Restare cristiani è la prima missione.

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Come si fa a restare cristiani, in un mondo “senza Cristo” o “contro Cristo”?

In verità, il mondo non può mai essere senza Cristo, perché «tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3) e quindi, come dice san Paolo, «la realtà è Cristo» (Col 2,16). La domanda può essere riformulata così: come fa la coscienza del cristiano a rimanere centrata su questa verità, quando nell’esperienza esistenziale del mondo che lo circonda tutto sembra dire altro? Quando più nulla, ormai, sembra additare a Cristo, e tutto sembra negarlo?

Peggio ancora: come si fa a restare cristiani, quando è proibito esserlo, quando ai credenti sono tolti anche i mezzi elementari di sussitenza?

Recentemente, all’Università Gregoriana ne ha parlato un gesuita giapponese, padre Shinzo Kawamura, con riferimento alla vicenda dei “cristiani nascosti” del suo paese, in una conferenza di cui dà conto l’ottimo sito di Sandro Magister qui: http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/10/17/i-cristiani-nascosti-del-giappone-troppo-scomodi-per-questo-pontificato/.

La storia, almeno nelle sue linee generali, è abbastanza conosciuta anche da noi: in Giappone, evangelizzato a metà del XVI secolo da san Francesco Saverio, si formò una fiorente comunità cristiana che raggiunse ben presto proporzioni ragguardevoli (circa trecentomila fedeli). All’inizio del XVII secolo cominciò però una durissima repressione da parte del potere politico, che condusse all’apparente eradicazione di ogni traccia di cattolicesimo nel paese. In realtà i cristiani non scomparvero: iniziò l’epoca dei cosiddetti kakure kirishitan (cristiani nascosti), che per due secoli e mezzo, ignorati e isolati da tutto il resto del mondo cristiano, senza preti, senza chiese, senza libri, senza Messa!, mantennero una minimale (ma essenziale) memoria di Cristo tenendo viva, persino in quelle condizioni estreme, la fede. Il 17 marzo 1865, nel Giappone da poco riaperto (con la forza) ai rapporti con il mondo occidentale, alcuni di loro si presentarno ad uno dei primi missionari tornati nel paese, il padre Petitjean e gli fecero questa domanda: «Siamo della stessa sua fede. Dove possiamo trovare l’immagine di Santa Maria?».

Si è parlato, giustamente, di un “miracolo storico”, perché il persistere di una credenza per un periodo così lungo in condizioni totalmente avverse appare, sul piano strettamente storico, un fatto quanto mai improbabile, ma la domanda che più ci interessa è: “come è stato possibile?”. Il padre Kawamura, nella sua lezione, indica tre fattori che hanno determinato quella improbabile fedeltà: il primo è la confraria, cioè il modello di organizzazione della chiesa in piccoli gruppi di fraternità, costituiti da laici, che i missionari avevano impostato sin dagli inizi della loro attività in Giappone. Questi piccoli gruppi, molto coesi al proprio interno, si sono dimostrati la forma più efficace di sopravvivenza del cristianesimo nella persecuzione. Nessuno (o quasi nessuno: poi Dio, se vuole, suscita anche i santi-eroi solitari, ma sono eccezioni) ce la fa da solo. Ma non c’è bisogno di essere in tanti. Essere in tanti sarebbe meglio, essere in tanti è una festa e un conforto, ma la cosa essenziale è non essere soli. Gesù, se ci si pensa, ha garantito di esserci dove «due o tre sono riuniti» nel suo nome (Mt 18,20).

Il secondo fattore di resistenza è l’attesa. Circolava, tra i kakure kirishitan, una “profezia” attribuita ad un catechista di nome Sebastiano, martirizzato nel 1657, il quale aveva predetto che dopo sette generazioni sarebbe arrivata una nave con dei confessori che avrebbe finalmente permesso a tutti i cristiani di ricevere il sacramento del perdono delle colpe. Non si resiste, se non si spera che la persecuzione un giorno finirà. La speranza è un’attesa certa, senza la quale la fede e la carità non bastano a reggere l’urto del male presente. Un cristianesimo che non sia (anche) escatologico, proteso alla fine di questo mondo, non può farcela a stare al mondo.

Il terzo fattore, già implicito nella profezia di Sebastiano, è il sacramento. Dei sette che la chiesa cattolica possiede, i cristiani nascosti del Giappone per due secoli e mezzo ne ebbero solo uno, il battesimo, ma desiderarono ardentemente gli altri, in particolare la confessione. Per questo, quando nella seconda metà del XIX secolo si sparse la voce che dei missionari occidentali erano tornati in Giappone, furono così cauti nell’accertarsi di avere trovato dei preti cattolici e non dei pastori protestanti. Non potendo confessarsi, durante quei due secoli e mezzo, valorizzarono al massimo “il desiderio di confessarsi” (cioè l’attesa del sacramento), con la pratica della Konchirisanoriyaku, cioè l’atto di contrizione perfetta, come i missionari avevano loro insegnato.

Ecco, la storia dei kakure kirishitan dimostra che anche solo con queste tre cose può sopravvivere il cristianesimo. Qui nell’occidente del XXI secolo, evidentemente, non siamo (e per quanto possiamo prevedere non saremo) nelle loro condizioni, ma queste tre indicazioni metodologiche sono preziose anche per noi.

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