Visto il discorso della Presidente della Commissione von der Layen – che ha illustrato il 18 settembre 2020 il progetto programmatico stabilito dall’Unione per le prossime generazioni di europei- , vale rileggere il giudizio della dottrina sociale della Chiesa, espressa dagli ultimi Pontefici tramite le encicliche. Ce lo ricordava in una sintesi, mons Luigi Negri nel 2004 sulle pagine di Cultura Cattolica.
A mio avviso, vale la pena rileggerla. La ripropongo: (questa è la seconda parte):
Fonte: Cultura Cattolica.it – Vai a “Dottrina Sociale” –
Da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II
Questa seconda parte dovrebbe condurre a comprendere lo stato presente della questione sociale e le prospettive per il futuro.
Da quanto abbiamo detto finora, emerge un’importante considerazione: la Dottrina sociale è stata pensata come ipotesi per guidare una presenza missionaria, in una situazione culturale, sociale, politica completamente diversa da quella in cui la Chiesa aveva vissuto per secoli.
Di fronte ad un progetto, che abbiamo definito globalmente, sulla scorta dell’insegnamento dei Papi, di carattere ateistico, sta un altro progetto che la Chiesa presenta, dapprima prendendo le distanze da quello vincente e in un secondo momento dimostrando che esiste una proposta positiva alternativa.
Esiste un’altra concezione di Stato, per cui esso è al servizio della società e non pretende di assorbire in sé la struttura sociale. In un terzo momento, la Chiesa si è presa anche la responsabilità di mostrare come questo progetto ateistico fosse destinato a fallire: anzitutto, per uno scollamento profondo che si sarebbe andato ulteriormente rafforzando tra la vita dei popoli e la vita degli Stati; poi, perché il passaggio dal liberalismo come richiesta di libertà al totalitarismo, è un passaggio necessario.
Il totalitarismo culturale, prima ancora del totalitarismo socio-politico, è una inevitabile conseguenza del progetto ateistico.
La seconda guerra mondiale ha messo a nudo il fallimento dell’ideologia laicista: è un fallimento di proporzioni globali, una distruzione dell’insieme del tessuto culturale e sociale del mondo. La ricostruzione appare un problema non solo materiale, ma anche antropologico, etico e culturale.
Questo è un tema che ricorre nel Magistero del dopoguerra di Pio XII: la Santa Sede può sfruttare quella che il Papa diverse volte ha definito «un enorme autorità morale». La Chiesa ha a suo vantaggio la coerenza di una posizione mai lasciata; ha a suo vantaggio l’aver simultaneamente difeso la libertà dei credenti e la libertà dell’uomo.
L’azione della Chiesa, sia come Magistero, sia come pratica di vita, mette al sicuro dalle ritorsioni di carattere ideologico, che invece proseguono tra gli Stati. La Santa Sede, cioè la voce pubblica ufficiale della Chiesa, si trova in una posizione di «insegnamento» nei confronti di tutto lo schieramento dell’ideologia. Essa pretende di indicare a tutte le posizioni culturali e ideologiche un progetto alternativo, per capire ed aderire al quale, non è necessaria la fede.
Questo è lo svolgimento del pensiero del Magistero che comincia a delinearsi nel dopoguerra e risulterà assolutamente chiaro con il pontificato di Giovanni XXIII . Il suo merito è infatti quello di non cedere sulla proposta alternativa rappresentata dal cattolicesimo, ma, allo stesso tempo, di mostrare come su tale proposta è possibile che si incontrino uomini di buona volontà
Anche chi conosce poco la storia della Chiesa, sa che Giovanni XXIII è il primo Papa ad aprire le sue Encicliche rivolgendosi non soltanto ai Vescovi e ai sacerdoti della Chiesa, non solo ai fedeli, ma a tutti gli uomini di buona volontà.
L’Enciclica Mater et Magistra afferma che la proposta del Cristianesimo è molto avanzata e che su questa proposta si può «correre il rischio» di una aggregazione più vasta, che coinvolga anche i non credenti.
Scritta nel 1961, in occasione del settantesimo anniversario della Quadragesimo Anno, la Mater et Magistra contiene una parte intitolata «L’insegnamento della Chiesa», nella quale si afferma che l’alternativa al laicismo ateo è la capacità di coinvolgimento anche di chi non crede. Per far questo bisogna partire da un fondamento realmente alternativo, cioè l’avvenimento di Cristo e la presenza della Chiesa nel sociale, che è in grado di coinvolgere anche chi non è credente.
L’errore più grave dell’epoca moderna è di ritenere l’esigenza religiosa un’espressione del sentimento o della fantasia, quando non addirittura una superstizione, oppure il prodotto di una contingenza storica da eliminare quale elemento anacronistico, ostacolo al progresso umano; mentre è proprio in quella esigenza che l’uomo si rivela per quello che realmente è.
È un fondamento antropologico diverso: l’equivoco della guerra è stato un equivoco di ideologie che hanno negato la dimensione religiosa e vi hanno sostituito una dimensione di potere.
Anche la ricostruzione sarà equivoca, però, se non parte da questo fondamento: il senso religioso dell’uomo. Qualunque sia il progresso tecnico o economico nel mondo, non vi sarà né giustizia né pace, finché l’uomo non ritornerà alla dignità di figlio di Dio. L’uomo staccato da Dio diventa disumano, con se stesso e con i suoi simili, perché l’ordinato rapporto di convivenza presuppone l’ordinato rapporto della coscienza personale dell’uomo con Dio, fonte di giustizia e di amore.
È questo il messaggio del pontificato: occorre mettere decisamente al centro il fondamento antropologico, cioè l’immagine vera dell’uomo che è rivelata solo da Gesù Cristo. Su questo fondamento che implica un rapporto giusto e vero con Dio, si può progettare un discorso di giustizia e amore.
Giovanni XXIII, nella Mater et Magistra e nella Pacem in Terris , dà testimonianza di questo: il massimo di fedeltà all’identità riproposta come alternativa culturale, permette il massimo di apertura, di partecipazione e di solidarietà creativa. Il Magistero di Giovanni XXIII è stato, in fondo, un brevissimo Magistero, il cui merito fondamentale è quello di aver celebrato il Concilio Vaticano II .
I documenti che riguardano la Dottrina sociale, Gaudium et Spes e Dignitatis Humanae , consentono di capire che cosa il Concilio ha fatto: il Concilio ha centrato, innanzitutto, la questione del soggetto missionario. In tutto il periodo precedente, erano apparsi documenti in cui si vedeva il soggetto missionario in azione, ma non si era sufficientemente riflettuto sulle caratteristiche fondamentali della Chiesa come soggetto missionario presente nel mondo.
Il Concilio ha operato un approfondimento della autocoscienza che la Chiesa ha di sé: questa è la definizione che Giovanni Paolo II ha dato del Concilio in quei magnifici quattro numeri iniziali della Redemptor Hominis. La Chiesa nel Concilio, ha maturato un’adeguata coscienza di sé come Sacramento di Cristo, quindi come identità irriducibile della storia, perché caratterizzata dalla presenza di Cristo, che la costituisce come popolo nuovo.
La teologia del popolo di Dio, che è subalterna alla teologia del Corpo di Cristo, è stata riformulata dal Concilio, proprio per sottolineare la visibilità e la socialità della Chiesa e per togliere quindi dall’espressione «Corpo di Cristo», qualsiasi tentazione di leggerla in senso intimistico, spiritualistico o emozionale, che ne riduce il significato. «Corpo di Cristo» significa un avvenimento, una realtà presente, identificata da una precisa coscienza di appartenere a Cristo e di doverlo portare nel mondo a tutti gli uomini.
L’identità di appartenere a Cristo diventa responsabilità di approfondimento del soggetto ecclesiale. Il mondo non può salvarsi se non in riferimento all’avvenimento di Cristo; il limite obiettivo a cui si è arrivati, è l’incomprensibilità dell’uomo a se stesso. La lezione centrale è di carattere filosofico e culturale: l’uomo senza riferimento a Cristo è una realtà incomprensibile, perché Cristo, rivelando Dio all’uomo, rivela anche l’uomo all’uomo. Non è dunque possibile uno sforzo di comprensione e di liberazione che prescinda da Cristo; se invece ci si riferisce a Lui, è possibile entrare nelle vicende della storia, rispettando le caratteristiche della realtà che si affronta.
La dipendenza da Cristo si realizza, pertanto, nel pieno riconoscimento dell’autonomia, perché Cristo non violenta la realtà naturale: l’ha creata e la redime nel rispetto della libertà della persona e della natura propria della realtà.
Nella Dignitatis Humanae viene tracciato il tema della dignità e dei diritti umani, mettendo alla base il diritto alla libertà religiosa. Si respinge inoltre l’accusa mossa alla Chiesa di aver sempre negato tale libertà poiché l’esigenza religiosa appartiene alla struttura naturale dell’uomo.
L’enciclica individua l’interlocutore della missione e il problema prioritario: l’interlocutore è l’uomo, il Concilio non si rivolge all’ideologia; il problema è che la Chiesa viva la sua missione in rapporto con ciò che esiste, con la realtà, oltre l’ideologia. Ciò che esiste oltre l’ideologia è un’istanza religiosa che deve essere rispettata.
La Dignitatis Humanae è una richiesta esplicita chela Chiesa fa agli Stati totalitari: la persona deve essere rispettata per quello che è il cuore e il fulcro della persona, la tensione a Dio. La Dignitatis Humanae è l’apparire dell’interlocutore: cioè la Chiesa parla all’uomo che cerca Dio, parla al suo cuore. Così comincia la richiesta di libertà religiosa alla autorità degli Stati. Ciò che ostacola la Chiesa in questa sua azione, è la permanenza di una impostazione ideologica che è tesa ad assorbire la dimensione religiosa come parte dello Stato.
Individuato l’uomo con la sua dignità di interlocutore, comincia la lotta per la sua difesa. Giovanni Paolo II svolgerà le conseguenze di questa nuova interpretazione del Concilio: il criterio della democrazia di uno Stato è la libertà religiosa. È questa la giusta chiave di lettura per introdurre il Magistero di Paolo VI . Il suo pontificato è un’intensa testimonianza che la fedeltà alla identità della fede dà il massimo di coraggio e di capacità di dialogo, soprattutto nella percezione e nella indicazione delle soluzioni ai problemi dell’uomo e della società.
Il magistero del Papa si svolge a partire dalla Ecclesiam Suam , ma dal punto di vista sociale, occorre far riferimento alla Populorum Progressio . Lo sviluppo dei popoli è individuato da Paolo VI come il nome nuovo della pace: la pace è una convivenza ordinata fra uomini che siano lasciati liberi di cercare e professare la verità e di affrontare il problema in tutte le dimensioni.
La possibilità di forza a una presenza reale dei cattolici. Se essi sono presenti come tali, sono capaci di autentica solidarietà. Non si può accettare che il progresso sia l’eliminazione di una pluralità della vita sociale e che riduca tutto al bisogno materiale. C’è un messaggio sociale che deve essere ascoltato e che deve essere continuamente approfondito e riformulato dalle comunità cristiane vive.
Mentre fino ad ora, formulato il pensiero sociale, il Papa lo consegnava all’Episcopato, ai sacerdoti, Paolo VI fa un passo fondamentale: chiama le comunità cristiane nella loro obiettività ad essere i soggetti della verifica della Dottrina sociale.
Il cristiano, se è presente come realtà nel mondo, non può non arrivare ad impostare i problemi sociali secondo le indicazioni del Magistero e quindi a verificarne l’attuabilità. Si chiarisce, così, la logica di una originalità dell’avvenimento cristiano consapevole, che diventa azione solidale, capace di integrare tutte le posizioni positive.
È un compito arduo, ma in cui il soggetto è enucleato con saggezza. Nel magistero di Paolo VI prende corpo una soggettività concreta, una soggettività ecclesiale di base.
L’enciclica Octogesima Adveniens e l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, evidenziano una delle caratteristiche peculiari dell’epoca moderna: il fallimento dell’antropologia dell’autoimmanenza; l‘uomo, cioè, non può rimanere senza fondamento, e può trovare solo nel riferimento a Dio e a Cristo la sua fondazione e la difesa di sé come soggetto creatore di storia.
N.d.R.: Per approfondire la posizione di Giovanni Paolo II mi è stato molto utile il libro di Luigi Negri, “L’uomo e la cultura nel magistero di Giovanni Paolo II”
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