre, l’esercito libero siriano ha detto che le sue forze sarebbero più numerose ma, come ha spiegato un analista, “consigliano i simpatizzanti di ritardare la loro defezione“, fino a quando le condizioni regionali miglioreranno.
Una guida per un cambiamento di regime
In relazione alla Siria, la sezione tre del rapporto la “Strada per la Persia” è particolarmente rilevante – è essenzialmente una guida dettagliata sulle opzioni per istigare e sostenere una rivolta popolare, ispirando una rivolta e/o istigando un colpo di stato. Il rapporto viene fornito completo di una sezione “Pro e Contro“: “Una rivolta è spesso più facile da istigare e sostenere dall’estero … le insurrezioni sono notoriamente facili da sostenere … il sostegno segreto a una insurrezione garantirebbe agli Stati Uniti una “negazione plausibile”… [con meno] gioco diplomatico e politico … anche se gli Stati Uniti dovessero avviare una azione militare diretta … Una volta che il regime soffre di qualche grave battuta d’arresto [questo] offrirà l’opportunità di agire“. L’azione militare, sostiene il rapporto, verrebbe presa solo una volta che le altre opzioni siano state attuate e abbiano dimostrato di aver fallito, mentre la “comunità internazionale“, poi, concluderebbe che un qualsiasi attacco al governo, “se lo sarebbe procurato da sé” rifiutando un buon accordo.
Gli aspetti chiave nell’istigare una rivolta popolare e la costruzione di una “vera e propria insurrezione” sono evidenti in relazione agli sviluppi in Siria. Questi includono:
“Finanziamento ed organizzazione dei rivali interni del regime” tra cui l’uso “infelice” dei gruppi etnici;
“Costruire la capacità di una ‘opposizione efficace’ con cui lavorare“, per “creare una leadership alternativa per la presa del potere“;
Fornitura di attrezzature e sostegno segreto ai gruppi, incluso armi – direttamente o indirettamente, così come “fax … accesso a internet, fondi” (sull’Iran il rapporto osserva che la “CIA potrebbe prendersi cura della maggior parte delle forniture e della formazione di questi gruppi, come è stato per decenni in tutto il mondo“);
Formazione e facilitazione delle comunicazioni degli attivisti dell’opposizione;
Costruire un racconto “con il sostegno dei media USA, per mettere in luce le carenze del regime e far altrimenti oscurare i critici più importanti” – “screditare il regime tra gli opinionisti chiave, è fondamentale per il suo crollo“;
La creazione di un budget finanziario di grandi dimensioni per finanziare una vasta gamma di iniziative promosse dalla società civile (il cosiddetto “fondo di 75 milioni di dollari” creato dall’ex segretaria di Stato Condoleezza Rice, per finanziare i gruppi della società civile, tra cui “una manciata di think-tank e istituzioni periferiche [che] aveva annunciato un nuovo Iran“);
La necessità di un corridoio terrestre in un paese confinante “per sviluppare un’infrastruttura per supportare le operazioni“.
“Oltre a ciò,” continua il rapporto, “la pressione economica degli Stati Uniti (e forse militare) può screditare il regime, spingendo la popolazione a favore della leadership rivale.” Gli Stati Uniti e i loro alleati, in particolare Gran Bretagna e Francia, hanno finanziato e aiutato la “formazione” dell’opposizione fin dall’inizio – la costruzione sia con i tentativi iniziati dagli Stati Uniti nel 2006, per costruire un fronte unitario contro il governo Assad, che il “successo” percepito del modello del Consiglio Nazionale di transizione libico.
Nonostante mesi di tentativi – principalmente da parte dell’Occidente – nel raggruppare i vari gruppi in uno solo, il movimento di opposizione principale rimase “un gruppo eterogeneo, che rappresenta la divisione ideologica, settaria e generazionale del paese”. “Non c’era o non c’è ora una tendenza naturale verso l’unità tra questi gruppi, dal momento che appartengono a contesti ideologici totalmente diversi ed hanno opinioni politiche antagoniste“, ha concluso un analista. In un recente incontro con il ministro degli esteri inglese, i diversi gruppi non avevano nemmeno voluto incontrare William Hague tutti insieme, invece lo hanno incontrato separatamente.
Tuttavia, nonostante la mancanza di coesione, credibilità e legittimità interna, l’opposizione, prevalentemente sotto l’egida del Consiglio nazionale siriano (SNC), è stata presentata in tale ruolo. Ciò ne include la capacità di realizzazione, come conferma l’ex ambasciatore siriano negli Stati Uniti, Rafiq Juajati, ora parte dell’opposizione. In una conferenza chiusa a Washington DC, a metà dicembre 2011, ha confermato che il Dipartimento di Stato degli USA e l’Istituto tedesco per gli Affari internazionali e la Sicurezza SWP (un think-tank che fornisce analisi sulla politica estera al governo tedesco) finanziano un progetto che viene gestito dall’Istituto per la Pace degli Stati Uniti e dalla SWP, lavorando in partnership con il CNS per prepararlo ad impadronirsi e a gestire la Siria.
In una recente intervista, il leader del CNS Burhan Ghaliyoun rivelò (in modo da “accelerare il processo” della caduta di Assad) le credenziali che ci si aspettava da lui: “Non ci sarà nessun rapporto speciale con l’Iran”, aveva detto. “Rompere il rapporto eccezionale significa rompere l’alleanza militare strategica“, aggiungendo che “dopo la caduta del regime siriano, [Hezbollah], non sarà più lo stesso.” Descritti sulla rivista Slate come “i più liberali e filo-occidentali delle rivolte della primavera araba“, i gruppi dell’opposizione siriana sono assimilabili alle loro controparti libiche prima della scomparsa di Muammar Gheddafi, che il New York Times ha descritto dalla “mentalità laico-professionale – avvocati, accademici, uomini d’affari – che parlano di democrazia, trasparenza, diritti umani e Stato di diritto“, finché in realtà non passarono con l’ex leader del Gruppo combattente islamico libico Abdulhakim Belhaj e i suoi alleati jihadisti. L’importazione di armi, attrezzature, manovalanza (in prevalenza dalla Libia) e l’addestramento da parte di governi e altri gruppi legati a Stati Uniti, NATO e loro alleati regionali, iniziò nell’aprile-maggio 2011, secondo vari rapporti, e fu coordinato dalla US Air Force Base di Incirlik, nel sud della Turchia. Da Incirlik, una divisione per la guerra delle informazioni dirige anche le comunicazioni verso la Siria per l’esercito libero siriano. Questo supporto segreto continua, come American Conservative ha riportato a metà dicembre: “Aerei senza contrassegni della NATO arrivano sulle basi militari turche, vicino ad Iskenderum, sul confine siriano, consegnando armi … e volontari del Consiglio nazionale di transizione libico… Iskenderum è anche la sede dell’esercito libero siriano, il braccio armato del Consiglio nazionale siriano. Le forze speciali francesi e inglesi addestrano le forze sul campo, assistendo i ribelli siriani, mentre la CIA e le Special Operations degli Stati Uniti forniscono sistemi di comunicazione e d’intelligence per aiutare la causa dei ribelli, permettendo ai combattenti di evitare le concentrazioni dei soldati siriani“.
Il Washington Post ha rivelato nell’aprile 2011 che WikiLeaks ha recentemente dimostrato che il Dipartimento di Stato sta fornendo milioni di dollari a diversi gruppi di esiliati siriani (compreso il Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo di Londra, affiliato alla Fratellanza Musulmana) e a singoli individui, fin dal 2006, attraverso la sua “Middle Est Partnership Initiative“, gestita da una fondazione degli Stati Uniti, il Democracy Council. I cabli di Wikileaks confermano anche che nel 2010 questo finanziamento continuava, una tendenza che non solo continua ancora oggi, ma che si è ampliata alla luce del passaggio all’opzione del “soft power” volta a un cambio di regime in Siria. Mentre questa richiesta dei neo-con di cambio di regime in Siria, guadagna forza all’interno del governo degli Stati Uniti, tale politica è stata anche istituzionalizzata fra i principali think-tank di politica estera degli Stati Uniti, molti dei quali hanno “uffici sulla Siria” o “gruppi di lavoro sulla Siria” che collaborano strettamente con gruppi ed individui dell’opposizione siriana, (ad esempio, USIP e la Foundation for the Defense of Democracy) e che hanno pubblicato una serie di documenti politici a supporto del cambiamento di regime. Nel Regno Unito, la similare neo-con Henry Jackson Society (che “sostiene il mantenimento di un esercito forte da parte degli Stati Uniti, dei paesi dell’Unione europea e delle altre potenze democratiche, dotate di capacità di proiezione globale” e che ritiene che “solo i moderni stati liberal-democratici sono davvero legittimi“) sta anch’essa supportando il programma per il cambiamento di regime in Siria. E ciò in collaborazione con esponenti dell’opposizione siriana, tra cui Ausama Monajed, ex leader del gruppo dei siriani in esilio, il Movimento per la Giustizia e Sviluppo, legata ai Fratelli Musulmani, finanziato dal Dipartimento di Stato statunitense fin dal 2006, come sappiamo da WikiLeaks. Monajed, un membro del CNS, attualmente dirige una società di pubbliche relazioni recentemente creata a Londra, che tra l’altro fu la prima ad usare il termine “genocidio” in relazione agli eventi in Siria, in un recente comunicato stampa del CNS.
Sin dall’inizio, una forte pressione è stata esercitata sulla Turchia per creare un “corridoio umanitario” lungo il suo confine meridionale con la Siria. L’obiettivo principale di questo, come afferma “Strada per la Persia“, è fornire una base da cui una rivolta appoggiata esternamente possa essere lanciata e basata. L’obiettivo di questo “corridoio umanitario” è umanitario quanto le quattro settimane di bombardamenti NATO di Sirte, quando la NATO ha esercitato il suo mandato per la “responsabilità a proteggere“, approvato dal Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Tutto questo non vuol dire che non ci sia una vera e propria grande richiesta di cambiamento in Siria contro le infrastrutture dominate dalla sicurezza repressiva, che domina ogni aspetto della vita delle persone, né che delle pesanti violazioni dei diritti umani non siano state commesse, sia dalle forze di sicurezza siriane che dai ribelli armati dell’opposizione, così come dai misteriosi personaggi della terza forza, tra cui i ribelli jihadisti, che operano fin dall’inizio della crisi in Siria per lo più dall’Iraq e dal Libano, così come più recentemente dalla Libia, tra gli altri. Tali abusi sono inevitabili in un conflitto a bassa intensità. I principali critici di questo progetto di cambiamento di regime anglo-franco-statunitense-Golfo hanno, fin dall’inizio, richiesto la piena responsabilità e la punizione di qualsiasi funzionario di sicurezza o altro, “comunque responsabile“, che abbia commesso violazioni dei diritti umani.
Ibrahim al-Amin scrive che alcuni del regime hanno ammesso “che il rimedio della sicurezza era dannoso in molti casi e regioni [e] che tale risposta alle proteste popolari era sbagliata… sarebbe stato possibile contenere la situazione con chiare e ferme misure concrete – come arrestare i responsabili delle torture dei bambini di Deraa“. E sostiene che la domanda di pluralismo politico e fine della repressione onnicomprensiva sia indispensabile e urgente. Ma ciò che può aver iniziato le proteste popolari, inizialmente incentrate su questioni locali e incidenti (compreso il caso delle torture a dei ragazzi di Dera’a da parte delle forze di sicurezza) e che poi sono state rapidamente dirottate su questo più ampio piano strategico per il cambiamento di regime. Cinque anni fa, ho lavorato nel nord della Siria con le Nazioni Unite per la gestione di un grande progetto di sviluppo delle comunità. Dopo le riunioni serali della comunità, non era raro trovare il Mukhabarat (servizi segreti militari) in attesa che liberavamo la stanza, in modo da poter eseguire la scansione delle lavagne sulle pareti. Quasi ogni aspetto della vita quotidiana della gente veniva regolato dalle sclerotiche e inefficienti burocrazia e sicurezza del partito Baath, privo di una qualsiasi ideologia a parte l’inevitabile corruzione e nepotismo che suscitano il potere autoritario, ciò era evidente in ogni aspetto della vita della gente.
Il 20 dicembre è stato indicato quale il “giorno più letale in nove mesi di rivolta [siriana]” con il “massacro organizzato” di una “massiccia defezione” di disertori dell’esercito, ampiamente riportato dalla stampa internazionale, a Idlib, nel nord della Siria. Affermando che aree della Siria sono ora “esposte a un grande genocidio“, con il CNS che aveva lamentato che “250 eroi erano caduti in 48 ore“, citando dati forniti dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. Citando la stessa fonte, il Guardian ha riferito che l’esercito siriano: “… dava la caccia ai disertori … dopo che le truppe hanno ucciso quasi 150 uomini che erano fuggiti dalla loro base”. Emerse il quadro … di una defezione di massa … andata molto male … con le forze lealiste posizionate in modo da falciare un gran numero di disertori mentre fuggivano da una base militare. Coloro che sono riusciti a fuggire furono poi cacciati nei nascondigli nelle montagne vicine, più fonti hanno riferito. L’Osservatorio siriano per i diritti umani stima che 100 disertori siano stati assediati e poi uccisi o feriti. Truppe regolari presumibilmente avrebbero anche braccato i residenti che avevano dato rifugio ai disertori.“
Il blog del Guardian citava AVAAZ, il gruppo di relazioni pubblico e sostenitore politico civico, che “sosteneva che 269 persone erano state uccise negli scontri“, e citava il numero preciso di vittime dato da AVAAZ: “163 rivoluzionari armati, 97 delle truppe governative e 9 civili“. Avevano rilevato che AVAAZ “non aveva fornito nulla per avvalorare l’affermazione.” Il Washington Post ha riferito solo che aveva parlato di “un attivista del gruppo AVAAZ [che] ha detto di aver parlato con attivisti locali e gruppi di medici che portano il numero dei morti, in quella zona, a 269.”
Il giorno dopo i primi rapporti del massacro dei disertori, tuttavia, la storia era cambiata. Il 23 dicembre, il Telegraph ha riferito: “In un primo momento si diceva fossero disertori dell’esercito che tentavano di penetrare in Turchia per aderire alla FSA [l’esercito libero siriano], ma ora hanno detto che erano civili disarmati e attivisti che tentavano di fuggire dall’esercito che cercava di mettere sotto controllo la provincia. Erano circondati da truppe e carri armati che li uccisero fino a che non ci furono sopravvissuti, secondo i rapporti.” Il New York Times il 21 dicembre aveva riferito che il “massacro”, citando l’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo, era stato commesso contro “civili e attivisti disarmati, senza che vi fossero disertori armati tra di loro, avevano detto i gruppi per i diritti.” Citando il capo dell’Osservatorio, che aveva parlato di “un massacro organizzato” e aveva detto che il suo resoconto era corroborato da quello di un testimone, Kfar Owaid: “Le forze di sicurezza avevano la liste dei nomi di coloro che avevano organizzato le massicce proteste anti-regime … le truppe quindi avevano aperto il fuoco con carri armati, razzi e mitragliatrici pesanti [e], bombe riempite di chiodi per aumentare il numero delle vittime.” Il LA Times aveva citato un attivista che parlando via satellite che, dalla sua posizione “protetta nei boschi“, commentava: “la parola ‘Massacro’ non basta per descrivere quello che è successo“. Nel frattempo, il governo siriano ha riferito che il 19 e 20 dicembre aveva ucciso “decine” di membri delle “bande armate terroristiche” di Idlib ed Homs, e aveva arrestato molti altri ricercati.
La verità di questi due giorni “mortali” probabilmente non sarà mai conosciuta – le cifre citate (tra 10-163 insorti armati, 9-111 civili disarmati e 0-97 governativi) si differenziano in modo significativo nei numeri degli uccisi e su chi fossero, per poter stabilire la “verità”. In relazione ad un precedente presunto “massacro” ad Homs, un’indagine di Stratfor non ha trovato “alcun segno di un massacro“, concludendo che “le forze di opposizione hanno interesse nel riferire di un massacro imminente, sperando di riprodurre le condizioni che hanno spinto all’intervento militare straniero in Libia“. Tuttavia, il “massacro” del 19-20 dicembre a Idlib è stato segnalato come un fatto, ed è stato inciso nella narrazione sulla “macchina assassina” di Assad.
Sia la recente relazione del Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite che il recente articolo sui decessi, segnalati dai blog, nella “sanguinosa rivolta in Siria” del Guardian (pubblicato il 13 dicembre) – due esempi dei tentativi di stabilire la verità sul numero dei morti nel conflitto siriano – si basano quasi esclusivamente sui dati forniti dall’opposizione: interviste a 233 presunti “disertori dell’esercito” nel caso del rapporto delle Nazioni Unite, e sulle relazioni dell’Osservatorio siriane per i diritti umani, la LCC e al-Jazeera, nel caso del blog del Guardian.
The Guardian riporta un totale di 1.414,5 (sic) persone uccise – tra cui 144 addetti alla sicurezza siriana – tra gennaio e il 21 novembre 2011. Basata esclusivamente su notizie di stampa, la relazione contiene una serie di inesattezze di base (ad esempio fonti che non fanno corrispondere il numero dei morti con i luoghi citati nelle fonti originali): il totale comprende 23 siriani uccisi dall’esercito israeliano a giugno (2011), sulle alture del Golan, 25 persone indicate “ferite” incluse nel totale dei morti, come anche molte persone indicate come uccise da arma da fuoco. Il rapporto non fa alcun riferimento ad eventuali uccisioni di insorti armati per tutto il periodo di 10 mesi – tutte le vittime sono “contestatori”, “civili” o “gente del popolo” – a parte i 144 addetti alla sicurezza. Il settanta per cento delle fonti dei rapporti proviene dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, la LCC e gli “attivisti“, il 38 per cento dalle notizie di stampa provengono da al-Jazeera, il 3 per cento da Amnesty International e l’1,5 per cento da fonti ufficiali siriane.
In risposta alla relazione del Commissario delle Nazioni Unite, l’ambasciatore siriano alle Nazioni Unite ha commentato: “Come dei disertori potrebbero dare testimonianze positive sul governo siriano? Certo che daranno testimonianze negative contro il governo siriano. Sono disertori“.
Nel tentativo di gonfiare il numero di vittime, il gruppo attivista di pubbliche relazioni AVAAZ ha costantemente superato persino l’ONU. AVAAZ ha dichiarato pubblicamente che si occupa “dell’esfiltrazione di attivisti dal paese“, della gestione di “case segrete per dare un sicuro riparo … agli attivisti dai mazzieri del regime” e un “giornalista civico di AVAAZ” ha “scoperto una fossa comune“. Afferma con orgoglio che la BBC e la CNN hanno riportato per il 30 per cento della loro copertura giornalistica della Siria, notizie fornite da AVAAZ. The Guardian ha riferito l’ultima affermazione di AVAAZ di avere le “prove” dell’uccisione di circa 6.200 persone (comprese forze di sicurezza e 400 bambini), sostenendo che 617 di loro sono morti sotto tortura – e la giustificazione di aver verificato ogni singola morte con la conferma di tre persone “incluso un parente e un chierico che ha curato il corpo” è estremamente improbabile.
L’uccisione di un brigadier generale e dei suoi figli,ad aprile dello scorso anno ad Homs, illustra come sia quasi impossibile, soprattutto durante un conflitto settario, verificare anche una sola uccisione – in questo caso, un uomo e i suoi figli: “Il generale, che si ritiene fosse Abdu Tallawi, è stato ucciso con i suoi figlio e nipote, mentre attraversava un quartiere in agitazione“. Ci sono due resoconti di quello che è successo a lui e alla sua famiglia, e si differenziano sulla setta della vittima. I lealisti dicono che è stato ucciso da takfiri – islamisti integralisti che accusano di apostasia gli altri musulmani – perché apparteneva alla setta alawita. I manifestanti insistono sul fatto che era un membro della famiglia Tallawi di Homs, e che è stato ucciso dalle forze di sicurezza per accusare l’opposizione e distruggerne la reputazione. Alcuni addirittura sostengono che gli hanno sparato perché si era rifiutato di sparare ai manifestanti. Il terzo resoconto viene ignorato a causa della estrema polarizzazione delle opinioni nella città [di Homs]. Il brigadiere-generale è stato ucciso perché era in un veicolo militare, anche se aveva con se figlio e nipote. Chi lo ha ucciso non era interessato alla sua setta, ma ad assestare un colpo al regime, provocando una repressione ancora più dura, che a sua volta, avrebbe trascinato il movimento di protesta in un ciclo di violenze contro lo Stato.
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