Lo status della UE: un impero frustrato costruito su presupposti sbagliati
Sul prestigioso sito della Hoover Institution della Stanford University una lettura breve ma densa di significato evidenzia chiaramente la fallacia della visione “progressista” di una sempre maggiore integrazione politica dei paesi europei e mostra come il pacchetto di aiuti relativamente modesto messo in campo per far fronte alla crisi economica provocata dalla pandemia abbia in realtà un prevalente scopo politico: utilizzare la crisi per portare ulteriormente avanti l’accentramento sovranazionale delle politiche fiscali dei paesi membri.
di Jakub Grygiel
12 agosto 2020
Come affermava il Preambolo del Trattato di Roma del 1957, lo scopo dell’allora Comunità economica europea era di “gettare le basi di un’unione sempre più stretta” tra gli europei. Questa frase è stata interpretata come un appello per una fusione politica progressivamente sempre più stretta degli Stati membri, con l’Unione europea come ultima incarnazione di questo scopo. Il problema di questa visione progressista, tuttavia, è duplice: in primo luogo, non è mai pienamente raggiunta, poiché l’obiettivo finale rimane sempre all’orizzonte e, in secondo luogo, è fondata sulla convinzione che un mercato comune possa creare una politica unificata. Di conseguenza, l’UE è sempre nei guai perché è un prodotto perennemente incompiuto, costruito su basi deboli. È un impero frustrato.
Le varie crisi degli ultimi mesi – la Brexit, la continua predazione economica cinese e l’inaspettata pandemia – hanno solo esacerbato questi problemi fondamentali dell’UE. La Brexit, spinta in parte dalla riluttanza britannica a proseguire verso una nebulosa “unione sempre più stretta”, ha scosso la fede delle élite europee nell’inevitabilità storica di questo progetto europeo. Inoltre, ha alterato gli equilibri di potere all’interno dell’UE, rimuovendo un fondamentale contrappeso nelle delicate dinamiche della politica europea: la Germania è molto più difficile da controllare ora. Allo stesso tempo, molti paesi europei, vincolati fiscalmente dalle regole della zona euro, sono diventati più dipendenti dagli investimenti cinesi, e in tutto il continente la Cina è diventata uno dei principali partner economici (per la Germania è il partner commerciale numero uno). Infine, la pandemia ha devastato la maggior parte delle economie, con un effetto particolarmente drammatico in quegli Stati, come l’Italia, che non si erano mai ripresi dalla crisi economica del 2008 e rischiano di dover ristrutturare il proprio debito. Il crollo dell’economia italiana, che è dieci volte più grande di quella della Grecia, molto probabilmente si tradurrebbe in un “Italexit” e nella fine dell’Unione europea.
Queste sfide sono aggravate dalla continua presenza di minacce esterne (la Russia ad est e a sud, la crisi migratoria dal Nord Africa) e tensioni interne (alta disoccupazione nei paesi del Mediterraneo, tensioni sociali con gli immigrati). Non esistono soluzioni facili a questi problemi, ovviamente. Ma le élite politiche europee adottano per tutti la stessa strategia: più unione e più centralizzazione economica. Cioè, usano ogni crisi per fare un altro passo avanti verso quella “unione sempre più stretta” costruita sull’unione monetaria e, in misura crescente, anche fiscale.
La mossa più audace è stata la risposta al caos economico causato dalla pandemia. I leader dell’UE hanno concordato un pacchetto di aiuti relativamente modesto, sostenuto da obbligazioni garantite, per la prima volta, dall’Unione nel suo insieme piuttosto che dai singoli paesi. Ciò consente a paesi come l’Italia di ottenere fondi a un tasso inferiore e riduce il rischio di insolvenza. Il pacchetto di aiuti è più significativo, tuttavia, per come viene finanziato che per le sue dimensioni: un altro segno che i leader dell’UE utilizzano strumenti economici per il loro obiettivo politico di creare un’UE sovranazionale. Si tratta di politica, non di economia: il pacchetto farà ben poco per aiutare la tormentata economia italiana, ma promuoverà surrettiziamente l’istituzione di un’autorità centrale dell’UE che controlli non solo le politiche monetarie, ma anche le politiche fiscali degli Stati.
L’appartenenza alla zona euro già comporta che gli stati, come l’Italia, non abbiano alcun controllo sulle politiche monetarie (ad esempio, non possono stampare moneta e svalutare le loro valute in tempi di grave recessione economica) e siano vincolati nelle loro manovre di bilancio (ad esempio, non dovrebbero superare determinati rapporti deficit / PIL). Ma l’obiettivo è sempre stato quello di sottrarre completamente ai governi nazionali il potere di prendere decisioni in materia fiscale e attribuirlo a un organo centrale dell’UE. Le obbligazioni garantite dall’UE nel suo insieme porteranno naturalmente al passo successivo: una tassa a livello europeo di qualche tipo e un crescente potere fiscale di Bruxelles a scapito delle singole capitali. Non si può fare affidamento sui parlamenti e sui leader nazionali, così si crede, ed è più sicuro lasciare che siano degli esperti a livello dell’UE a prendere le decisioni di politica fiscale per i singoli paesi, per il bene dell’Unione nel suo insieme. Questo per quanto riguarda le democrazie nazionali.
Al di là del disprezzo per la legittimità democratica, una tale visione è fondata su un insieme errato di presupposti che suggeriscono che l’unità economica creerà un unico popolo. Ma allo stesso modo in cui un conto corrente cointestato non crea un matrimonio, un apparato fiscale e monetario centralizzato non stabilirà nessuna nazione e politica europea. La catena di causalità che sta dietro il progetto dell’UE è semplicemente sbagliata. La coesione politica nasce dalla solidarietà nazionale e da un intento comune, non dalla condivisione della stessa moneta o dall’avere un’autorità fiscale centralizzata.
Nessuna delle recenti crisi, tuttavia, ha alterato la visione progressista delle élite politiche dell’UE o la loro fede nel potere di trasformazione di un’autorità monetaria e fiscale a livello europeo. La soluzione alle sfide attuali crea condizioni che garantiscono crisi interne su tutta la linea. L’UE è quindi un impero frustrato: sotto pressione dall’interno e dall’esterno, governata da leader politici indifferenti all’illegittimità democratica delle loro decisioni, incapaci di proteggere i propri confini e stabilizzare le zone limitrofe, e alla costante ricerca di un maggiore controllo sui loro stati membri. Il risultato è che ci saranno crescenti tensioni tra l’apparato dell’UE e i suoi Stati membri (o almeno con alcuni leader nazionali determinati a preservare la legittimità politica e la libertà nazionale). L’euro non crollerà presto e l’UE continuerà a tirare avanti, ma i suoi problemi di fondo rimarranno irrisolti. Le frustrazioni dell’UE sono strutturali, derivano dalla natura stessa di questa entità politica, e non sono solo tribolazioni passeggere legate agli alti e bassi della geopolitica eurasiatica.
(tradotto e pubblicato per la prima volta da voci dall’estero)